E COSI' FU
di Michele Rigato

Il grano e il pane

    Al tempo della mietitura giungevano i mietitori pugliesi di Bitonto, Terlizzi e Bisceglie. Il lavoro era sempre lo stesso, cadenzato da ritmi e da soste. In campagna all'interno dei covoni mio padre riponeva i fiaschi del vino e dell'acqua per ripararli dalla calura estiva. Durante la trebbiatura si cantava, sia per non addormentarsi sia per sollecitare i cavalli al lavoro. A me piaceva molto cantare "Rondinella", una canzone che parlava di una rondine a cui l'innamorato affidava un messaggio per la sua bella che viveva al di là del mare.
    La mietitura del grano durava dai 15 ai 20 giorni.
    Nella mietitura era impegnata tutta la famiglia ma anche se eravamo in molti neanche bastavamo perché i terreni che avevamo erano tutti scomodi e c'era bisogno di aiuto. Per questo motivo eravamo costretti ad assumere i mietitori pugliesi.         Questi giungevano in paese già a partire dal giorno dopo la festa del santo patrono di San Vito che cadeva il 15 giugno.     Arrivavano portando con sé le falci e un fagotto contenente una coperta e un cambio di camicia e pantalone. In paese andavano ad occupare la piazza dove a gruppi si mettevano a disposizione dei proprietari dei campi e sempre qui alla sera pernottavano sotto le stelle.
    I proprietari che ne avevano bisogno li passavano in rassegna valutandone con sguardo esperto, per simpatia, le capacità e l'efficienza, quindi li assumevano nel numero che ritenevano necessario alle loro esigenze.
    A quei tempi i diserbanti non esistevano e prima di mietere era necessario fare il lavoro della sarchiatura: cioè pulire i seminati dalle erbacce. Se prima non si sarchiava non si poteva poi neanche mietere. Alla sarchiatura dei propri campi andavano tutti della famiglia e la campagna si riempiva d gente. Durante il lavoro le ragazze ed i ragazzi si davano voce con qualche ritornello, uno di questi domandava al cucco con un detto antico: «Cucco cucco galante, possi cadere e possi cantare, mi dici quanti anni debbo campare?». Un altro diceva: «Cucco cucco alto e bello - dimmi - fra quanti anni m metterò l'anello?». Il cu!-cu!! era la possibile risposta del cucco quando si chiedevano gli anni che mancavano al matrimonio. Quanti erano i cu!-cu! tanti erano gli anni che mancavano.
    Se il tempo era stato buono e le stagioni normali, senza nessun violento temporale o grandinata che in primavera avesse distrutto i campi, di solito le messi già da metà giugno erano sempre belle ed abbondanti, e i nostri campi di S. Procopio erano ricchi di buon grano, resistente, quello duro di qualità rossìa, policore o cappello. Mentre la maiolica di grano teneri aveva la cattera di spiga lunga e soggetta al vento, se non veniva mietuta al momento giusto bastava un po' di vento per buttarla a terra. Si coltivava anche la risciòla a spiga rossa.
    I mietitori erano organizzati in paranze. La paranza era solitamente composta da quattro mieti tori più il legante Quest'ultimo aveva il compito di raccogliere gli scern'ti, cioè il grano contenuto fra le cinque dita di una mano che veniva falciato dai mietitori. Gli scern'ti erano legati da uno stelo d grano arrotolato ed intersecato con un nodo sommario ma fatto ad arte da mani esperte. Dopo averli legati gli scern'ti venivano depositati sugli steli tagliati divenuti ormai stoppie. A questo punto sopraggiungeva il legante che aveva il compiti di procedere alla raccolta degli scern'iti e di comporre le gregne. I mietitori continuavano a procedere in avanti, piegati in due, al taglio con la falce che avveniva solitamente ad un'altezza di circa venticinque, trenta o anche quaranta centimetri da terra. L'altezza del taglio variava in funzione dell' altezza delle spighe di grano da tagliare.
    Il mietitore quando falciava si proteggeva l'avambraccio col vraz'lare, una fascia di pelle, in modo che menando il cap'stredd', per legare lo scern'to, non si graffiasse il braccio.
    Per proteggere poi le dita della mano sinistra queste erano infilate in 4 cannetti, in modo che la falce non tagliasse alcun dito.
