E COSI' FU
di Michele Rigato

La prigionia

    Quando a Korçia i tedeschi ci avevano fatti prigionieri partimmo a piedi sorvegliati da pochi soldati armati di mitraglie a cinque canne. Durante la marcia eravamo seguiti dai partigiani slavi di Tito che avrebbero voluto liberarci, ma era praticamente impossibile dal momento che i nostri nemici erano armati fino ai denti. A Bitche io ero con altri soldati di Banzi: Lorenzo Carcuro e Vito Di Cosimo, il marito di Annarosa Nicolò, e di Palazzo: Del Monte, Dinardo e Lombardi e ci incoraggiavamo a vicenda. 
    La linea Maginot, su cui si trovava la città, era una formidabile zona di difesa approntata dai francesi del maresciallo Petain lungo il confine con la Germania. Essa fu superata dai tedeschi nei primi giorni di maggio del 1940 con un immenso spiegamento di armi, truppe e mezzi corazzati. Fu così che nel giro di pochi giorni tutta la costa della Manica cadde in mano tedesca, mentre il corpo di spedizione britannico sbarcato nel continente fu decimato e costretto a reimbarcarsi a Dunkerque sotto il fuoco delle artiglierie nemiche e i continui e micidiali attacchi in picchiata degli Stukas, aerei da combattimento. 
    Al decimo giorno da quando stavo a Bitche feci un sogno. In sogno si presentò una donna che mi chiese: «Michele mi conosci?», risposi di «si», ma lei voleva per forza che io pronunciassi il suo nome, allora dissi: «Tu sei zia Angela», lei rispose: «Bravo, mi hai riconosciuta. lo sono venuta apposta per te. Adesso ascolta quello che ti dico -così mi disse -. Guarda bene, domani mattina la corvée va fuori in paese a fa- re la spesa, tu esci con la corvée e quando sei in paese entra in qualsiasi casa che vuoi, gli abitanti di quella casa ti faranno buona accoglienza, ti cambieranno questi abiti e andrai a lavorare con loro senza nessuna paura». Le feci osservare che non sapevo parlare il francese, ma lei mi rispose che ci sarebbe stata lei che mi avrebbe aiutato. Non le ubbidii. 
    La notte appresso venne di nuovo, ed in sogno avemmo più di due ore di colluttazione, lei legava ed io scioglievo, ma ad un tratto disse: «Ora io non posso più stare con te, devo andare via però ricordati di uscire». Ma anche quel giorno non volli darle retta. 
    E così zia Angela la terza notte venne di nuovo in sogno e figurati che mi prese per poco pane, ma io ero preparato e le dissi: «Senti zia, tu dici che mi vuoi aiutare, ma come puoi aiutarmi se tu sei morta?». Lei non si scompose, ma con cal- ma, con voce austera e solenne, e sempre con me di fronte, mi disse: «È vero che io sono morta, ma per venire da te sono venuta col permesso dell'eterno padre». Poi mi disse ancora: «Michele, non mi hai voluto obbedire. Adesso vedrai quante ne dovrete passare». Mi ricordò ancora una volta che era stata mandata da Dio e scomparve. 
    Da prigionieri la situazione generale era peggiorata, la fame e la precaria aleatorietà della vita veniva elaborata e metabolizzata nei sogni che prefiguravano quel futuro oscuro che in coscienza ci assillava e da cui dipendeva la nostra vita.         Lasciammo quel luogo agli inizi di ottobre e dopo un giorno di viaggio arrivammo in Germania, nella città di Kassel, che aveva subito nella notte un violento bombardamento da parte degli alleati. 
    Noi dovevamo provvedere a seppellire i cadaveri con mezzi di fortuna. 
    Al mattino ci consegnarono pale e picconi, ci caricarono sui camion e scendemmo nella piazza della città. 
    Circa i due terzi della città non esistevano più. La scena che si offriva ai nostri occhi era, a dir poco, apocalittica: case che bruciavano come torce accese mentre a terra giacevano centinaia e centinaia di corpi di tutte le età. I cadaveri già in decomposizione rendevano l'aria irrespirabile. Non avevo mai visto nulla di simile. Per liberare le strade i cadaveri venivano ammassati ai due lati delle strade. La visione di tutti quei cadaveri ammucchiati ai lati delle strade mi accompagnerà fino alla morte. Sembrava che Dio avesse scatenato tutta la sua ira su quella città, trasformata in un rogo fumante. Invece tutte quelle atrocità erano imputabili solo ed esclusivamente alla malvagità di un uomo che aveva trasformato l'Europa in un immenso campo di concentramento. 
