E C'E' CHI FESTEGGIA ANCHE I
40 ANNI
Michele Feo e Gabriella Mazzei festeggiano a Pisa i loro 40
anni di matrimonio
lasciandone il ricordo agli amici con il dono del 22° "befanino"
col quale sognano di poter essere anche loro i Filemone e Bauci delle
"Metamorfosi" di Ovidio
Se
a Banzi la scena è occupata dai cinquantenni capitanati da don Peppe, e dal
loro clamore, lontano dal paese ci sono due banzesi che discretamente, ma anche
intensamente, festeggiano invece i loro quaranta anni, non di età, ma di
matrimonio insieme: lo fanno a Pisa Michele Feo e Gabriella Mazzei.
Pure di questo evento ho avuto l'onore di essere stato reso
partecipe. Ciò è avvenuto mediante l'invio di un "befanino" -
stampato nel luglio scorso in 500 esemplari da "La Tipografia Bandecchi
& Vivaldi di Pontedera" - da parte
dei coniugi adottivi pisani, pervenutomi qualche giorno fa, sul cui plico,
evidentemente in segno di condivisione piena da parte di entrambi i coniugi, era
annotato a mano su lembo riservato al mittente, il nome di Gabriella, in
aggiunta al timbro riportante l'indirizzo di Michele Feo.
Ebbene, tanta gente si ritroverà oggi a fare baldorie
chissà dove per sfogare l'eccitazione di questi giorni ferragostani, io invece
mi sono gustato la lettura delle poche pagine di questo "befanino" e
la visione dei dipinti ivi contenuti, che mi hanno fatto sentire più lieve lo
spirito, attingendo da esso messaggi di speranza, sogno e poetica
trasfigurazione.
Si tratta di una specie di
favola, dal titolo Filemone e Bauci, tratta dalle "Metamorfosi" di
Publio Ovidio Nasone, accompagnata da diversi dipinti, tra cui uno di Giuditta
Moly Feo, figlia dei festeggianti.
Mi piace, a mia volta, farla condividere ai visitatori di
questo sito, nel quale la inserisco non per compiacenza-sudditanza nei confronti
del professore Feo, eminente cattedratico fiorentino, neppure perché egli mi sia simpatico per transizione di
simpatia dal cugino Francesco, ma perché mi piacciono queste manifestazioni di
delicatezza d'animo in cui non faccio alcuna fatica a riconoscermi, trovandole in
un certo senso
affini ad alcune mie visioni poetiche, come è possibile rendersi conto laddove
si legga la mia poesia "Vorrei
essere una quercia", scritta prima di sapere sia dell'esistenza di Feo,
sia delle "Metamorfosi" di Ovidio.
Ringraziando allora Michele Feo e la sua gentilissima
consorte Gabriella perché, pur senza esserci mai conosciuti di
persona, mi includono nella ristretta cerchia degli amici prediletti con cui
amano condividere la gioia degli importanti eventi, o tappe, della loro vita coniugale e
familiare, nonché le espressioni artistiche del loro spirito, desidero
gratificare della lettura-visione di queste anche i miei visitatori,
convinto che qualcuno di loro saprà apprezzarle come me.
...C'era una volta una terra abitabile,
ora è uno stagno: le sue acque sono affollate da smerghi e folaghe palustri.
Qui venne Giove sotto mortale aspetto e col padre venne, deposte l'ale, il dio del caduceo, Mercurio;
a mille case andarono, chiedendo posto e riposo, mille serrature chiusero le case; solo una li accolse,
piccola invero, col tetto di paglia e canne acquatiche; ma in quella capanna si eran legati, fin dagli anni
giovanili, la buona Bauci e il coetaneo Filemone, insieme li erano invecchiati e, senza mai nascondere la povertà,
anzi serenamente sopportandola, l'avevano resa lieve.
E non è da chiedere chi è padrone e chi è servo: tutta la casa son quei due, loro ordinano, loro eseguono.
