E COSI' FU
di Michele Rigato
I primi ricordi
Contrada Valle Porcile. Al
di là del fiume Banzullo. Era il mese di aprile del 1917 ed io avevo cinque
anni. Una mattina andammo alla vigna. Eravamo io, la mamma, la zia Saveria, mio
cugino Stefano e il cane di mia zia: un grosso braccone fortissimo di nome
Musolino. La mamma e la zia, che erano sorelle, dettero lo zolfo alle viti e
verso le dieci, sia perché il lavoro era stato terminato sia perché cominciava
a far caldo, cominciammo a ritornare verso casa.
Sulla strada del ritorno la zia e la mamma andavano avanti
mentr'io rimanevo un po' indietro ad acchiappare i grilli o per altri difettucci
che non mancano mai ai bambini piccoli. Di tanto in tanto gridavo alla zia e
alla mamma di aspettarmi. Dopo aver percorso una piccola accorciatoia, che
attraversava la terra dell' orto dei Monaci, giungemmo ai margini del
fiumiciattolo del paese, che si chiamava Banzullo, e fu proprio lì che il cane,
che fino a quel momento mi aveva sempre seguito incollato alle mie calcagne, mi
sorpassò, si girò e, piazzandosi davanti a me con un feroce gesto, digrignando
i denti, mi saltò addosso, mi prese per la pancina e mi buttò a terra in una
grossa pozzanghera d'acqua. Non mi fece molto male anche se mi lasciò nella
pelle i segni delle zannate che scomparvero solo dopo molti anni. Mi misi a
piangere, urlando più per lo spavento che per il dolore. La mamma mi curò la
ferita, mi dette un fazzoletto per fermare il sangue e poi, seppure piangendo,
mi lasciò continuare a camminare da solo lungo la strada del ritorno che
portava alla Fontana dei Monaci, lì dove da dentro la roccia sgorgava un bel
getto d'acqua sorgiva, leggerissima e molto fresca e bella.
Io allora ero il più piccolo di quattro figli. La prima era
Teresa, nata nel 1906, poi c'erano Rosina, nata nel 1908, Maria, che era nata
nel 1910, e alla [me c'ero io, Michele, che ero il più piccolo. Mia madre si
chiamava Cea Maria Michela ed aveva come unica sorella zia Saveria, che aveva
sposato un fratello di mio padre. La nonna si chiamava Teresa Faggella ed era
rimasta vedova quand'era incinta del quarto figlio che volle chiamare Michele
come il marito.
La nonna era molto buona con noi bambini e quando in campagna
ci facevamo qualche frattura o delle escoriazioni lei metteva sopra la ferita
della terra bagnata e la ferita subito
guariva.
Il fratello maggiore del babbo si chiamava Giuseppe e morì
prematuramente lasciando la moglie Mimma e ben quattro figli. Il 6 ottobre del
1912, quando io avevo solo sei giorni, mio padre emigrò negli Stati Uniti
insieme alla cognata vedova e ai suoi figli. In America vi rimase per sei anni,
fino al 1918, l'anno in cui finì la prima guerra mondiale.
Fu non molto tempo dopo dall' episodio del cane che a casa
giunse una sua foto, un grande ritratto. Io, che non sapevo nulla di lui, vidi
per la prima volta com'era fatto. Aveva una grande e bella figura ed un bel paio
di baffi arricciati all'in su.
In quell'anno nel mese di luglio la zia ebbe una polmonite
che la fece morire in otto giorni. A quell' epoca molti giovani e bambini
morivano, soprattutto di vaiolo. Le campane a morto suonavano molto spesso e la
miseria era grande in tutte le case.
In paese in quegli anni non c'eravamo soltanto noi che vi
eravamo nati. Ci abitavano anche, da esiliati, diversi prigionieri austriaci
addetti ai lavori agricoli.