    Il nostro lavoro consisteva nell'estrarre cadaveri dalle macerie sotto la minaccia dei mitra e dei colpi violentemente sferrati per poco più di nulla da guardie cattive. Andavamo i .per le case, per le fabbriche, ad estrarre i cadaveri martoriati : da sotto le macerie.
    I cadaveri li portavamo fuori dalle abitazioni bombardate, li accatastavamo fuori dalle carcasse accartocciate e sventrate che un tempo erano state case pulsanti e piene di vita. Successivamente venivano i camion con i cassoni vuoti, ma già sporchi di detriti intrisi di brandelli di sangue rappreso.
    In due uomini prendevamo i cadaveri così, come se si prendessero dei pezzi di legna o dei sacchi di patate, e li buttavamo sui cassoni dei camion. I camion li trasportavano in luoghi approntati apposta per raccogliere l'ingente quantità di morti. 
    Non vidi scavare le fosse per seppellire i morti, allineati in lunghe file di molti metri. 
    I morti venivano deposti a due a due, uno di fianco all'altro, ma anche gli uni sovrapposti agli altri. 
    Tra le file dei morti c'era lo spazio per far transitare i camion che continuavano a portare altri cadaveri che a loro volta andavano a formare altre file di membra inerti. Senza casse, senza niente, i morti venivano ad ammucchiarsi così come si trovavano, anche nudi o con la camicia da notte, donne e uomini, vecchi e bambini, soldati e prigionieri, ricchi e poveri, tutti erano uguali.
     A seguito dei bombardamenti non c'era acqua, non c'era luce, non c'era niente, la sera ci sistemavano in qualche scuola che non era stata bombardata, ci davano la disinfestazione con la scopa immersa nella creolina, ci spruzzavano addosso gli schizzi di disinfettante come fossimo animali, allo stesso modo che usano fare i preti per benedire i fedeli con l'aspersorio. Nei ricoveri notturni non potevamo portare neanche un po' di carta per metterla sotto la schiena, anzi! erano guai seri se qualcuno si azzardava a portare qualsiasi cosa e veniva scoperto, veniva percosso violentemente. 

    I tedeschi erano implacabili con noi prigionieri. Se qualcuno di noi non eseguiva bene il compito che gli era stato affidato le guardie tedesche non ci pensavano due volte a farci fuori. Eravamo inorriditi e agghiacciati dalla paura e da quello che vedevamo. Dappertutto c'era fuoco perché i bombardamenti avevano causato l'incendio dei depositi di carbon coke. Molte volte non riuscivamo nemmeno a mangiare il pane che ci davano. Avevamo solo voglia di vomitare. Solo a sera mangiavamo un mestolo di minestrina e trecento grammi di pane. 
    Era impossibile lavarmi. Dopo tre mesi di quel macabro lavoro eravamo irriconoscibili. 
    Questo lavoro si protrasse fino a gennaio del' 44. 
    Quando finimmo di seppellire i morti di Kassel i tedeschi per disinfettarci non ci passarono più con la scopa sopra, come a pennellarci, ma ci buttarono addosso secchi di acido fenico. Guai a scansarti. Erano sempre e solo botte col calcio del fucile.     
    Dopo di Kassel fummo internati nei lager. Io e Vito Di Cosimo lavorammo per qualche tempo in una fabbrica di ferro e carta, mangiando ogni giorno pochissimo o addirittura niente. 
    I bombardamenti degli alleati si susseguivano; le bombe cadevano anche sui cimiteri dove venivano fuori pezzi di carne ed ossa dei cadaveri.

    Un giorno, di ritorno da un ospedale, io e i miei paesani Lorenzo Carcuro, Vito Di Cosimo, Donato Lombardi di Palazzo S. Gervasio, Giuseppe Lepore di Genzano stavamo dandoci da fare per cercare di cucinare una decina di patate e un barattolo di salsa concentrata che avevamo rimediato insieme ad un po' d'acqua pulita. Dietro una colonna accesi un fuoco per potervi far bollire l'acqua con le patate dentro, mentre il mio amico Vito faceva la sentinella perché nessuno potesse scoprirci. Purtroppo, però, Vito non fece in tempo ad avvertirmi che stava arrivando un soldato tedesco e mentre , ero accoccolato a soffiare per fare accendere il fuoco, mi vedo prendere a colpi con il calcio del fucile, sento il tonfo sul mio costato, ma più che il rumore era il dolore che mi tolse il fiato, che mi pietrificò, mentre il soldato tedesco mise mano al grilletto chè mi voleva sparare, era una sentinella molto cattiva, un pagano senza confronti di ragione, per fortuna che il fucile si inceppò, altrimenti per com' era la situazione non avrei avuto scampo nemmeno se avessi tentato una reazione corpo a corpo, sarei morto. 