    La paranza dei mietitori procedeva pressoché affiancata al taglio occupando uno spazio di circa un metro e mezzo per ognuno dei suoi componenti. Durante la mietitura mio padre faceva fare ai mietitori anche la "perduta" quando si arrivava all'ante, vale a dire quando si giungeva all'estremo opposto del campo da mietere rispetto al punto d'inizio. A quest'altezza si faceva una gregna di tutti i mazzi di spighe già tagliati e non ancora raccolti dal legante e subito dopo i mieti tori facevano una breve sosta per raddrizzare la schiena curvata dalla fatica, per asciugarsi il sudore della fronte, per rifocillarsi dall'arsura della gola seccata dal calore cocente dei raggi del sole con una bevuta di acqua fresca o di vino portato all'ante dalla mamma o da qualche altro di famiglia. Poiché in questa maniera si perdeva tempo, la sosta veniva chiamata "la perduta".
    L'acqua era contenuta in un recipiente di terracotta che la manteneva fresca, u' cic'n; il vino era invece contenuto nella fiasca di cinque litri. Entrambi i recipienti erano muniti di una cannello di canna all'imbocco, si beveva tutti a garganella, senza posare le labbra vicino al cannello. Si beveva così anche per ragioni igieniche.
    Si cominciava a mietere il grano all'alba, con il fresco del mattino, per proseguire poi per il resto della giornata.
    Ai mietitori della marina si dava, oltre alla paga, anche da mangiare. I mietitori mangiavano cinque volte al giorno: prima di cominciare, verso le cinque del mattino, si dava loro nu' muzzich' di pane e formaggio con frittata, verso le nove si prendevano un altro boccone magari con un po' di pancetta o lardo con qualche peperoncino piccante, pomodoro e cipolla e con vino sempre in abbondanza. Poi c'era la sosta per il pranzo di mezzogiorno preparato e portato sul campo dalla mamma e dalle mie sorelle. Il pranzo era fatto con pasta fatta in casa, con il sugo di pomodoro o con fave, lenticchie, cicerchie, accompagnati da qualche pezzetto di carne e formaggio e non mancavano mai i pomodori, i peperoni dolci fritti oppure i peperoncini piccanti, le cipolle e qualche frutto di stagione. Alla sera, verso le otto o le nove, i mietitori che erano ritornati in paese andavano a mangiare alla casa del padrone: fave, minestre di verdure, ceci, peperoni fritti o baccalà. I mieti tori che erano stati assunti da grandi proprie- tari terrieri di solito non tornavano alla sera in paese perché si fermavano a mangiare e a dormire nelle masserie dei latifondisti.

    Quando tutto il campo di grano era stato falciato si procedeva alla carenatura, che consisteva nel caricamento e nel tra- sporto di tutte le gregne all'aia, dove passavamo non meno di due mesi per la pisatura, o trebbiatura che dir si voglia e che veniva fatta tutta a piede con i cavalli sotto il sole cocente.
    Per fare una pisatura occorreva molta manodopera e quasi tutta la mattinata. In quei giorni io e il babbo dormivamo in campagna, nel capanno dell' aia a Piano Carbone, e il babbo quasi tutte le mattine, prima che spuntasse l'alba, prendeva il fucile e i cani ed andava a caccia mentr'io aspettavo che al primo albeggiare arrivasse dal paese mia madre con le mie sorelle e i miei due fratelli già grandicelli, ad aiutarmi a stendere le gregne per la nuova pisatura.
    Io allora salivo sul cavalletto oppure sul pignone e buttavo le gregne a terra, gli altri le stendevano a terra ordinandole in forma circolare, di modo che i cavalli potessero pestarle. L'operazione sembrava facile ma non lo era del tutto. Bisognava stare attenti ad iniziare l'accumulo delle gregne sempre da un lato, che era poi il lato dell' arrigliata, cioè del montone del grano pestato il giorno prima e che ancora non era stato ventilato per mancanza di vento.
    L'aia era rotonda e in piano, del diametro di un centinaio di metri, e serviva per raccogliere il grano falciato dal mietitore e raccolto in gregne che qui venivano messe l'una sull'altra fino a formare il monticello del covone.
