E COSI' FU
di Michele Rigato
Il grano e il pane
Al tempo della mietitura giungevano i
mietitori pugliesi di Bitonto, Terlizzi e Bisceglie. Il lavoro era sempre lo
stesso, cadenzato da ritmi e da soste. In campagna all'interno dei covoni mio
padre riponeva i fiaschi del vino e dell'acqua per ripararli dalla calura
estiva. Durante la trebbiatura si cantava, sia per non addormentarsi sia per
sollecitare i cavalli al lavoro. A me piaceva molto cantare
"Rondinella", una canzone che parlava di una rondine a cui
l'innamorato affidava un messaggio per la sua bella che viveva al di là del
mare.
La mietitura del grano durava dai 15 ai 20 giorni.
Nella mietitura era impegnata tutta la famiglia ma anche se
eravamo in molti neanche bastavamo perché i terreni che avevamo erano tutti
scomodi e c'era bisogno di aiuto. Per questo motivo eravamo costretti ad
assumere i mietitori pugliesi. Questi
giungevano in paese già a partire dal giorno dopo la festa del santo patrono di
San Vito che cadeva il 15 giugno. Arrivavano portando
con sé le falci e un fagotto contenente una coperta e un cambio di camicia e
pantalone. In paese andavano ad occupare la piazza dove a gruppi si mettevano a
disposizione dei proprietari dei campi e sempre qui alla sera pernottavano sotto
le stelle.
I proprietari che ne avevano bisogno li passavano in rassegna
valutandone con sguardo esperto, per simpatia, le capacità e l'efficienza,
quindi li assumevano nel numero che ritenevano necessario alle loro esigenze.
A quei tempi i diserbanti non esistevano e prima di mietere
era necessario fare il lavoro della sarchiatura: cioè pulire i seminati dalle
erbacce. Se prima non si sarchiava non si poteva poi neanche mietere. Alla
sarchiatura dei propri campi andavano tutti della famiglia e la campagna si
riempiva d gente. Durante il lavoro le ragazze ed i ragazzi si davano voce con
qualche ritornello, uno di questi domandava al cucco con un detto antico:
«Cucco cucco galante, possi cadere e possi cantare, mi dici quanti anni debbo
campare?». Un altro diceva: «Cucco cucco alto e bello - dimmi - fra quanti
anni m metterò l'anello?». Il cu!-cu!! era la possibile risposta del cucco
quando si chiedevano gli anni che mancavano al matrimonio. Quanti erano i cu!-cu!
tanti erano gli anni che mancavano.
Se il tempo era stato buono e le stagioni normali, senza
nessun violento temporale o grandinata che in primavera avesse distrutto i
campi, di solito le messi già da metà giugno erano sempre belle ed abbondanti,
e i nostri campi di S. Procopio erano ricchi di buon grano, resistente, quello
duro di qualità rossìa, policore o cappello. Mentre la maiolica di grano
teneri aveva la cattera di spiga lunga e soggetta al vento, se non veniva
mietuta al momento giusto bastava un po' di vento per buttarla a terra. Si
coltivava anche la risciòla a spiga rossa.
I mietitori erano organizzati in paranze. La paranza era
solitamente composta da quattro mieti tori più il legante Quest'ultimo aveva il
compito di raccogliere gli scern'ti, cioè il grano contenuto fra le cinque dita
di una mano che veniva falciato dai mietitori. Gli scern'ti erano legati da uno
stelo d grano arrotolato ed intersecato con un nodo sommario ma fatto ad arte da
mani esperte. Dopo averli legati gli scern'ti venivano depositati sugli steli
tagliati divenuti ormai stoppie. A questo punto sopraggiungeva il legante che
aveva il compiti di procedere alla raccolta degli scern'iti e di comporre le
gregne. I mietitori continuavano a procedere in avanti, piegati in due, al
taglio con la falce che avveniva solitamente ad un'altezza di circa venticinque,
trenta o anche quaranta centimetri da terra. L'altezza del taglio variava in
funzione dell' altezza delle spighe di grano da tagliare.
Il mietitore quando falciava si proteggeva l'avambraccio col
vraz'lare, una fascia di pelle, in modo che menando il cap'stredd', per legare
lo scern'to, non si graffiasse il braccio.
Per proteggere poi le dita della mano sinistra queste erano
infilate in 4 cannetti, in modo che la falce non tagliasse alcun dito.