    Vito, che aveva fatto la sentinella ma non aveva fatto in ' tempo ad avvertirmi, nel frattempo se l'era squagliata, e da dietro una colonna osservava quanto mi stava accadendo. Purtroppo, per come s'era messa la situazione, non poteva fare niente.         Intanto il militare tedesco con il fucile inceppato desistette dal portare a compimento il suo impulso di uccidermi, mi ingiunse di camminare davanti a lui, e dopo che aveva pestato ogni cosa mi portò a lavorare di nuovo per punirmi del tentativo di cuocere qualche patata per combattere la fame. 

    A Kassel dopo tre mesi di prigionia i tedeschi ci dettero la possibilità di comunicare alle nostre care famiglie che eravamo ancora vivi. Dopo sei o sette mesi mi giunse la risposta dalla mia cara consorte, dove mi diceva che stavano tutti bene e che la guer"a dalle nostre parti era stata solo di passaggio, sia le truppe tedesche che americane erano passate senza conseguenze per a popolazione del paese che non era partita per la guerra. 
    Noi leggevamo queste notizie contenti di apprendere che le nostre famiglie stavano bene ma eravamo anche dispiaciuti perché eravamo prigionieri e non potevamo fare più niente, né per noi e per il nostro Paese, né per le nostre famiglie. Ma fra tutte le preoccupazioni possibili ce n'era una che superava tutte le altre e non ci lasciava pace: la fame. Eravamo sempre, a qualsiasi ora del giorno e in qualsiasi circostanza, in cerca di qualcosa da mangiare. 
    Dopo le fatiche e le atrocità del giorno sopraggiungeva la notte, anch'essa movimentata come se ci fossero stati i fuochi d'artificio: gli aerei americani dal cielo sganciavano bombe e la contraerea da terra sputava proiettili contro il cielo. 
    Dopo aver pulito le strade di Kassel dai cadaveri cominciammo ad essere un po' più liberi, ciò avvenne all'incirca dopo la scarcerazione di Mussolini ad opera dei tedeschi. Al lavoro adesso potevamo andarci anche da soli, potevamo metterci al riparo e scappare nei rifugi quando suonava l'allarme. 
    Quella maggiore libertà di movimento fu provvidenziale, perché ci permise di cercare e di trovare da noi di che nutrirci.         Durante il giorno trovavamo sempre qualcosa da mangiare perché le cantine erano rimaste intatte e deserte. Le perso- ne che le abitavano erano per lo più decedute o sfollate. 
    Nelle cantine si trovavano con una certa facilità delle provviste di patate, mele ed altre provviste alimentari. 
    Io aprivo i catenacci con molta facilità, prendevamo i sacchi pieni di patate e mele, le cucinavamo in quelle bacinelle e conche di ferro che le donne usavano per lavare la biancheria, mentre il fuoco lo facevamo traendo legna dalle macerie. Molte volte ci è toccato di cuocere in acque feti de, perché non ce n'era altra. 
    Ma l'importante era mangiare. Questa ricerca del cibo nelle cantine, come anche il cucinare, non era priva di rischi,dovevamo fare tutto di nascosto dagli occhi delle guardie tedesche, se fossimo stati scoperti nella migliore delle ipotesi potevamo essere picchiati. I tedeschi disponevano della nostra vita a loro piacimento e non si facevano molti scrupoli ad ucciderci. 
    Una mattina capitò che io e Di Cosimo andammo insieme sul luogo di lavoro, faceva molto freddo e noi dovevamo pulire dei mattoni. Avevamo cominciato a lavorare quando venne a prenderci un poliziotto tedesco il quale si rivolse a me , dicendomi qualcosa che io non capii, anche perché lui non capiva me, allora mi fece segno di seguirlo, mi portò al piano superiore dove c'era la moglie e un figlio, poi mi condusse in un locale dove c'era il gabinetto che a causa dei bombardamenti si era otturato, dentro stavano tante piastrelle del rivestimento che ne impedivano l'utilizzo, allora capii che mi toccava di pulirlo, mi tolsi la giacca, mi rimboccai bene le " maniche della camicia e mi misi all'opera e bello, piano, piano, riuscii a pulirlo.     