Quando dunque i due celicoli giunsero ai piccoli penati. e, piegata la testa, varcarono l'umile soglia,
il vecchio li invitò a posare le membra su un sedile sul quale, premurosa, Bauci stese un ruvido tessuto,
e poi mosse la cenere tiepida sul focolare e il fuoco ravvivò del giorno avanti e con foglie e corteccia secca
lo alimentò e col suo debole soffio di vecchia ne trasse fiamme e lingue di vampe, prese quindi da un ripostiglio
rami secchi, li fece a pezzi e li accostò al pentolino; e sfronda la verdura che il
marito aveva colto nell'orto irriguo; con una forcella lui tira giù una sordida spalla di maiale appesa a nera trave
e di quella carne a lungo conservata taglia una fetta e, fattala a pezzi, la getta nell'acqua bollente.
Intanto ingannano il tempo conversando e non fanno sentire l'attesa. C'era un catino
di faggio, appeso a un chiodo per la curva ansa: lo si riempie d'acqua calda e lo si offre al ristoro degli arti.
In mezzo c'è un materasso di morbida erba di fiume su un letto dalla sponda e dai piedi di salice.
Lo coprono con panni, che solo nei dì di festa erano soliti stendere; ma anche questa era una stoffa
misera e vecchia, in tono con un letto di salice: vi si adagiano gli dèi. La vecchia, succinta e tremante,
apparecchia il desco, ma una zampa del treppiede era corta: la mise in pari un coccio; e quando questo, infilato sotto,
ebbe tolto la pendenza, deterse il piano menta fresca.
Viene imbandito il frutto bicolore della schietta Minerva, e corniole autunnali immerse in liquida salsa
e indivia e radici e una forma di latte rappreso e uova cotte rigirandole pian piano su cenere non rovente,
il tutto in terrine; viene offerto quindi un boccale cesellato nello stesso argento e tazze di faggio,
nell'incavo spalmate di bionda cera.
Passa poco e il focolare consegna le calde vivande, e torna il vino, per vero di non grande vecchiaia,
che poi, scostato un po', fa posto alle seconde mense. Ecco dunque le noci, e con loro i fichi secchi misti
a datteri rugosi, e prugne e mele che spandono profumo dagli ampi canestri e uva colta
da purpurei tralci; al centro è un candido favo: al tutto si aggiunsero visi dolci e una sollecitudine tutt'altro che pigra e povera.
D'un tratto vedono il boccale tante volte bevuto riempirsi spontaneamente e il vino crescere da sé:
attoniti per il miracolo, Bauci e il timido Filemone son presi da paura e levando le mani in alto pregano
e chiedono perdono per il pranzo servito senza sfarzo. Avevano una sola oca, guardiana del minuscolo podere: decisero i padroni di sacrificarla agli ospiti divini;
quella, veloce per ali stanca i due lenti per età, sfugge a lungo alla presa e alla fine par si rifugi
proprio accanto agli dèi. Questi ordinarono non si uccidesse e -Dèi siamo», dissero, -e i vostri empi vicini pagheranno
meritate pene, mentre a voi sarà concesso di restare immuni da questo male. Lasciate solo la vostra casa
e seguite i nostri passi, in cima al monte venite con noi!». Obbediscono i due e aiutandosi con bastoni
a fatica pongono i piedi per la lunga ed erta via.
Tanto distavano dalla sommità quanto può volare una freccia scoccata: volsero gli occhi e sommersa da palude
videro ogni cosa, solo restava in piedi il loro tetto.
E mentre son lì a guardare e piangono la sorte dei vicini, quella vecchia, anche ai due padroni piccola capanna
si muta in tempio: ai pali si sostituirono colonne, la paglia manda fulvi riflessi e il suolo si riveste di marmo,
la porta è lavorata a cesello e il tetto brilla tutto d'oro.