La paranza dei mietitori procedeva pressoché affiancata al
taglio occupando uno spazio di circa un metro e mezzo per ognuno dei suoi
componenti. Durante la mietitura mio padre faceva fare ai mietitori anche la
"perduta" quando si arrivava all'ante, vale a dire quando si giungeva
all'estremo opposto del campo da mietere rispetto al punto d'inizio. A
quest'altezza si faceva una gregna di tutti i mazzi di spighe già tagliati e
non ancora raccolti dal legante e subito dopo i mieti tori facevano una breve
sosta per raddrizzare la schiena curvata dalla fatica, per asciugarsi il sudore
della fronte, per rifocillarsi dall'arsura della gola seccata dal calore cocente
dei raggi del sole con una bevuta di acqua fresca o di vino portato all'ante
dalla mamma o da qualche altro di famiglia. Poiché in questa maniera si perdeva
tempo, la sosta veniva chiamata "la perduta".
L'acqua era contenuta in un recipiente di terracotta che la
manteneva fresca, u' cic'n; il vino era invece contenuto nella fiasca di cinque
litri. Entrambi i recipienti erano muniti di una cannello di canna all'imbocco,
si beveva tutti a garganella, senza posare le labbra vicino al cannello. Si
beveva così anche per ragioni igieniche.
Si cominciava a mietere il grano all'alba, con il fresco del
mattino, per proseguire poi per il resto della giornata.
Ai mietitori della marina si dava, oltre alla paga, anche da
mangiare. I mietitori mangiavano cinque volte al giorno: prima di cominciare,
verso le cinque del mattino, si dava loro nu' muzzich' di pane e formaggio con
frittata, verso le nove si prendevano un altro boccone magari con un po' di
pancetta o lardo con qualche peperoncino piccante, pomodoro e cipolla e con vino
sempre in abbondanza. Poi c'era la sosta per il pranzo di mezzogiorno preparato
e portato sul campo dalla mamma e dalle mie sorelle. Il pranzo era fatto con
pasta fatta in casa, con il sugo di pomodoro o con fave, lenticchie, cicerchie,
accompagnati da qualche pezzetto di carne e formaggio e non mancavano mai i
pomodori, i peperoni dolci fritti oppure i peperoncini piccanti, le cipolle e
qualche frutto di stagione. Alla sera, verso le otto o le nove, i mietitori che
erano ritornati in paese andavano a mangiare alla casa del padrone: fave,
minestre di verdure, ceci, peperoni fritti o baccalà. I mieti tori che erano
stati assunti da grandi proprie- tari terrieri di solito non tornavano alla sera
in paese perché si fermavano a mangiare e a dormire nelle masserie dei
latifondisti.
Quando tutto il campo di grano era stato falciato si
procedeva alla carenatura, che consisteva nel caricamento e nel tra- sporto di
tutte le gregne all'aia, dove passavamo non meno di due mesi per la pisatura, o
trebbiatura che dir si voglia e che veniva fatta tutta a piede con i cavalli
sotto il sole cocente.
Per fare una pisatura occorreva molta manodopera e quasi
tutta la mattinata. In quei giorni io e il babbo dormivamo in campagna, nel
capanno dell' aia a Piano Carbone, e il babbo quasi tutte le mattine, prima che
spuntasse l'alba, prendeva il fucile e i cani ed andava a caccia mentr'io
aspettavo che al primo albeggiare arrivasse dal paese mia madre con le mie
sorelle e i miei due fratelli già grandicelli, ad aiutarmi a stendere le gregne
per la nuova pisatura.
Io allora salivo sul cavalletto oppure sul pignone e buttavo
le gregne a terra, gli altri le stendevano a terra ordinandole in forma
circolare, di modo che i cavalli potessero pestarle. L'operazione sembrava
facile ma non lo era del tutto. Bisognava stare attenti ad iniziare l'accumulo
delle gregne sempre da un lato, che era poi il lato dell' arrigliata, cioè del
montone del grano pestato il giorno prima e che ancora non era stato ventilato
per mancanza di vento.
L'aia era rotonda e in piano, del diametro di un centinaio di
metri, e serviva per raccogliere il grano falciato dal mietitore e raccolto in
gregne che qui venivano messe l'una sull'altra fino a formare il monticello del
covone.