    L'aia veniva preparata con cura. Bisognava bagnare e lisciare il terreno con scope di saggina per renderla impermeabile, uniforme e duro di modo che i chicchi di grano dei covoni non si piantassero in terra. Una cura particolare veniva riservata anche alla costruzione della circonferenza che bisognava ricavarci dentro l'aia, dove i cavalli vi dovevano girare in tondo bendati per effettuare la pisatura, e dove veniva ventilato il grano. Ad essere però precisi non erano i cavalli che venivano bendati ma solo i muli e gli asini.
    L'aia la tenevamo sempre pulita. Con forche, ratavelli e scope stavamo tutti a spazzar l'aia anche perché se si fosse messo a piovere bisognava garantire che tutto era al suo posto per fare in modo che non ci fosse stata molta perdita di grano.
    Prima di giungere all'aia le gregne stavano naturalmente nei campi dove erano state ammassate l'una sull' altra [mo a formare un cumulo di una decina di gregne sapientemente messe insieme, ad angolo e con le spighe rivolte all'interno, con una forma a piramide che veniva chiamata la v'rredde.
    Alle gregne e alle v'rrede non vi provvedevano i mietit ri, il cui lavoro si limitava alla sola falciatura. Vi provvedevano di solito lo stesso proprietario e parte della sua famiglia, aiutati a volte da qualche contadino amico o parente e al quale poi bisognava contraccambiare il favore.

    Dalle v'rredde le gregne venivano successivamente riprese con le forche ad una ad una e depositate sul tramo per esse- re trasportate nell' aia. La forma che assumevano sul carro, che di solito veniva trainato da una coppia di buoi, era chiamata la tomba perché assomigliava ad un catafalco. Anche la costruzione della tomba presupponeva una particolare bravura.
    Dopo la mietitura si iniziava la pisatura.
    Prima di cominciare la pisatura era d'obbligo abbeverare i cavalli. Per compiere questo rito mi recavo con i cavalli al pilone di Lasala Beniamino, che era un grosso proprietario terriero che aveva grosse mandrie di pecore, di maiali, di buoi e cavalli e che era anche il proprietario di quel pezzo di terra dove noi facevamo l'aia- e che lui ci aveva affittato.
    Il pilone non era molto lontano dall' aia. Qui riempivo due cicini di terracotta, che poi avevamo cura di tenere all'ombra per conservarne la freschezza, bevevo ed abbeveravo i cavalli. Tornato all'aia, legavo i cavalli in modo che si muovessero in coppia e cominciavo la pisatura. Attraverso il passo e il ripasso si otteneva la separazione del grano dalla paglia e dalla pula che si produceva in gran quantità.
    Per fare tre passate ci voleva un' ora buona e di solito era quando si cominciava la seconda pisatura che il babbo faceva ritorno dalla caccia: contento e felice se portava qualcosa, una lepre per esempio, oppure come al solito furioso e intrattabile se invece non era riuscito a catturare nessuna selvaggina.
    Mentre i cavalli giravano e rigiravano nell'aia i miei fratelli e sorelle rincalzavano sotto la direzione degli zoccoli del cavallo le gregne di grano per ottenere un miglior risultato. Quando i cavalli giravano in tondo erano tenuti dal conducente, questo compito lo svolgevo solitamente sempre io, che fungevo da perno.
    Perché i cavalli non si ubriacassero a girare sempre nella stessa direzione dopo circa una decina di giri provvedevo a invertire la loro direzione di marcia e così si procedeva fino al risultato che si voleva ottenere.
    I cavalli giravano innumerevoli volte, gregne e spighe disfatte a paglia e grano si giravano e si rincalzavano sotto il passo dei cavalli per almeno sei volte se era grano duro.
    Il lavoro procedeva alacremente sotto il sole cocente, tra la polvere di paglia e terra si intonava con giusto tono e si cantava qualche allegro motivo: «Bella e - bella e! alla lott - alla lott! l'ummn' sup' e i femmn sott».
    I tempi e i lavori che facevamo erano duri e pesanti, la pisatura proseguiva fin verso le ore sedici poi si cominciava ad arrigliare raccogliendo in un unico punto il cumulo di paglia e grano avvalendosi dell' arrigliatore, che era un legno curvo che un paio di funi collegavano al basto di uno dei cavalli che lo trascinava tirandosi dietro il cumulo. A questa operazione si affiancava l'azione di raccolta con ratavelli e pale di legno da parte dei componenti della famiglia.