    Quando il poliziotto vide che avevo finito chiamò la moglie ed il figlio, la moglie prima cominciò a dire: «Sciutt! sciutt! Italien», poi mi disse: «volere Brot?», io non sapevo ancora rispondere, feci segno di sì con la testa, così mi diede due razioni di pane. 
    Una la mangiai io, l'altra la diedi a Di Cosimo. Il giorno seguente capitammo ancora in quel posto, noi non avevamo niente da mettere sotto i denti, il mio amico Di Cosimo, ad un certo punto, lasciò il lavoro e si mise a cercare qualcosa, tornò con un cavolo, lo mise a cuocere dentro un barattolo vuoto di conserva, mentre faceva quell' operazione arrivò il poliziotto del giorno prima che lo punì con minacce e botte, comunque il cavolo ce lo fece mangiare. 
    Successivamente ci portarono a lavorare in un insedia- :nento industriale dove tra le altre attività c'erano una fabbrica di ferro ed una di carta. Questo distretto era stato bombardato, noi dovevamo eseguire delle riparazioni insieme ad altri prigionieri. Addetti al controllo del nostro lavoro c'erano dei militari tedeschi, tra questi c'era un uomo grande e grosso il quale aveva la pretesa che portassimo sulle spalle dieci mattoni per volta, fino al quarto piano, per tutto il giorno e senza mangiare niente durante l'arco dell'intera giornata. 
    Il lavoro e la fame risultarono presto massacranti. Dopo qualche giorno di fatica e di fame, preso dalla necessità di mangiare qualcosa, a mezzogiorno durante l'ora di sosta la- sciai il luogo di lavoro e mi misi in giro, percorsi il lungo perimetro delle costruzioni, giunto in fondo e girato l'angolo di uno stabile trovai un orto. 
    Di fronte all'orto c'era un' officina dove forgiavano i me- talli, all'esterno vi erano appoggiati ad un muro diversi uomini, io li guardai, li vidi, avvertii il pericolo ma mi decisi lo stesso di tagliare un cavolo. 
    Il grido di un tedesco mi fermò. Rimasi come un cane da caccia quando punta la preda, con gli occhi schiusi ed il piede alzato, tutti i muscoli ed i nervi erano tesi come un arco, pronti a scattare per colpire la preda, così rimasi, immobile come una statua di marmo a fissare il tedesco da lontano, il tedesco percorse alcuni passi con una spranga di ferro in mano, fece l'atto di venire verso di me gridando ed insultando: «Badoglio! Badoglio!». 
    Io ero fermo, continuavo a fissarlo con gli occhi pietrificati e freddi mentre lui avanzava, si trovava ormai a dieci passi quando alzai il braccio portandomi, con gesto rapido e rabbioso, la mano sul mio naso, feci segno di strapparglielo, aprendo la bocca e mimando un morso e di mangiarglielo con le sue guance ed i suoi occhi, mimai ancora la mia determinatezza che sapevo essere tra la vita e la morte, con la mano feci segno chè se si fosse avvicinato quello era ciò che poteva accadergli.
    Forse il tedesco capì che ero deciso e nonostante la mazza di ferro si fermò. 
    A piccoli passi mi allontanai senza voltarmi a guardare.

    Rifacendo il percorso a ritroso, mentre mi dirigevo verso la cartiera vidi vicino ad una palazzina una sporta piena, con- teneva la parte di dentro di una grossa zucca di quelle zuccherine, mi avvicinai, riempii bene tutte e due le tasche del pastrano e mi recai da Di Cosimo che attendeva impaziente di vedere se ero riuscito a portare qualcosa. 
    Tirai fuori il cavolo da sotto al pastrano e la zucca dalle tasche e mangiammo tutto, compresa la scorza dei semi, così passò quel giorno. 
    Il giorno seguente nella stessa fabbrica, verso mezzogiorno, riuscii a trovare un bel po' di carote. Il giorno successivo trovammo della farina di legumi che era già condita, bastava cuocerla come una polenta ed era ben saporita. 
    Poi una mattina ce la squagliammo e capitò di andare in una caserma di pompieri. 