Allora il figlio di Saturno parlò tenere parole: -Dite, o giusto vecchio e tu, donna degna di giusto coniuge,
cosa desiderate». Dopo essersi consigliato un poco con Bauci, Filemone apri agli dèi il loro pensiero comune:
-Di essere sacerdoti e custodi del vostro tempio chiediamo, e poiché abbiam vissuto in accordo i nostri anni,
la stessa ora ci porti via tutti e due, né mai io veda la tomba di mia moglie né sia sepolto da lei».
Il voto fu esaudito: furono messi a guardia del tempio, finché vita fu loro concessa; mentre stavano un giorno,
sfiniti dagli anni e dall'età, davanti ai sacri gradini e si raccontavano la storia del luogo, Bauci vide Filemone
metter fronde e il vecchio Filemone vide frondeggiar Bauci.
Cresceva la cima sui loro due visi e loro, finché poterono, si scambiavano parole e nello stesso istante -Addio»,
dissero, -o consorte», e nello stesso istante la scorza nascose e suggellò le loro bocche: ancora mostrano
lì i bitini i tronchi accostati sorti dai loro due corpi.
Ci son due alberi in via di Gello...
Non si sa di quale metallo siano le nostre nozze: forse di una lega di argento e oro. Sono comunque 40
gli anni che stiamo insieme e torniamo ad avvertire gli amici che stiamo ancora insieme e che non ci
dispiacerebbe raggiungere e sorpassare metalli più nobili.
Siamo grati ad Ovidio per avere scritto una storia bella come quella di Filemone e
Bauci (1). Quando la lessi in terza media in un 'antologia che si intitolava ovidianamente Urbs alta Quirini, non pensavo proprio
che un giorno l'avremmo desiderata per noi.
Ovidio ha raccontato la vicenda meravigliosa delle forme della natura che muoiono e rinascono a nuova vita. Le
Metamorfosi sono state lette e amate da pagani e cristiani, che hanno sentito nella proteiformità di quegli
esametri dattilici spirare il soffio di una sorta di filosofia primigenia. I nostri amici pittori hanno sentito in
Filemone e Bauci la sacralità della casa e dell'ospitalità, il vincolo d'amore che tiene insieme gli uomini e le
cose, i colori cangianti della grande madre, il mistero della vita. Sono degni eredi di artisti quali Adam
Elsheimer, Pieter Paul Rubens, Johann Cari Loth,
Giuseppe Bacigalupo.
La favola dei due vecchi è ambientata in Bitinia (cioè in Asia Minore, ora Turchia); ma la vita, i costumi
e gli alimenti descritti dal poeta sono quelli che abbiamo conosciuto nelle nostre campagne fino a
ieri (2).
Ci piace, non per rendere omaggio alla teoria di una prisca theologia comune a tutti i popoli, mettere
l'episodio mitico a confronto con le parole di Gesù secondo Matteo XXV 34-35 .Venite, benedictipatris
mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. Esurivi enim, et dedistis mihi
manducare; sitivi, et dedistis mihi bibere; hospes eram et collegistis me...».
E rendiamo grazie a Sergio Vivaldi e a tutte le donne e gli uomini della B&V che negli anni ci hanno
stampato, con questo, ventidue befanini.
m.f.
_____________________________________________________________________________________________
1 Vedine la raffinata e dotta analisi di L. CASTlGLlONl, Studi intorno alle fonti e alla composizione delle Metamorfosi
di Ovidio, Pisa 1906 «<Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa»,
XX), pp. 254-283. Il testo è quello di W. S.
Anderson, Lipsia 1977, 19853. Per non appesantire filologicamente un 'occasione di festa, sono state omesse le varianti dei
vv. 655, 656, 693, 697, 698.
__________________________________________________________________________________________________________
2 Non abbiamo trovato traccia di uova cotte sulla cenere, se cosi il passo deve intendersi (v. 667). Crediamo che al v.
648 non si parli, come una lunga tradizione esegetica ritiene, di prosciutto affumicato, ma di qualcosa di molto più povero.
Sottolineiamo poi che i due vecchi non avevano un vero e proprio tavolo, ma un umile treppiede (v. 661), verisimilmente
tondo.
13 agosto 2005