D'estate io e la mamma, che era una donna brava e svelta a
svolgere tutti i lavori di casa e di campagna, quasi tutte le mattine, insieme
ad altre donne e bambini, andavamo al bosco a procurarci un fascio di legna di
carpani, perché solo quella era la qualità di legname che ci era permesso di
tagliare. Se infatti la guardia campestre s'accorgeva che avevamo tagliato
virgulti di cerro o di quercia per punizione ci toglieva la ronca, il grande
coltellaccio ricurvo che usavamo per tagliare la legna.
Tre erano le guardie campestri che facevano i guardiani del
bosco. La più temuta di loro si chiamava Francesco Trusolino, uomo sospettoso e
diffidente di tutto e di tutti, che ogni volta che lo incontravamo scendeva da
cavallo e si metteva a rovistare nei fasci portati in testa dalle nostre povere
donne per controllare il tipo di legna che stavano trasportando. Morto in aria e
secco a terra diceva mia madre. Questo era la legna che potevamo prendere: rami
morti ancora attaccati al tronco o secchi e caduti per terra. Solo questo tipo
di rami poteva essere di cerro o di quercia, altrimenti, se voleva- mo legna
fresca da raccogliere per metterla da parte per l'inverno, poteva essere solo la
legna dei carpani. Il carpano nei nostri boschi cresceva come una specie di
grosso cespuglio, non come un vero albero. I suoi rami erano piccoli ed elastici
ed ottimi per ricavarci bastoni per le zappe e le pale. I bambini, invece, con
quei rami ci facevano gli archi per tirare le frecce come gli indiani.
Un' altra cosa che facevamo con quei rami erano i bastoni per
giocare a "ù picchialo". Servivano due bastoni: uno era normale, di
una lunghezza media di un mezzo metro, l'altro era molto più piccolo ed era
appuntito ai due lati. Battendo col bastone lungo su uno dei due lati appuntiti
del bastoncino che stava a terra, questo si sollevava in aria di qualche
centimetro ed era in quel momento che, alle grida dei compagni di picchialo
picchialo, si picchiava una gran mazzata al corpo centrale dello stesso
bastoncino per lanciarlo il più lontano possibile. Chi ci riusciva vinceva. Dal
bosco al paese c'era una distanza dai due ai cinque o anche più chilometri,
dipendeva dalla località da raggiungere. Nel bosco si faceva un piccolo pranzo
che portavamo dal paese nella spasa.
Per il bucato la maggior parte delle donne andava al Banzullo,
un piccolissimo fiume che scorreva a valle del paese e dove c'era un' acqua
limpida a volontà la quale in parte proveniva dalla sorgente della Ripa di
Carnevale e in parte dal pilone del vìscile dei Conconi.
Le mie sorelle, che erano già grandicelle, davano un aiuto
in casa alla mamma ed erano sempre loro che scrivevano al babbo emigrato perché
la mamma era analfabeta e pure il babbo lo era, perché nessuno dei due aveva
conosciuto un solo giorno di scuola eppure, nonostante tutto, non so come
facesse ma il babbo ci scriveva, anche se poche cose, soltanto quattro crucchi e
non di più di corrispondenza, che però le mie sorelle riuscivano a capire
benissimo anche se le frasi non erano complete.
Erano tempi molto poveri, non era come adesso. Vivevamo in
una casa di sette metri per sette che si trovava sulla strada rotabile di via
Umberto I. La casa aveva il pavimento a mattoni di creta e in fondo finiva in
una grotta che faceva da stalla e nella quale c'era la mangiatoia. La stalla
aveva il pavimento a pietre e un solaio molto grande dove trovavano posto una
canna-ca-mera col grano dentro e due coppie di colombi d'allevamento.
Nella stalletta c'erano anche altri animaletti cioè galline,
topi d'India e conigli. Nella stanza grande dove abitavamo noi, prima della
stalletta, a sinistra c'era il letto dove dormivano insieme le mie tre sorelle
e, a destra, c'era il letto dei genitori. lo dormivo con la mamma, credo di
essere stato preferito perché ero l'unico maschio ed ero il più piccolo.