    In giro nella caserma c'erano molte patate, scovammo una bella bacinella grande e quel giorno facemmo due cotte. 
    Ma un giorno mentre avevamo preso un sacco di patate e nonostante che gli addetti, i pompieri, non mostrassero ostilità al fatto che noi trovavamo da mangiare, ad un tratto arrivò il capitano che quando vide il sacco pieno di patate cominciò ad inveire parole oscene come dire che noi dovevamo morire di fame e ordinò che mettessimo subito il sacco nella sua macchina. Ci assoggettammo, caricammo il sacco nella macchina e il capitano se ne andò via. 
    Un maresciallo vide la scena, si avvicinò e ci disse che proprio nella cantina sotto a dove noi stavamo a lavorare ci ' dovevano stare diversi quintali di patate, ci indicò una piccola inferriata segreta di una finestra e fece scendere uno di noi, c'erano veramente due cassoni pieni di patate che avevano le protuberanze cimate e alte, ma pulendole erano buone, così a dispetto del capitano riuscimmo ugualmente a far provviste di patate. 
    Quando le patate finirono era già primavera, allora ve- demmo che nelle vicinanze della caserma c'era un cimitero con tante tombe, sul terreno era cresciuta in abbondanza una specie di cicoria bella e gentile, con quelle tirammo avanti e ;i nutrimmo per tutta la primavera del 1944. 
    Dopo aver finito le cicorie trovammo un magazzino di Frutta e verdura, ma non valse niente era tutto marcio, girando ancora nel sotterraneo del magazzino capitammo in una stanza adibita a deposito di cipolle, le cime erano fatte alte più di un metro, tutti i germogli erano nuovi, ma proprio le cipolle erano marce. 
    Così cominciammo a prendere quei germogli, li lavammo, li sminuzzammo dentro un barattolo e cuocendoli con un po' di margarina, un po' di sale ed un po' di pane, riuscimmo ad andare un po' avanti nutrendoci con qualcosa di più rispetto al mestolo di acqua calda che ci davano ogni ventiquattro ore davanti al lager. 

    La domenica a volte si lavorava solo [mo a mezzogiorno, ma poi fecero le squadre che dicevano essere libere anche se in realtà non lo erano affatto. Io, Di Cosimo e Carcuro fummo assegnati ad una squadra che aveva il compito di costruire un rifugio antiaereo. Eravamo sei italiani, sei russi, il capo ed altri due tedeschi. 
    A me il capo mi prese a buon volere, mi permetteva di farmi scaldare l'acqua e lavarmi la biancheria, mentre con i miei paesani faceva sempre rappresaglie, comunque lì avevamo il rancio che io andavo a prendere in un campo di prigionieri russi in Rumstrasse, che era la stessa del bunker in costruzione dove noi lavoravamo. 
    Man mano che passavano i giorni fui messo allo sgombro del materiale con un tedesco di nome Waldman, il quale aveva un occhio offeso. Della sua persona ebbi come prima impressione che si trattasse di un tipo burbero ed inaffidabile, invece mi sbagliavo. Dopo qualche giorno che lavoravamo insieme, mentre nessuno di noi diceva una sola parola, Waldman si decise di domandare il mio nome, io non lo capivo, ma lui prese

una matita ed un po' di carta e scrisse il suo nome, poi mi passò la matita e la carta ed anch'io scrissi il mio nome. 
    Così cominciammo a spiegarci tutto, dai capelli al naso dal mento ai denti e poi scendemmo con le descrizioni fino alle dita dei piedi. 
    Poi Waldman mi mandava a prendere qualche cassa di birra, bastava che mi facesse uno schizzo per indicare la via ed io subito partivo e ritornavo con la birra. 
    Vicino al bunker dove lavoravamo c'era una grande casa colonica adibita solo per deposito di ortaggi, tra cui cavoli e pomodori. 
    In altri locali, nei piani inferiori nei quali noi non potevamo andare, si trovavano altre specie di verdure. I lavoranti della casa colonica erano quasi tutti prigionieri e carcerati politici. L'allarme che preannunciava un bombardamento non mancava mai, tutti i giorni erano pieni di paure, avvertivamo forte il rischio di perdere la vita da un momento all'altro. Un giorno che vi fu un attacco aereo e suonò l'allarme il padrone della casa colonica, che era un pezzo d'uomo alto, ben formato e che poteva pesare centocinquanta chili, ed era anche molto buono con noi, venne al nostro rifugio insieme con tutti gli operai maschi e femmine. Nella casa rimase solo la padrona che era una donna simpatica ed anche lei molto grassa e pesava forse quanto il marito. 