    Poi si cominciava a ventilare con pale e forche di legno. Quest' operazione consisteva nel sollevare buttando in aria paglia e grano, con il venticello presente o semplicemente con lo spostamento d'aria che si produceva la paglia leggera volava e cadeva un po' lontana rispetto al grano, il quale per effetto della differenza di peso si raccoglieva grezzamente ripulito in un cumulo distinto dalla paglia.
    Quest'operazione andava ripetuta più volte di modo che si ottenesse un cumulo di grano sufficientemente ripulito dalle impurità, quindi si passava ad un 'ulteriore fase di affina- mento della pulizia detta palleggiatura e che veniva praticata con l' airale, un grosso recipiente dalla forma circolare, dal diametro di oltre un metro e con un bordo di legno lungo la circonferenza alto una decina di centimetri. L'airale era legato ed appeso a tre legni lunghi, piantati per terra e alti almeno tre metri con i piedi divaricati alla base, convergenti e legati al vertice.
    In pratica eseguivamo un'operazione non dissimile da quella dei cercatori d'oro i quali lungo i fiumi cerniscono acqua e sabbia e girando e rigirando separano i vari componenti in cerca delle pagliuzze o delle pepite d'oro. Si potrebbe dire che era la stessa operazione: anche noi cernevamo le nostre pietruzze e pagliuzze che buttavamo, selezionando le nostre pepite d'oro che era il grano.
    Dopo questo lavoro il grano veniva insaccato, quindi si procedeva alla pulizia dell' aia per fare largo, per anticipare il lavoro del giorno seguente.
    Sovente finivamo il lavoro della giornata che era notte inoltrata.

    Duro era anche il lavoro richiesto dalla coltivazione del granturco che si seminava ai primi di aprile, mentre in maggio si faceva "l'accalztura" e, a finire, la trebbiatura. Per tagliare il granturco occorrevano circa quattro persone per ettaro. Dopo si portavano le pannocchie sull'aia e si privavano delle foglie che servivano per riempire i sacconi dei letti. Di solito arrivavano dalle Puglie i commercianti che acquistavano paglia di grano tenero per i cavalli e paglia di granturco da utilizzare per i materassi.
    Terminato il raccolto del granturco, messa da parte la paglia per i cavalli per tutto l'anno, si arrivava all'otto settembre, festa di Santa Maria di Banzi.
    Quando l'annata era buona, la locale commissione raccoglieva denaro utile a pagare "la musica" che di solito era di provenienza pugliese. Verso il 1920 comparvero i primi grammofoni cui spesso bisognava cambiare l'ago: quanto grande fu la nostra sorpresa!
    Poco distante dall'aia avevamo il tramo con la mangiatoia per due cavalli e un mulo e una volta successe che verso l'una di notte vennero i ladri per portarci via i cavalli. Quella notte stavo io e mio fratello Domenico, lui aveva dodici anni, sentimmo il cane Carbone agitarsi e dirigersi verso il campo di granturco, man mano che si avvicinava digrignava i denti e abbaiava sempre più forte. Domenico cominciò ad avere paura, ma io tolsi subito il disturbo ai ladri: presi il fucile e sparai due colpi di sopra alla cima del granturco, di modo che i ladri sentirono il fruscìo del piombo sulle loro teste e sentimmo che se ne scapparono a scavezzacollo inseguiti dal cane che non li lasciò se non dopo averli perseguitati per più di mezz' ora per dentro il bosco o per chi sa quali altri percorsi.
    Un'altra notte c'era una bella luna, sentii chiamarmi, era un ladro di cavalli che veniva dalle colline montagnose di Potenza, aveva diversi capi di bestiame rubato. Venne da me, voleva vendermi quelle bestie a metà prezzo. Ma io non volli accettare. Dopo pochi giorni si seppe che il ladruncolo e colui che dal ladro comprò i cavalli finirono in prigione, al fresco.
    Alla fine del lavoro di pisatura e di cernitura il grano veniva insaccato, caricato sul traìno e portato a casa dove con una misura chiamata tombarella veniva travasato dai sacchi alle cannecamere dove veniva conservato per tutto l'anno, andando a prelevarlo all'occorrenza ogni qual volta finiva la farina ed occorreva perciò fame dell' altra.