Il babbo ritornò dall'America all'improvviso una notte
dell'autunno del 1918.
Secondo me prima non poté ritornare perché in Europa c'era
la guerra. Chissà che impressione gli aveva fatto l' America e chissà perché
non era riuscito a far fortuna. Comunque sia arrivò in paese senza far sapere
niente a nessuno, arrivò verso le undici di notte e mia madre, che come ogni
sera si era barricata in casa chiudendo la porta con due lunghe barre esse da
una parte all'altra della porta e fissate ad incastro In un paio di grossi cunei
di legno, quando il babbo bussò non gli aprì. Gli disse che lei a quest'ora
non apriva a nessuno. Chi le garantiva che era proprio suo marito a bussare alla
porta? Erano passati diversi anni da quand' era partito. Gli disse: «Vai a
chiamare uno dei tuoi fratelli ed io apro». E così babbo fu costretto a fare
marcia indietro, andò a chiamare zio Michele e ritornò. La mamma allora aprì
la porta e quando si videro si abbracciarono con grande affetto e nella casa ci
fu una grande gioia ed io e le mie sorelle gli andammo tutti sulle ginocchia e
lui ci accarezzava felice. Mancava da casa dall'anno della mia nascita, cioè
dal 1912.
Le mie sorelle, che erano già grandicelle, alla venuta del
babbo cominciarono a sentirsi più sicure in paese. Avevano preso fiato. Anche
in casa ci furono dei cambiamenti e cominciò una nuova maniera di stare
insieme. Prima all' arrivo del babbo mangiavamo tutti in un piatto grande, nella
spasa. Questa veniva posata sulla chianca e intorno alla chianca, che veniva a
sua volta sistemata sopra il braciere, noi ci mettevamo in circolo e tutti
insieme mangiavamo.
Alla venuta del babbo si prese invece l'abitudine di apparecchiare
la tavola, invece di sederci soltanto intorno alla chianca con la spasa, e si
incominciò a mangiare ognuno nel proprio piattino. Poco tempo dopo del suo
arrivo il babbo si recò con la mamma a Genzano di Lucania da dove tornarono con
un bell'asino. A dir la verità erano partiti per comprare una cavalla ma i
soldi che avevano erano pochi e così comprarono quel benedetto asino che era
intero, non era castrato, e che quando ava a casa, nella sua stalla a qualche
metro da noi, non faceva altro che ragliare e scorreggiare.
Poi comprò una trainella leggera e l'aratro di ferro, mentre
costruì lui stesso con gli attrezzi portati dall' America un 'atro a chiodi.
Con l'arrivo del babbo e l'acquisto dell' asino tutte le
mattine ci dovevamo alzare un po' prima del solito per pulire la stalla e tutta
la casa dove all'entrata, sulla destra, il babbo aveva scavato un bel buco
ricavandoci una grotticella che veniva adibita a cantina.
Io quell' anno cominciai ad andare a scuola. Era il 1919 e mi
capitò un maestro elementare che lavorava poco con i suoi alunni. Ripetetti per
tre anni la prima e cominciai a migliorare quando cambiai maestro.
Le mie sorelle invece avevano già [mito di frequentare la
quinta ed ora andavano da una maestra di cucito ad imparare a ricamare al
cerchietto.
Il babbo comperò anche un fucile a bacchetta, di quelli che
si caricavano ancora di sopra attraverso la canna, ed allevò il suo primo cane
da caccia al quale dette il nome di Bosco. Era un bel cane nero col petto e la
coda bianca. Con il fucile e il cane il babbo cominciò ad andare ogni giorno a
caccia. Ed era la carne della selvaggina quella che noi mangiavamo a casa:
qualche lepre o volpe o gatto selvatico o ricci, anche, e tassi, e se poi
capitava che non cacciava niente la domenica si ammazzava o un galletto o un
coniglio oppure qualche sorcio d'India, che era un animaletto senza coda e molto
buono da mangiare.
