E COSI' FU
di Michele Rigato
La carbonella
Tre anni prima che partissi per le armi mio
padre stipulò un contratto per trasportare e vendere la carbonella del bosco di
S. Giuliano in agro di Acerenza.
Per procurarci la carbonella e fare un carico completo di
traìno bisognava partire da casa nostra all'una di notte e dopo aver viaggiato
durante le restanti ore notturne si arrivava di buon mattino al Piano del
Convento di Acerenza, qui staccavamo i cavalli dal traìno e a piedi o a cavallo
proseguivamo fino al bosco.
Il percorso dal Piano del Convento al luogo del bosco che
dovevamo raggiungere era accidentato, fatto di sentieri non transitabili con il
traìno. Lo raggiungevamo con i cavalli verso le otto del mattino.
Giunti sul posto s'insaccava la carbonella nei sacchi di
iuta, caricavamo sul basto di ogni cavallo almeno quattro grandi sacchi, e
ritornavamo indietro dal bosco fino al Piano del Convento.
Solitamente io e mio padre in un giorno riuscivamo a fare tre
o quattro viaggi, non di più, ed era per questa ragione che a volte per fare
più in fretta ci servivamo dell'opera a pagamento dei mulattieri, gente che era
specializzata nel caricare e trasportare la carbonella sul dorso degli animali
riuscendo a caricare anche sei sacchi di carbonella per volta.
Solitamente o coi mulattieri o da soli completavamo il carico
che era sempre già sera inoltrata, finivamo di caricare il traìno per l'ultimo
viaggio della giornata e riprendevamo la strada del ritorno con l'oscurità
delle tenebre. I cavalli, sempre stracarichi, alla sera erano stanchi anch'essi
e si trascinavano lemmi lemmi lungo il sentiero. Insieme a loro eravamo esposti
a tutte le intemperie, si camminava sempre, qualsiasi tempo facesse. Non era
raro che venissimo sorpresi dai temporali che rischiaravano con le loro saette
di luce la notte scura con tuoni che incutevano paura. Spesso se non era la
pioggia era la neve che d'inverno ci colpiva con le sue tormente, spazzata dal
vento gelido della tramontana. Non arrivavamo mai in paese prima di mezzanotte.
Quando finalmente vi giungevamo per prima cosa posizionavamo il traìno vicino
alla porta di casa, mettendoci il sostegno per tenerlo fermo e in equilibrio,
poi staccavamo i cavalli e li mettevamo nella stalla, li strigliavamo, li
governavamo con paglia e biada abbondante, e dopo esserci lavati e rifocillati
con un piatto caldo, preparato da mia madre, finalmente potevamo anche noi
ristorarci con un po' di riposo.
Il nostro era però un riposo che in
verità durava molto poco, solitamente non più di tre o quattro ore perché in
piena notte, molto prima che cominciasse ad albeggiare, già ci alzavamo per
riprendere di nuovo a lavorare. I viaggi per commerciare carbonella, calce o
cereali si alternavano al lavoro nei campi che variava a secondo delle stagioni
o della caccia. Solitamente valutavamo cosa fosse meglio fare in quel momento,
secondo la stagione e le condizioni del tempo. Comunque sia quando ci toccava
riprendere il commercio col traìno si partiva dal paese sempre a notte fonda,
solitamente verso la mezzanotte o l'una, per poter arrivare alle prime ore del
mattino nei paesi un po' più lontani come lo erano Spinazzola o Minervino Murge
in provincia di Bari.
In queste località vendevamo la carbonella e caricavamo sul
traìno, ora vuoto, la calce che sulla strada del ritorno portavamo a vendere a
Banzi o a Genzano di Lucania, ad Acerenza o ad Oppido, ma a volte anche in paesi
molto più lontani dell' entroterra della provincia di Potenza dove ci
spingevamo fino ad Anzi, Calvello o Labriola: tutti paesi lontani dal nostro
punto di partenza.
Ricordo il giorno due febbraio del 1932. Dopo aver venduto un
carico di calce eravamo sulla via del ritorno. Il tempo era buono, la giornata
era stata serena ed io e mio padre ce ne tornavamo tranquilli e spensierati
quando ad un tratto, arrivati all'altezza dei terreni di Don Giovanni Pelosa di
Acerenza, fummo sorpresi dalla luce abbagliante e folgorante di una saetta alla
quale seguì un gran tuono. Non c'era una nuvola, niente nel cielo, solo stelle,
e quella saetta spuntata all'improvviso ci fece paura. Non passò neanche un'ora
da quella saetta che piano piano si mise a nevicare fitto, con fiocchi di
neve grandi quanto fazzoletti.
Noi avevamo il traìno vuoto e lungo la strada rotabile di S.
Procopio, sia dalla parte di sopra che dalla parte di sotto della scarpata,
c'erano delle belle querciole e con l'accetta ne abbattemmo tante da caricare
completamente il traìno. Arrivammo a Banzi senza che smise mai di nevicare.
Nevicò tutta la notte.
Quando la mattina ci svegliammo c'era più di mezzo metro di
neve sulle strade e il tempo era calmo. Quell'anno le mie sorelle Teresa e
Rosina erano già maritate mentre Maria era fidanzata.