    In queste occasioni il grano veniva un'altra volta controllato e pulito. Lo si faceva uscire dalle cannecamere giù per terra e qui la mamma e le mie sorelle si chinavano a pulirlo, poi facevano un lavoro di pulitura più fine posando il grano sul tavoliere dove le piccole erbe e le foglie che erano rimaste col grano, nel frattempo diventate però secche, venivano se- parate dai chicchi di grano scelti ad uno ad uno e solo alla fine di questo lavoro il grano veniva portato al mulino.
    Dal mulino la farina veniva rilasciata insieme alla crusca e quindi, una volta portata a casa, si doveva continuare a lavorare per separare la farina dalla crusca.
    Solo dopo quest'ulteriore operazione la farina veniva messa sul tavoliere grande dove si faceva la fonte in mezzo, che era un bel buco, e dentro vi si metteva dell'acqua calda e tanto sale per insaporirla, il crescente (il lievito), e a forza di gomito si faceva diventare tutta la pasta della farina omogenea e quando infine era lievitata veniva scannata e tutte le panelle venivano portate al forno. La mia mamma e le mie sorelle facevano sempre sette o otto scanat' di tre chili l'una che erano sufficienti per l'intera settimana.
   
    In paese si facevano tre forni al giorno: il primo verso le sette della mattina e gli altri due all'incirca dopo tre ore a distanza dal precedente.
    La sera prima di fare il pane la massaia andava al forno a prenotarsi.
    Ce n'erano tre di forni in paese ed erano tutti e tre a paglia: due appartenevano a due fratelli, Rocco e Antonio Simone e l'altro a Cataldo Pasquale.
    Il fornaio accettava le prenotazioni fino ad esaurimento della capienza limite per ogni infornata. Ogni forno aveva una capienza per 60-70 panelle per volta.
    Se il numero veniva raggiunto si diceva all'interessata che c'era posto per il suo pane nel forno successivo.
    Ogni giorno, due o tre ore prima dell'orario dell'infornata (verso le quattro della mattina per il forno delle sette) passava il fornaio o sua moglie che si facevano il giro di tutto il paese bussando ad una ad una a tutte le porte di coloro che si erano prenotati il giorno prima per il forno di quell' ora, e bussando gridava: «'M'bastate, m'bastate, preparat' u pan'».
    Le massaie si alzavano e preparavano il pane che dopo alcune ore, una volta lievitato, era pronto per essere infornato. Verso quest'ora ripassava un'altra volta il fornaio che, casa per casa, ora gridava: «Scannate, scannat'», ad indicare che era giunta l'ora di portare il pane al forno. Le famiglie un po' benestanti avevano la stessa fornaia che andava a prendere loro il pane e a riportarlo a casa una volta cotto, le altre famiglie lo portavano da sé. Le formelle di farina lievitata dalle donne venivano trasportate al forno su una tavola appoggiata sulla testa tramite la "spar"', che era un salvietto, un tovagliolo o uno strofinaccio raggomitolato a cerchio e posto in testa sotto la tavola. Le donne con il pane sulla testa camminavano dritte e statuarie con molta eleganza senza bisogno di mantenere la tavola con le mani.
    Oltre al pane si era soliti cucinare anche qualche focaccia con le frittil' di grasso di maiale oppure col pomodoro, o con lo zucchero. Si facevano anche tortiere di pane con olio e sugna che era tanto buono, caldo caldo e lo mangiavamo bevendo vinello, mentre in certe mattinate d'inverno facevamo una mezza caldaia di polenta oppure un bel pancotto con le cime di rape o cavoli ricci con frittil' di lardo e salsiccia, peperone pisato bello forte forte e vinello e poi ci mettevamo al lavoro.
    Un altro piatto povero ma prelibato era costituito dal granoturco immerso nell'acqua che in una pignatta veniva portata la sera al forno e che al mattino successivo veniva ritirato e, caldo com' era, veniva gustato come una prelibatezza.

    Se il tempo lo permetteva andavamo ad arare le maggesi per trovare poi i campi pronti per la primavera durante la quale o piantavamo la senape o il granturco mentre in qualche ettaro della terra migliore seminavamo il lino. Poi quando io ho finito quelle poche scuole che ho frequentato (la quarta classe fino a metà maggio che poi per un altro mese ho perduto anche l'esame di quarta in quinta perché la mamma mi diceva sempre che il babbo non poteva farcela da solo) allargammo il lavoro perché prendemmo tre ettari in fitto nella tenuta di San Pro copio e diverse quote di due moggi alla Piana del Rettangolo.