Di solito quando il babbo tornava dalla caccia senza por-
tare nulla non lo si poteva avvicinare perché si trasformava in una furia e
preso dalla foga agiva come un uragano, nervoso ed arrabbiato, muovendosi, nel
fare i lavori di campagna, con gesti bruschi ma sempre molto precisi. Noi lo
guardavamo intimoriti, ci prestavamo per quanto era possibile ad aiutarlo ma era
intrattabile perché era tornato col carniere sprovvisto di selvaggina. Era come
se reagisse ad una sconfitta, cercava di recuperare il tempo perso scatenandosi
a volgere il lavoro dei campi che certamente non lo gratificava come la caccia.
Un giorno successe che andammo alla vigna di Valle Porcile e
lì aspettammo che il babbo facesse ritorno da un vecchio ovile che era situato
dalle parti che veniva chiamato lo Spiazzo dei Garramon'. Si stava facendo tardi
ma il babbo continuava a non vedersi. Poi sapemmo che allo spiazzo, vicino ad un
albero di fichi, il babbo aveva trovato un vecchietto con tre pecorelle. Vedendo
lo il babbo l'aveva salutato e il vecchietto, contro cambiando il saluto gli
disse, chiamando lo anche per nome come se lo conoscesse: «Stammi a sentire,
Vito. Guarda queste tre bestie che porto al pascolo: sono due maschi e una
femmina. Ora io ti dico che tu avrai altri tre figli e saranno anche loro due
maschi e una femmina». A questa notizia il babbo si fece pensieroso e per un attimo
si distrasse. Quando poi volse di nuovo lo sguardo in direzione del vecchio non
lo trovò più, non c'era più nessuno in quel posto ma solo lui.
Ritornò quindi da noi e ci raccontò l'accaduto e noi, a
sentire che il vecchio e le pecore erano spariti, cominciammo a ridere a
crepapelle perché gli dicevamo che s'era sognato ..tutto, invece per davvero il
fatto si avverò e dopo nove mesi dal suo arrivo dall'America arrivò Giuseppe,
dopo due anni arrivò Severina e dopo arrivò Domenico così la famiglia crebbe
di tre unità cioè sette figli e due genitori, di cui gli ultimi tre erano
proprio due maschi e una femmina come gli aveva detto il misterioso vecchio. La
mamma era una donna molto pulita ed ora che il babbo era ritornato non si
interessò più, come prima, della campagna ma solo della casa. Intanto l'asino
fu venduto e il babbo comprò una giumenta incinta che aveva una stella in
fronte e che perciò chiamò .Stellanova. Comperò anche un traìno e si mise a
fare non solo l'agricoltore ma anche il commerciante. lo l'aiutavo e spesso mi
recavo con lui nei paesi vicini, come Spinazzola, per vendere carboni e legna.
In questo paese avevano impiantato i pali della luce e noi rimanevamo stupiti a
vedere le lampadine della luce accese perché nel nostro paese l'illuminazione
elettrica invece mancava, c'era solo quella a lume di petrolio che curava un
operaio andando ad alimentare i lumi quando il petrolio s'era consumato.
In primavera Stellanova, che era stata ingravidata da un
asino, dette alla luce un muletto al quale demmo il nome di Cappuccino. Com'era
bello. In quei giorni il babbo, per poter lavorare all'aia nel terreno vicino al
paese, in contrada Piano Carbone, che aveva preso in affitto, comprò anche un'
asina che era grossa come una mula e che chiamò Zingarella e dalla quale si
ricavava molto latte.
Poiché ero sì piccolo, ma il maschio più grandicello,
cominciai a seguire mio padre nei lavori dei campi, ed ero sempre insieme a lui,
crescevo in fretta e lavorando i campi come il mulo Cappuccino. Quando avevamo finito
i lavori agricoli ci mettevamo a lavorare e commerciare con il tramo; andava- mo
nei boschi, compravamo legna e carbone che vendevamo in giro nei paesi vicino a
Banzi, questo ci consentiva di tirare avanti abbastanza bene.