L'aia veniva preparata con cura. Bisognava bagnare e lisciare
il terreno con scope di saggina per renderla impermeabile, uniforme e duro di
modo che i chicchi di grano dei covoni non si piantassero in terra. Una cura
particolare veniva riservata anche alla costruzione della circonferenza che
bisognava ricavarci dentro l'aia, dove i cavalli vi dovevano girare in tondo
bendati per effettuare la pisatura, e dove veniva ventilato il grano. Ad essere
però precisi non erano i cavalli che venivano bendati ma solo i muli e gli
asini.
L'aia la tenevamo sempre pulita. Con forche, ratavelli e
scope stavamo tutti a spazzar l'aia anche perché se si fosse messo a piovere
bisognava garantire che tutto era al suo posto per fare in modo che non ci fosse
stata molta perdita di grano.
Prima di giungere all'aia le gregne stavano naturalmente nei
campi dove erano state ammassate l'una sull' altra [mo a formare un cumulo di
una decina di gregne sapientemente messe insieme, ad angolo e con le spighe
rivolte all'interno, con una forma a piramide che veniva chiamata la v'rredde.
Alle gregne e alle v'rrede non vi provvedevano i mietit ri,
il cui lavoro si limitava alla sola falciatura. Vi provvedevano di solito lo
stesso proprietario e parte della sua famiglia, aiutati a volte da qualche
contadino amico o parente e al quale poi bisognava contraccambiare il favore.
Dalle v'rredde le gregne venivano successivamente riprese con
le forche ad una ad una e depositate sul tramo per esse- re trasportate nell'
aia. La forma che assumevano sul carro, che di solito veniva trainato da una
coppia di buoi, era chiamata la tomba perché assomigliava ad un catafalco.
Anche la costruzione della tomba presupponeva una particolare bravura.
Dopo la mietitura si iniziava la pisatura.
Prima di cominciare la pisatura era d'obbligo abbeverare i
cavalli. Per compiere questo rito mi recavo con i cavalli al pilone di Lasala
Beniamino, che era un grosso proprietario terriero che aveva grosse mandrie di
pecore, di maiali, di buoi e cavalli e che era anche il proprietario di quel
pezzo di terra dove noi facevamo l'aia- e che lui ci aveva affittato.
Il pilone non era molto lontano dall' aia. Qui riempivo due
cicini di terracotta, che poi avevamo cura di tenere all'ombra per conservarne
la freschezza, bevevo ed abbeveravo i cavalli. Tornato all'aia, legavo i cavalli
in modo che si muovessero in coppia e cominciavo la pisatura. Attraverso il
passo e il ripasso si otteneva la separazione del grano dalla paglia e dalla
pula che si produceva in gran quantità.
Per fare tre passate ci voleva un' ora buona e di solito era
quando si cominciava la seconda pisatura che il babbo faceva ritorno dalla
caccia: contento e felice se portava qualcosa, una lepre per esempio, oppure
come al solito furioso e intrattabile se invece non era riuscito a catturare
nessuna selvaggina.
Mentre i cavalli giravano e rigiravano nell'aia i miei
fratelli e sorelle rincalzavano sotto la direzione degli zoccoli del cavallo le
gregne di grano per ottenere un miglior risultato. Quando i cavalli giravano in
tondo erano tenuti dal conducente, questo compito lo svolgevo solitamente sempre
io, che fungevo da perno.
Perché i cavalli non si ubriacassero a girare sempre nella
stessa direzione dopo circa una decina di giri provvedevo a invertire la loro
direzione di marcia e così si procedeva fino al risultato che si voleva
ottenere.
I cavalli giravano innumerevoli volte, gregne e spighe
disfatte a paglia e grano si giravano e si rincalzavano sotto il passo dei
cavalli per almeno sei volte se era grano duro.
Il lavoro procedeva alacremente sotto il sole cocente, tra la
polvere di paglia e terra si intonava con giusto tono e si cantava qualche
allegro motivo: «Bella e - bella e! alla lott - alla lott! l'ummn' sup' e i
femmn sott».
I tempi e i lavori che facevamo erano duri e pesanti, la
pisatura proseguiva fin verso le ore sedici poi si cominciava ad arrigliare
raccogliendo in un unico punto il cumulo di paglia e grano avvalendosi dell'
arrigliatore, che era un legno curvo che un paio di funi collegavano al basto di
uno dei cavalli che lo trascinava tirandosi dietro il cumulo. A questa
operazione si affiancava l'azione di raccolta con ratavelli e pale di legno da
parte dei componenti della famiglia.
Poi si cominciava a ventilare con pale e forche di legno.