Mio padre, sempre smanioso di andare a caccia, volle andarci
anche quella mattina e così partimmo. Eravamo io, lui e il fidanzato di Maria,
che all' epoca era Francesco Simone.
Arrivati al bosco di Vincinzudd' scorgemmo sulla neve le
orecchie e le macchie di sangue di una lepre che una volpe aveva mangiato. Era
facile seguire sulla neve le impronte lasciate dalla volpe. Esse ci condussero
fiino alla sua tana, in un anfratto in fondo ad un vallone. Sicuri che la volpe
era ancora dentro, abbiamo raccolto un po' di legna e l'abbiamo affumicata
facendo fuoco e fumo davanti alla tana dopo averne, però, ostruito il
passaggio. Fatta questa operazione andammo via. Al mattino seguente, dopo aver
fatto un'abbondante colazione con un bel pancotto cucinato insieme a frittelle
di lardo, a cime di rape e salsiccia piccante, siamo ripartititi verso la tana
della volpe affumicata. Giunti sul posto abbiamo aperto la tana: c'era un grosso
volpone maschio, che naturalmente trovammo morto asfissiato dal. fumo. Povera
bestia. L'abbiamo preso e subito siamo ripartiti per tornare a casa perché il
tempo aveva cominciato ad intristirsi di neve e tempesta e dovevamo affrettarci.
pag. 42-45 del libro pubblicato a cura di Canio Franculli da PianetaLibroEditori 2003 - www.pianetalibro.com
- : - : - : - : - : - : - : - : - : - : - : - : -
Sono sicuro che il mio compare Michele non si sentirà mancare di
rispetto, se mi permetto di rilevare che in questo racconto è incorso in una
dimenticanza, dal momento che non ha citato affatto suo fratello Peppino nello
svolgimento del commercio della carbonella, e suo fratello certamente non ne
sarà rimasto estraneo, se tale attività è valsa a far acquisire proprio a lui
il soprannome di "Carbonella".
Non è da escludere, tuttavia, che, più che di una
dimenticanza, possa essersi trattato di una imposizione del diretto interessato
al fratello scrittore, di fargli omettere citazioni della sua persona nel
racconto, oppure di una cortesia resagli dal curatore dello stesso, che può
aver espunto dalle memorie scritte a mano i riferimenti in questione.
Io che Giuseppe Rigato ho avuto come maestro, so infatti
quanta intolleranza avesse a sentirsi appellare col soprannome, se, come
raccontato ne' Il
saluto a Banzi, si
scatenava furiosamente a menare botte allo scolaro che, innocente o malaccorto,
avesse pronunciato la parola "Carbonella".
Eppure non riesco a vedere il motivo di ciò, a capire
l'avversione ad ammettere di aver svolto un'attività diversa prima di quella
dell'insegnante, quando uno come Pertini ricordava invece con fierezza tutti gli
umili lavori fatti prima di diventare Presidente della Repubblica: anch'io, ad
esempio, sono orgoglioso di dichiarare di essere nipote di Antonio Teto, il
porcaro di Genzano di Lucania.
Tuttavia, mentre Michele Rigato ci tiene a rievocare tutto
del suo passato, il fratello Giuseppe vuole invece dissimularne una sua parte,
quasi che costituisca motivo di disonore far sapere che da giovane egli ha avuto
a che fare col commercio della carbonella, che non è mica poi qualcosa di
illecito!
L'estate scorsa ho ricevuto un messaggio da uno dei nipoti
del mio ex maestro. Egli, oltre a farmi i complimenti per questo sito, mi ha
anche chiesto se per caso fossimo parenti, dal momento che sua nonna aveva il
mio stesso cognome.
Ne sono rimasto sorpreso ed imbarazzato nello stesso tempo,
tuttavia gli ho risposto, ringraziandolo per i complimenti e non potendo neppure
negare - in virtù di quanto risulta dall'albero
genealogico - di
ammettere di essere un suo parente, sia pure ciò con alquanto disagio, e timore
di brutte reazioni di qualche sua zia, se fosse venuta a saperlo.
Apparendomi peraltro strani i complimenti, non ho potuto fare
a meno di chiedergli se aveva visto proprio tutto il contenuto del sito.
Infatti, egli non aveva ancora letto certe pagine, perché quando l'ha fatto,
non ha esitato a rimangiarsi i complimenti e, passando dal "tu" al "lei",
a rivolgermi questa esortazione: "Faccia conto che non Le abbia mai scritto".
Dubito poi anche che si sia fatto ambasciatore con suo nonno, per
comunicargli il mio desiderio di inserire in questo sito un suo messaggio di
scuse per le botte date agli scolari, in modo da potersi riconciliare con loro prima che non ci sia più il tempo per farlo (il mio ex maestro è della
classe 1919 e quest'anno compie 86 anni!).
Se ciò non dovesse accadere, sono peraltro sicuro che al mio
ex compagno di scuola Antonio Pacella verrà un sorriso, ove dovesse leggere
questa pagina, e che Michele Rigato saprà col suo racconto fargli perdonare
senz'altro la brutalità ricevuta da suo fratello, Giuseppe Rigato, detto
"Carbonella" ... oltre ad essere riuscito,
preterintenzionalmente, a spiegare l'origine del soprannome del maestro.