"ALL'OMBRA DE' BIANCOSPINI"
C'è
qualcuno che si ricorda della crisi energetica scoppiata nell'autunno del 1973?
Io sì, ma non perché abbia più memoria degli altri, o che mi ritenga più
erudito (anche se lo fossi, non mi farei vedere comunque mai partecipare né a
"Passaparola", né ad altri spettacoli simili), bensì solo in quanto,
per associazione d'idea, certi fatti accaduti in quel periodo non me la fanno dimenticare.
L'effetto più plateale che produsse quella crisi fu, per la
prima volta, di non vedere circolare le automobili alla domenica, un divieto
imposto dal governo per la necessità di risparmiare il consumo dei carburanti,
divenuto a rischio di approvvigionamento ed il cui costo era schizzato alle
stelle, perché i Paesi produttori, sottosviluppati, erano stufi di farsi sfruttare
da quelli importatori, ipersviluppati - ma forse, sotto sotto, anche per
beneplacito e coincidente interesse degli Stati Uniti, che traevano profitto pure loro, attraverso le
patrie compagnie petrolifere, denominate le
"sette sorelle" - e pertanto avevano deciso a sorpresa, cogliendo Stati
come l'Italia impreparati, di ridurre i quantitativi di produzione del petrolio e
di aumentarne contestualmente a dismisura il prezzo di vendita.
Si cercò allora di risparmiare carburante anche indirettamente,
economizzando, fra l'atro, sul consumo dell'energia elettrica, mediante la riduzione
delle ore di accensione dell'illuminazione pubblica, nonché di quelle di
trasmissione dei programmi televisivi, che su tutte le reti (non mi ricordo se
all'epoca fossero solo quelle della RAI ed addirittura solo due) si
interrompevano forse anche prima di mezzanotte.
Quando esplose quella crisi, stavo facendo l'università a
Bologna, ma mi trovavo temporaneamente ospite da mia sorella Anna a Domodossola,
perché dovemmo, io e la sorella Lina, lasciare l'appartamento a Quarto
Inferiore - frazione di Granarolo, la cui denominazione sarebbe stata mutuata
successivamente da una marca di latte -, lei andando a stare insieme all'altro fratello, che
in quell'anno, sposatosi, avevo messo casa per conto proprio, io invece, in
attesa di trovarmi un'altra dimora, andandomi a rifugiare provvisoriamente dalla
sorella maggiore.
Fu allora proprio a Domodossola che potetti apprezzare l'assenza
delle automobili per le strade, e ritornare ad ascoltare invece gli zoccoli dei
cavalli, che qualcuno tirò fuori per esibirsi in passeggiate. Ma l'assenza
delle automobili, in una misura però modesta perché all'epoca lì ne
circolavano ancora poche, potetti apprezzarla anche a Banzi, dove vi ritornai
per Natale, rimanendoci fino a settembre successivo, salvo le incursioni
saltuarie che facevo a Bologna per andare a sostenere gli esami universitari.
Di quel viaggio di ritorno mi è rimasto un bel ricordo,
perché fatta tappa a Bologna, da lì vi ripartii combinando di fare il viaggio
con Donatella L., una studentessa pure lei di giurisprudenza all'università
di Bologna, nella cui dolcezza e vaghezza stavo riponendo qualche sogno, quando
mi sembrò che a quello per Teresa avessi dovuto rinunciare. Lei era diretta a
Montesano Salentino, in provincia di Lecce, sicché il tratto da fare insieme in
treno era fino a Foggia, il che ci avrebbe consentito di trascorrere insieme
sette/otto ore.
Partimmo alla sera con un treno espresso superaffollato.
Disperando di trovare posto a sedere, ci sistemammo nel corridoio di una
carrozza, lì rimanendo insieme accovacciati sul suo borsone, sul quale invitò
a sedere anche me quando la stanchezza del viaggio, ad un certo punto, vinse entrambi. Lei avrebbe incontrato al
suo paese, oltre alla sua famiglia,
anche il fidanzato, io invece andavo incontro come alla situazione di uno che
venga rimpatriato con un foglio di via, con solo la tenuissima speranza che
Teresa potesse pensarmi ancora.