Quest' operazione consisteva nel sollevare buttando in aria paglia e grano, con
il venticello presente o semplicemente con lo spostamento d'aria che si
produceva la paglia leggera volava e cadeva un po' lontana rispetto al grano, il
quale per effetto della differenza di peso si raccoglieva grezzamente ripulito
in un cumulo distinto dalla paglia.
Quest'operazione andava ripetuta più volte di modo che si
ottenesse un cumulo di grano sufficientemente ripulito dalle impurità, quindi
si passava ad un 'ulteriore fase di affina- mento della pulizia detta
palleggiatura e che veniva praticata con l' airale, un grosso recipiente dalla
forma circolare, dal diametro di oltre un metro e con un bordo di legno lungo la
circonferenza alto una decina di centimetri. L'airale era legato ed appeso a tre
legni lunghi, piantati per terra e alti almeno tre metri con i piedi divaricati
alla base, convergenti e legati al vertice.
In pratica eseguivamo un'operazione non dissimile da quella
dei cercatori d'oro i quali lungo i fiumi cerniscono acqua e sabbia e girando e
rigirando separano i vari componenti in cerca delle pagliuzze o delle pepite
d'oro. Si potrebbe dire che era la stessa operazione: anche noi cernevamo le
nostre pietruzze e pagliuzze che buttavamo, selezionando le nostre pepite d'oro
che era il grano.
Dopo questo lavoro il grano veniva insaccato, quindi si
procedeva alla pulizia dell' aia per fare largo, per anticipare il lavoro del
giorno seguente.
Sovente finivamo il lavoro della giornata che era notte
inoltrata.
Duro era anche il lavoro richiesto dalla coltivazione del
granturco che si seminava ai primi di aprile, mentre in maggio si faceva
"l'accalztura" e, a finire, la trebbiatura. Per tagliare il granturco
occorrevano circa quattro persone per ettaro. Dopo si portavano le pannocchie
sull'aia e si privavano delle foglie che servivano per riempire i sacconi dei
letti. Di solito arrivavano dalle Puglie i commercianti che acquistavano paglia
di grano tenero per i cavalli e paglia di granturco da utilizzare per i
materassi.
Terminato il raccolto del granturco, messa da parte la paglia
per i cavalli per tutto l'anno, si arrivava all'otto settembre, festa di Santa
Maria di Banzi.
Quando l'annata era buona, la locale commissione raccoglieva
denaro utile a pagare "la musica" che di solito era di provenienza
pugliese. Verso il 1920 comparvero i primi grammofoni cui spesso bisognava
cambiare l'ago: quanto grande fu la nostra sorpresa!
Poco distante dall'aia avevamo il tramo con la mangiatoia per
due cavalli e un mulo e una volta successe che verso l'una di notte vennero i
ladri per portarci via i cavalli. Quella notte stavo io e mio fratello Domenico,
lui aveva dodici anni, sentimmo il cane Carbone agitarsi e dirigersi verso il
campo di granturco, man mano che si avvicinava digrignava i denti e abbaiava
sempre più forte. Domenico cominciò ad avere paura, ma io tolsi subito il
disturbo ai ladri: presi il fucile e sparai due colpi di sopra alla cima del
granturco, di modo che i ladri sentirono il fruscìo del piombo sulle loro teste
e sentimmo che se ne scapparono a scavezzacollo inseguiti dal cane che non li
lasciò se non dopo averli perseguitati per più di mezz' ora per dentro il
bosco o per chi sa quali altri percorsi.
Un'altra notte c'era una bella luna, sentii chiamarmi, era un
ladro di cavalli che veniva dalle colline montagnose di Potenza, aveva diversi
capi di bestiame rubato. Venne da me, voleva vendermi quelle bestie a metà
prezzo. Ma io non volli accettare. Dopo pochi giorni si seppe che il ladruncolo
e colui che dal ladro comprò i cavalli finirono in prigione, al fresco.
Alla fine del lavoro di pisatura e di cernitura il grano
veniva insaccato, caricato sul traìno e portato a casa dove con una misura
chiamata tombarella veniva travasato dai sacchi alle cannecamere dove veniva
conservato per tutto l'anno, andando a prelevarlo all'occorrenza ogni qual volta
finiva la farina ed occorreva perciò fame dell' altra.