    Intanto bisogna sapere che il nostro paese Banzi ha un tenimento di undicimila ettari e di questi più di un terzo venne quotizzato e dato in maniera gratuita ai banzesi, mentre diverse migliaia di ettari il Demanio dello Stato li vendette. Tutte queste terre erano una volta di proprietà del Monastero bene- dettino che sta ancora oggi proprio al centro del paese. Anzi, una volta il paese non c'era proprio, c'era solo il Monastero. Solo ai tempi romani e preromani esisteva un grande villaggio ma poi, con la nascita del Monastero prima dell' anno Mille, il villaggio scomparve. Si formerà solo dopo che il Monastero finì la sua storia e le sue terre cercarono di accaparrarsele un po' tutti e allora nel 1800 cominciarono a venire a Banzi molte persone e di nuovo, come nei tempi antichi, Banzi ritornò ad essere un paese. Per questa ragione delle terre di Banzi ne sono proprietari molti cittadini dei paesi vicini.
    Dalle parti del Basentello sono state occupate dagli spinazzolesi della provincia di Bari, mentre nella contrada di lazzo Poverello e della Piana dei Parchi si sono insediati i genzanesi. A contrada Rettangolo e a Pozzo delle Fontanelle hanno invece comprato i terreni quelli di Palazzo San GervaIsio. Insomma, di tutti i terreni che aveva Banzi, ai banzesi è finito proprio poco o niente e così a noi banzesi era lasciato poco e si faceva il grano quasi solo per una famiglia.
    Per campare tutto l'anno non c'erano altre possibilità di lavoro oltre all'agricoltura. All'epoca non c'era neanche la possibilità di emigrare. Chi lo faceva, come l'aveva fatto mio padre o zì Canio, per esempio, era dovuto partire addi- rittura per l'America. E così io e mio padre per arrangiarci d'inverno andavamo a comprare la legna, la trasformavamo in carbone e in carbonella e l'andavamo a vendere per poter comperare la biada per le bestie e per tirare avanti la numerosa famiglia.
    Poi di primavera andavamo a caricare la calce in pietra a Minervino oppure al Pitaffio di Spinazzola e l'andavamo a rivendere a Genzano o a Palmi eri, come una volta si chiamava il paese di Oppido Lucano, oppure andavamo fino ad Acerenza che era un paese di montagna.
    Per fare questo poco di commercio si camminava di notte e giorno anche sotto al freddo e sotto la pioggia e la neve.
    Nell'estate del 1924 il babbo fece un contratto per ripulire nel Comune di Acerenza un bosco di querce che tagliate dovevano essere utilizzate come legno da costruzione.
    Il lavoro di raccolta e vendita di legname e frasche ci rese abbastanza e vendemmo tutto il materiale a Genzano. Subito dopo prendemmo in affitto dei terreni per la semina, ma il disagio era notevole perché erano molto distanti l'uno dall'altro. Avevamo quote nella Piana del Rettangolo, allo lazzo Poverello, alla Carrera di San Procopio, a Mancamasone. I terreni erano fertili e producevano frumento, granturco, fave e biada. Le strade di una volta erano tutte imbrecciate e tante volte i poveri cavalli non ne potevano più dalla fatica, si avvilivano, perdevano la forza.
    Trascorsero diversi anni così fino a quando venne il fascismo e l'ordine obbligatorio di fare il prmilitare. Durante queste esercitazioni obbligatorie di pre-militare c'era, a capo del gruppo, un ragazzo che aveva studiato un po' e che ricopriva il titolo di capitano. Le esercitazioni le facevamo di sabato. Il nostro capitano era Enrico Lancellotti.
    Durante quelle esercitazioni io e i miei amici avevamo finalmente l'occasione di divertirci un po', sia perché si incominciava a guardare qualche bella ragazza sia perché si andava un po' per proprio conto. Facevamo anche qualche piccola uscita coi moschetti e poi si giocava alle pecore e al lupo. Ci disponevamo in cerchio e tutti dovevamo prendere a calci il lupo che stava al centro e il compito del lupo era che ad uno ad uno doveva acchiapparci tutti. L'ultimo che riusciva a prendere diventava il nuovo lupo.

pag. 17-29 del libro pubblicato a cura di Canio Franculli da PianetaLibroEditori 2003 - www.pianetalibro.com

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