Tuttavia, non facemmo un lungo tratto di strada dalla
partenza per ritrovarci, io e Donatella, mano nella mano e guancia
a guancia, a scambiarci effusioni dolci e tenere, la qual cosa proseguì per tutta la
notte fino a Foggia, rendendo quel viaggio incredibilmente breve e bello, anzi
fantastico.
Quella compagna di viaggio l'avrei incontrata però solo
un'altra volta, l'11 luglio 1977 a Bologna in via Zamboni, giorno in cui
sostenni la tesi di laurea, e forse per pura coincidenza la sostenne anche lei, perché la vidi
transitare vestita a festa con alcune persone, forse genitori e fidanzato, e ci
facemmo appena un cenno di saluto, in fuga com'ero, una volta liberatomi
dell'esame, a prendere il treno, questa volta, non per ritornare giù, ma per
andare su, perché quella tenuissima speranza detta sopra era diventata nel frattempo
certezza, ed avevo un grande sogno da realizzare, il più presto possibile.
Ma ritornando per intanto ancora a quei sette mesi trascorsi
a
Banzi dopo il Natale del 1973, i miei sogni orbitavano allora alternativamente
una volta intorno a Teresa, un'altra a Donatella,
forse un po' di più a quest'ultima, se, a differenza di Teresa, con la quale
avevo perso i contatti da Besozzo, mi fece pervenire
a Banzi anche una lettera: quando mi fu consegnata da Savino Pasquarelli, allora
supplente postino, mi sollevò non poco il morale, ricevendone la carica per
preparare e sostenere esami a raffica, sì da poter avere il presalario - 500.000
lire all'anno - che mi consentì di poter ritornare a Bologna, dove riuscii ad
avere un monolocale in un residence universitario inaugurato proprio nel 1973 in
via Gandusio, che condivisi in grande armonia con un compagno di studi in ingegneria,
Franco Feri, un toscano di Sarteano (chissà se poi si è sposato con la sua
Giada di Perugia!)
Per quel Natale ci fu anche mio padre che fece ritorno a
casa, lui però definitivamente dalla Germania, finendo di fare l'emigrante. Fui
io ad imporgli perentoriamente quel ritorno irreversibile, perché ritenevo non avesse più senso il
sacrificio, suo di stare a 62 anni solo in Germania, di mia madre sola a Banzi,
dal momento che tutti noi figli eravamo andati via. Allora mio padre si
rassegnò a rimpatriare, questa volta senza più ritorno, dopo aver trascorso in
quel Paese prima tre anni come prigioniero durante la seconda guerra mondiale,
poi tredici come emigrante ad Haltingen, provincia di Baden.
Quella decisione fu per lui molto sofferta, la subì come
un'estorsione, perché avrebbe voluto continuare a fare ancora qualche anno
l'emigrante, sentendosi molto gratificato per il guadagno che faceva, con assai
poca fatica.
L'esperienza del "gasterbaiter" -
letteralmente ospite del lavoro - in Germania ha continuato a raccontarla sempre
con entusiasmo e me l'ha rievocata tutto felice anche negli ultimi giorni
trascorsi insieme nel gennaio 2005 all'ospedale San Carlo di Potenza,
divertendosi, e facendo divertire anche me, quando raccontava come all'inizio
facesse arrabbiare il suo "chef" (capo squadra) perché egli lavorava
ad un ritmo troppo elevato, bruciava il lavoro ed il suo capo non sapeva più
cosa fargli fare, sicché, dopo averlo esortato ad andare avanti "langsan
langsan" - non so come si scriva esattamente in tedesco -, ovverosia in
modo tranquillo, sbottava invitandolo ad inventarsi lui qualunque altra cosa,
purché non lo ossessionasse più.
Pertanto, a Banzi arrivò come se gli fosse stata inflitta una
condanna ed il suo morale gli andò presto sotto i piedi, cadendo in
depressione, quando si vide costretto a riempire le giornate ritornando a
zappare la vigna, ciò che gli procurò una fortissima artrosi, che lo costrinse
a lungo infermo a letto, dove si lamentava ed imprecava, contro di me
soprattutto: quante
iniezioni gli dovetti fare! e quanta pena sentirlo guaire!