In queste occasioni il grano veniva un'altra volta
controllato e pulito. Lo si faceva uscire dalle cannecamere giù per terra e qui
la mamma e le mie sorelle si chinavano a pulirlo, poi facevano un lavoro di
pulitura più fine posando il grano sul tavoliere dove le piccole erbe e le
foglie che erano rimaste col grano, nel frattempo diventate però secche,
venivano se- parate dai chicchi di grano scelti ad uno ad uno e solo alla fine
di questo lavoro il grano veniva portato al mulino.
Dal mulino la farina veniva rilasciata insieme alla crusca e
quindi, una volta portata a casa, si doveva continuare a lavorare per separare
la farina dalla crusca.
Solo dopo quest'ulteriore operazione la farina veniva messa
sul tavoliere grande dove si faceva la fonte in mezzo, che era un bel buco, e
dentro vi si metteva dell'acqua calda e tanto sale per insaporirla, il crescente
(il lievito), e a forza di gomito si faceva diventare tutta la pasta della
farina omogenea e quando infine era lievitata veniva scannata e tutte le panelle
venivano portate al forno. La mia mamma e le mie sorelle facevano sempre sette o
otto scanat' di tre chili l'una che erano sufficienti per l'intera settimana.
In paese si facevano tre forni al giorno: il primo verso le
sette della mattina e gli altri due all'incirca dopo tre ore a distanza dal
precedente.
La sera prima di fare il pane la massaia andava al forno a
prenotarsi.
Ce n'erano tre di forni in paese ed erano tutti e tre a
paglia: due appartenevano a due fratelli, Rocco e Antonio Simone e l'altro a
Cataldo Pasquale.
Il fornaio accettava le prenotazioni fino ad esaurimento
della capienza limite per ogni infornata. Ogni forno aveva una capienza per
60-70 panelle per volta.
Se il numero veniva raggiunto si diceva all'interessata che
c'era posto per il suo pane nel forno successivo.
Ogni giorno, due o tre ore prima dell'orario dell'infornata
(verso le quattro della mattina per il forno delle sette) passava il fornaio o
sua moglie che si facevano il giro di tutto il paese bussando ad una ad una a
tutte le porte di coloro che si erano prenotati il giorno prima per il forno di
quell' ora, e bussando gridava: «'M'bastate, m'bastate, preparat' u pan'».
Le massaie si alzavano e preparavano il pane che dopo alcune
ore, una volta lievitato, era pronto per essere infornato. Verso quest'ora
ripassava un'altra volta il fornaio che, casa per casa, ora gridava: «Scannate,
scannat'», ad indicare che era giunta l'ora di portare il pane al forno. Le
famiglie un po' benestanti avevano la stessa fornaia che andava a prendere loro
il pane e a riportarlo a casa una volta cotto, le altre famiglie lo portavano da
sé. Le formelle di farina lievitata dalle donne venivano trasportate al forno
su una tavola appoggiata sulla testa tramite la "spar"', che era un
salvietto, un tovagliolo o uno strofinaccio raggomitolato a cerchio e posto in
testa sotto la tavola. Le donne con il pane sulla testa camminavano dritte e
statuarie con molta eleganza senza bisogno di mantenere la tavola con le mani.
Oltre al pane si era soliti cucinare anche qualche focaccia
con le frittil' di grasso di maiale oppure col pomodoro, o con lo zucchero. Si
facevano anche tortiere di pane con olio e sugna che era tanto buono, caldo
caldo e lo mangiavamo bevendo vinello, mentre in certe mattinate d'inverno
facevamo una mezza caldaia di polenta oppure un bel pancotto con le cime di rape
o cavoli ricci con frittil' di lardo e salsiccia, peperone pisato bello forte
forte e vinello e poi ci mettevamo al lavoro.
Un altro piatto povero ma prelibato era costituito dal
granoturco immerso nell'acqua che in una pignatta veniva portata la sera al
forno e che al mattino successivo veniva ritirato e, caldo com' era, veniva
gustato come una prelibatezza.
Se il tempo lo permetteva andavamo ad
arare le maggesi per trovare poi i campi pronti per la primavera durante la
quale o piantavamo la senape o il granturco mentre in qualche ettaro della terra
migliore seminavamo il lino. Poi quando io ho finito quelle poche scuole che ho
frequentato (la quarta classe fino a metà maggio che poi per un altro mese ho
perduto anche l'esame di quarta in quinta perché la mamma mi diceva sempre che
il babbo non poteva farcela da solo) allargammo il lavoro perché prendemmo tre
ettari in fitto nella tenuta di San Pro copio e diverse quote di due moggi alla
Piana del Rettangolo.