Un giorno mentre stavamo trebbiando il grano la giumenta
Stellanova cadde in malo modo e si spezzò l'osso della coscia sinistra. n babbo
con la fune le fece la naca, una specie di culla, per tenerI a in piedi ma non
servì a niente e così fu costretto a venderla per pochi soldi ai carnaioli.
Cappuccino rimase senza la sua mamma e noi, per allattarlo e
farlo crescere, cominciammo a dargli col biberon latte e farina e così lui
cresceva, però il muletto ogni volta che vedeva una giumenta qualsiasi le si
buttava sotto e disperato cercava con tutte le sue forze di bere dalle sue
mammelle.
Così ricordo il povero Cappuccino: voleva vivere e cercava
il nutrimento attaccandosi ai capezzoli e rubando il latte di tutte le giumente
che vedeva. Poi cominciò a mangiare erba e biada e crebbe in fretta. n muletto
Cappuccino e noi bambini fummo presto adibiti al lavoro dei campi ed anche se io
ero piccolo e non potevo arare ugualmente, però, andando per i campi qualcosa
la face- vo e così lasciavo più tempo e spazio all'attività venatoria del
padre cacciatore.
Nel 1921 arrivò a Banzi la luce elettrica e la situazione in
paese migliorò. Pure noi migliorammo: acquistammo un sito da Francesco
Giordano, dietro casa nostra, e costruimmo una stalla con mangiatoia per gli
animali. Finalmente in casa non stavamo più insieme agli animali e dividemmo la
stalla in due zone distinte, l'una per per i cavalli, le galline, i conigli, i
maiali, i topi d'India e la capra, l'altra per la paglia.
Peppino, mio fratello più piccolo, intanto cresceva insieme
a Domenico e a Severina che era tutta nera e andava sempre in giro a prendere i
grilli. Papà e mamma per stare tranquilli e poter lavorare ogni tanto li
legavano tutti e tre da qualche parte vicino ad un albero.
Anche alla nonna ogni tanto veniva chiesto di badare a noi
mentre le mie sorelle più grandi, Teresa, Rosina e Maria, aiutavano la mamma a
fare le faccende di casa. Erano loro che, con la cesta, portavano al babbo in
campagna un piatto caldo di minestra o di pastasciutta mentre alla sera, al
chiaro di luna, mangiavamo tutti insieme quasi sempre un'insalata di pomodori,
di cetrioli e cipolle e dopo la mamma e tutto il resto della famiglia andava a
dormire mentre io e il babbo durante la stagione della mietitura ce ne andavamo
invece in campagna a sorvegliare l'aia.
Nell'aia avevamo anche i pulcini, due o tre covate che si
mettevano in gennaio o in febbraio in modo che per la fine di giugno li potevamo
portare all'aia perché erano già grandicelli e potevano pascolare da soli
nelle ristoppie andando dietro la chioccia o alle altre galline. Avevamo
costruito un grosso pagliaio per noi e gli ani- mali grandi in caso di maltempo
e un pagliaretto non tanto grande per le galline. Avevamo anche due o tre maiali
che li portavamo sempre appresso ed anche una capra per il fabbisogno di quel
poco di latte che si consumava in famiglia. Da febbraio a luglio si quagliava a
formaggio che stava sempre a grasso.
I maiali dopo che avevano preso la spiga pascolando nelle
ristoppie di grano dopo la mietitura, li facevamo ingrassare a ghiande che noi
stessi andavamo a raccogliere nel bosco. Sul tardo autunno, quando già
erano belli e grassi, li governavamo con crusca di orzo e granturco. Era quasi
sempre nel giorno di Santo Stefano, al ventisei di dicembre, che ne ammazzavamo
uno per la casa, il più grosso, mentre uno o due li vendevamo per ricavarci un
po' di soldi con i quali poter comprare un po' di biancheria alle mie sorelle
per quando dovevano sposarsi.
pag. 7-16 del libro pubblicato a cura di Canio Franculli da PianetaLibroEditori 2003 - www.pianetalibro.com