Io però dovevo continuare a studiare, e ciò era impossibile
farlo in casa, composta allora da due sole stanze, dove si era costretti a
convivere in quella penosa situazione, diventando peraltro difficile anche
dormire a causa dei lamenti e delle fragorose russate di mio padre.
Allora, se per riuscire a riposare mi ero trasferito il letto nel locale che non
veniva riscaldato, noncurante della temperatura gelida - quella sorta di
ibernazione mi aiutava anzi a prendere prima sonno -, per studiare mi andavo a
rifugiare al mattino da mia sorella Filomena, ed al pomeriggio me ne andavo al
bosco.
Avevo il problema di non far capire alla gente che andassi al
bosco per studiare, la qual cosa poteva essere ritenuta strana e far passare,
pertanto, per un tipo strano anche me. Allora mi nascondevo addosso il libro,
cercando di individuare poi qualche posto sicuro, che non fosse di transito delle
persone.
Qualcuno che ti notava c'era però sempre, come una volta che
vidi apparire all'improvviso proprio il mio dirimpettaio Severino, il quale
stava pascolando le pecore, chiedendomi stupito dove fossi diretto, ed io:
"a fare una passeggiata!"
Un'altra volta poi mi è capitato qualcosa di più
increscioso. Giacché nei paraggi dove mi mettevo a studiare c'era un orto, per
quanto avessi l'accortezza di tenermi alla larga per non suscitare alcun
sospetto di intenzioni ladricide da parte mia, tuttavia qualcun altro deve avervi fatto
intrusione, venendo invece additato io come imputato dal figlio piccolo di Vito Nicolò (soprannominato
"Parlant").
Ma il rischio maggiore era di beccarmi qualche fucilata da
parte di estemporanei cacciatori. Quando ne avvertivo l'avvicinamento, ero
tormentato su cosa fare. Se mi tenevo nascosto, potevano passare di lì una lepre,
una volpe od un uccello ed essere fatti segno a fuoco, finendo
caso mai io impallinato invece di loro. Allora cercavo di emergere dalla macchia,
facendo avvertire la mia presenza mediante finti colpi di tosse o fischi,
rammaricandomi di non aver imparato a fischiare con due dita in bocca, la cui
tecnica fa emettere fischi molto più acuti ed è usata non solo da pastori, ma
anche da allenatori di calcio come Trapattoni, per richiamare gli uni
l'attenzione delle pecore,
l'altro dei giocatori.
Comunque, scongiurati questo pericolo, ed ovviati agli altri
inconvenienti, rimaneva tutto intero e grande il piacere di ritrovarmi in
libertà nel bosco, solo e suo padrone esclusivo, a coltivare studi e sogni, a
concepire progetti futuri seduto ai piedi di un biancospino, che avevo eletto
come posto prediletto d'ispirazione, grazie al suo candore bianco e profumato,
mentre i merli conversavano amabilmente tra di loro ed il vento veniva ad
accarezzare con un delicato sussurro le chiome degli alberi.
Lì mi divoravo decine di pagine ed ho preparato con successo
diversi esami, rimanendo fino a sera, quando le parole scomparivano dal libro ed
apparivano invece le stelle in cielo. Allora facevo ritorno a casa, riuscendo a
sottrarmi più agevolmente alla vista altrui, anche nei giorni feriali, quando
le automobili potevano continuare a circolare liberamente, nonostante la crisi
energetica.
Quei biancospini fanno adesso capolino sullo sfondo di
uno dei periodi che ricordo essere stato forse il più intenso - col senno di poi anche
bello - della mia vita, un
periodo preannunciante una primavera di speranze poi realizzatesi.
Allora, se adesso mi capita di proiettarmi un po' in là,
talvolta mi affiora l'idea, forse desiderio, di ritornare ancora
in quel bosco, non dispiacendomi che lì venisse disperso ciò che di corporeo
sarà residuato di me: potrebbe essere d'auspicio per una nuova mia primavera,
od almeno "all'ombra de' biancospini forse sarà meno duro il sonno
della morte".
11 dicembre 2005