Intanto bisogna sapere che il nostro paese Banzi ha un
tenimento di undicimila ettari e di questi più di un terzo venne quotizzato e
dato in maniera gratuita ai banzesi, mentre diverse migliaia di ettari il
Demanio dello Stato li vendette. Tutte queste terre erano una volta di
proprietà del Monastero bene- dettino che sta ancora oggi proprio al centro del
paese. Anzi, una volta il paese non c'era proprio, c'era solo il Monastero. Solo
ai tempi romani e preromani esisteva un grande villaggio ma poi, con la nascita
del Monastero prima dell' anno Mille, il villaggio scomparve. Si formerà solo
dopo che il Monastero finì la sua storia e le sue terre cercarono di
accaparrarsele un po' tutti e allora nel 1800 cominciarono a venire a Banzi
molte persone e di nuovo, come nei tempi antichi, Banzi ritornò ad essere un
paese. Per questa ragione delle terre di Banzi ne sono proprietari molti
cittadini dei paesi vicini.
Dalle parti del Basentello sono state occupate dagli
spinazzolesi della provincia di Bari, mentre nella contrada di lazzo Poverello e
della Piana dei Parchi si sono insediati i genzanesi. A contrada Rettangolo e a
Pozzo delle Fontanelle hanno invece comprato i terreni quelli di Palazzo San
GervaIsio. Insomma, di tutti i terreni che aveva Banzi, ai banzesi è finito
proprio poco o niente e così a noi banzesi era lasciato poco e si faceva il
grano quasi solo per una famiglia.
Per campare tutto l'anno non c'erano altre possibilità di
lavoro oltre all'agricoltura. All'epoca non c'era neanche la possibilità di
emigrare. Chi lo faceva, come l'aveva fatto mio padre o zì Canio, per esempio,
era dovuto partire addi- rittura per l'America. E così io e mio padre per
arrangiarci d'inverno andavamo a comprare la legna, la trasformavamo in carbone
e in carbonella e l'andavamo a vendere per poter comperare la biada per le
bestie e per tirare avanti la numerosa famiglia.
Poi di primavera andavamo a caricare la calce in pietra a
Minervino oppure al Pitaffio di Spinazzola e l'andavamo a rivendere a Genzano o
a Palmi eri, come una volta si chiamava il paese di Oppido Lucano, oppure
andavamo fino ad Acerenza che era un paese di montagna.
Per fare questo poco di commercio si camminava di notte e
giorno anche sotto al freddo e sotto la pioggia e la neve.
Nell'estate del 1924 il babbo fece un contratto per ripulire
nel Comune di Acerenza un bosco di querce che tagliate dovevano essere
utilizzate come legno da costruzione.
Il lavoro di raccolta e vendita di legname e frasche ci rese
abbastanza e vendemmo tutto il materiale a Genzano. Subito dopo prendemmo in
affitto dei terreni per la semina, ma il disagio era notevole perché erano
molto distanti l'uno dall'altro. Avevamo quote nella Piana del Rettangolo, allo
lazzo Poverello, alla Carrera di San Procopio, a Mancamasone. I terreni erano
fertili e producevano frumento, granturco, fave e biada. Le strade di una volta
erano tutte imbrecciate e tante volte i poveri cavalli non ne potevano più
dalla fatica, si avvilivano, perdevano la forza.
Trascorsero diversi anni così fino a quando venne il
fascismo e l'ordine obbligatorio di fare il prmilitare. Durante queste
esercitazioni obbligatorie di pre-militare c'era, a capo del gruppo, un ragazzo
che aveva studiato un po' e che ricopriva il titolo di capitano. Le
esercitazioni le facevamo di sabato. Il nostro capitano era Enrico Lancellotti.
Durante quelle esercitazioni io e i miei amici avevamo
finalmente l'occasione di divertirci un po', sia perché si incominciava a
guardare qualche bella ragazza sia perché si andava un po' per proprio conto.
Facevamo anche qualche piccola uscita coi moschetti e poi si giocava alle pecore
e al lupo. Ci disponevamo in cerchio e tutti dovevamo prendere a calci il lupo
che stava al centro e il compito del lupo era che ad uno ad uno doveva
acchiapparci tutti. L'ultimo che riusciva a prendere diventava il nuovo lupo.
pag. 17-29 del libro pubblicato a cura di Canio Franculli da PianetaLibroEditori
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