Agosto, mese
mio, ti conosco. La tua
conoscenza la feci grazie al quinto parto di una tale Maria Saveria,
detta Severina, avvenuto proprio oggi, alle ore sedici e quindici, di 56
anni fa.
Come oggi, anche il 12 agosto 1951 era Domenica, ovverosia
il giorno consacrato al Signore. Ciononostante mio padre, come gli altri
362 giorni dell'anno (le uniche feste comandate per lui erano Natale,
Pasqua e San Vito, forse quando l'anno era bisestile anche una mezza
giornata l'8 settembre) era andato a lavorare in campagna.
Quando vi fece ritorno alla sera, si accorse di un recente
trambusto avvenuto in casa ed arguì che c'era stato un altro lieto
evento. Naturalmente era ansioso di sapere se il nuovo arrivato fosse
maschio o femmina, giacché all'epoca non c'erano le ecografie che te lo
facessero sapere con anticipo, sicché egli, prima di varcare la porta
di casa, tese l'orecchio per decifrare dai vagiti se ero un maschietto
od una femminuccia, ed i miei vagiti lo rincuorarono, perché io fui il
secondo maschio, dopo tre femmine.
Allora vi fece ingresso più allegro e, quando vollero
fargli credere che nel fagottino era avvolta una quarta femmina, non ci
abboccò, rispondendo che aveva già sentito dalla voce che ero Antonio.
Il nome era scontato fosse quello, perché il padre di mio
padre era stato già onorato (ben due volte, perché il primo Domenico
se lo prese precocemente la Madonna come angelo intorno a sé), quindi
toccava al padre di mia madre, che si chiamava appunto Antonio, Teto di
cognome. E sono fiero di portare il nome di mio nonno materno, atteso
peraltro che, a differenza di quello paterno, già trapassato altrove
alla mia nascita, ho potuto ricevere fino a quindici anni il suo
affetto.
Tuttavia, un certo rischio l'ho corso di non vedermi assegnare
quel nome, perché non so, se fossi venuto alla luce quattro giorni
dopo, giorno di San Rocco, se i miei genitori se la sarebbero sentita,
non chiamandomi col suo nome, di mancare di rispetto a quel Santo per
antonomasia, temendo di incorrere nei suoi terribili castighi.
Comunque, quel problema non si pose, perché io non gliene
diedi occasione, anzi avrei voluto nascere anche qualche ora prima delle
16,15, se non fosse stato per la levatrice che diceva invece a mia madre
che doveva ancora aspettare, ed il risultato fu che, aspetta ed aspetta,
mi fece venir fuori paonazzo, perché io avevo bisogno d'aria prima.
Superato, tuttavia, quel brutto momento, non feci fatica a
riprendermi, e fu sicuramente meraviglioso approdare in quel mondo di
luce fulgida che tu, mese di agosto, non lesini ad espandere nel creato.
Sono sicuro che furono contente anche le mosche della mia nascita, che
mi avranno fatto le feste, facendo volteggi, sibilando, venendosi a
posare su curiose per osservarmi da vicino.
Dal mio canto, invece, udii con nitidezza quei suoni
ovattati che percepivo prima: le voci umane, il canto del gallo, i
nitriti dei cavalli, i ragli dei somari, le grida ed il vociare di
strada. E poi, che cosa meravigliosa quando mia madre mi porse la sua
mammella, quando cominciai a vedere i suoi occhi, a sentire il suo
tatto, ad annusare il suo odore!
Comunque, a Banzi in via Garibaldi, all'allora numero 20
bis, invece di 102, immagino che furono tutti felici e contenti del mio
arrivo (forse un po' meno qualche vicino di casa, cui avrebbe fatto
comodo disporre di un'altra femmina da comandare per faccende
domestiche), e mio padre quattro giorni dopo (chissà quel giorno fece
una festa in più per recarsi a Tolve a ringraziare San Rocco) andò a
farlo constare in municipio, con la testimonianza di Fortannascere
Michele e Tafaro Luigi, al Sindaco di allora ed Ufficiale di Stato Civile, Antonio Giacomino,
il quale ne prese buona nota... a futura memoria, perché quel bambino
gli avrebbe procurato poi la gioia di tre nipoti.
Ti ho conosciuto poi agosto sempre di più, quando
brulicavi in strada di persone indaffarate sui marciapiedi a battere le
spighe di grano andate a spigolare, a spannocchiare granturco ed ararlo
poi con i piedi una volta sgranato per farlo asciugare; quando le donne
del vicinato si radunavano intorno alla chianca a svolgere le loro
operazioni casalinghe; quando i bambini saltavano e si rincorrevano
festanti in gioco.
Alla sera poi, senza luce artificiale, ridondavi il cielo
di stelle e noi stavamo col naso in su ad incantarci a guardarle.
Qualche nostro padre dormiva sopra un giaciglio fuori sul marciapiede,
per fare la guardia alla sua messe di grano, orzo, avena o granturco,
mentre i grilli riempivano le strade del loro trillare. La gente stava
tutta in allegria ad intrattenersi davanti alle proprie case a
conversare, ma non oltre una certa ora, perché l'alba li attendeva in
piedi.
Poco dopo i dieci anni, l'alba attendeva in piedi anche me,
quando andavo a fare la raccolta del tabacco in qualche campo a diversi
chilometri di distanza: ci si alzava verso le tre e mezzo - quattro e si
ritornava al buio.
Poi agosto lo conosco per andare a bruciare la stoppia nei
campi: era il nostro divertimento da piccoli e mai una volta che il
fuoco si fosse propagato da fare danni. A proposito, proprio cinquanta
anni fa, forse è stata la prima volta, andai a bruciare la stoppia con
mia madre, festeggiando così i miei primi sei anni.
Mi ricordo tuttora la lunga strada che facemmo per andare
verso Palazzo San Gervasio, la breccia bianca della strada, i pali in
legno della luce.
Ed agosto ti ho conosciuto quando negli anni
sessanta, all'inizio della sua immigrazione, mio fratello ritornava da
Bologna per le vacanze e lo invidiavo per i suoi mocassini e vestiti.
Poi quando, in seguito, ci sono ritornato anch'io, ogni anno con una
bambino in più da far vedere ai nonni e riempirli di gioia.
L'ultima volta agosto ti ho conosciuto nel 2004: mio padre
si sedeva ancora fuori sul marciapiede al fresco, salutato da tutti i
passanti.
Poi non ti ho conosciuto più e di te mi è rimasto solo
l'eco dei tuoi ricordi lontani, del chiasso del vicinato, dei passeri e
delle rondini, del trillare dei grilli, di qualche superstite
fisarmonica o voce di donna anziana che, davanti al falò, ha cantato forse
per l'ultima volta: "ebbiva Santi Rocco e Santi Rocco ebbiva,
ebbiva Santi Rocco ch'a 'int a Tolv staj".