    Quando suonò la sirena che annunciò la fine del bombardamento il padrone della casa colonica con i lavoratori e le lavoranti tornarono al lavoro, mentre la padrona, a causa della sua pesantezza, stava ancora dirigendosi verso il bunker pro- venendo da casa sua. 
    In quel mentre suonò un' altra volta l'allarme, gli occupanti della casa non fecero più in tempo a cercare riparo, gli aeroplani americani sganciarono due bombe che colpirono in pieno la casa colonica. 
    Il padrone, cinque operai, una ragazza greca, due russe e altre due di altra nazionalità morirono mentre cercavano di raggiungere il rifugio, la padrona si salvò ma lasciò sola, senza casa e senza marito. 
    L'apparecchio tornò indietro e cominciò a mitragliare le persone che si trovavano ancora fuori dal rifugio, tra questi c'ero anch'io, con Carcuro e Di Cosimo. 
    Durante l'incursione aerea due ragazze russe furono colpite dalla mitraglia alle gambe. Con Di Cosimo le andammo a soccorrere, le mettemmo sopra un carrello per portarle in un' officina che era a pochi passi, ad un tratto l'apparecchio americano si abbassò a mitragliarci, ma con tutto che fece due virate, due picchiate e due passaggi sputando proiettili dalla mitraglia di bordo, non ci prese. 
    Mettemmo al riparo le due donne ferite che ricevettero i primi soccorsi prima di essere trasportate in un Lazarett poco distante. 
    Da quella strada dove noi lavoravamo passava sempre una donna anziana che mi ricordava la mia mamma, un giorno si fermò e mi fece segno che le andassi vicino, mi diede una bella fetta grossa di pane, poi mi chiese se volevo andare da lei la domenica a lavorare. 
    Io e Carcuro andammo, la signora anziana ci trattava come figli, ci dava da mangiare, da bere e sigarette, in cambio noi facevamo qualche lavoretto per aiutarla. 
    In casa aveva due belle figlie e diceva di avere un figlio soldato in Russia. 
    Una mattina il tedesco che lavorava con me non venne, ma venne il mattino seguente, lo vidi che aveva il cuore gonfio e gli occhi pieni di pianto, lui si accorse che io avevo notato qualcosa della sua sofferenza, così si aggrappò a me, mi baciò e mi disse: «Mein Jung ist kaputt in Russland». Aveva un figlio ed era morto in Russia. E disse ancora: «Alles Hitler, Mussolini kaputt». 

    Tutti i giorni passava da vicino a noi anche un vecchio che poteva avere un'ottantina d'anni e per forza ci voleva da

re un po' di tabacco, e diceva che ci avrebbe voluto una domenica, a me e Carcuro, per segare un po' di legna nella sua baracca che distava una trentina di metri dal nostro luogo di lavoro. 
    Così un sabato gli dicemmo che la domenica mattina saremmo andati, però gli chiedemmo che ci portasse da mangiare. 
    Il mattino seguente siamo andati ed abbiamo lavorato fino alle dieci, poi è suonato l'allarme e siamo scappati al rifugio, poi la sirena suonò il cessato allarme e noi ci siamo avviati per ritornare al lavoro quando, di nuovo, la sirena ha suonato ancora e così quella mattina, tra un allarme ed un altro, non abbiamo avuto il tempo di poter ultimare il lavoro iniziato a casa del vecchio tedesco. 
    Sembrava che la cosa fosse fInita lì ma non fu così. Dopo due settimane, una mattina di lunedì trovammo il vecchio al rifugio che diceva al nostro capo: «Da zwei Männer». Capimmo che ci stava accusando, dicendo al nostro capo che io e Carcuro avevamo rubato nella sua baracca quando siamo andati a lavorare da lui. 
    Il nostro capo squadra diceva di no, ma quello insistette e della cosa ne informarono a nostra insaputa il capo del lager che ordinò una perquisizione ai nostri posti. 
    Noi eravamo innocenti del furto che il vecchio ci addebitava. Comunque presero i nostri zaini, ruppero i lucchetti e videro che dentro c'erano solo una maglietta, che ci avevano dato i tedeschi per cambiarci, ed un paio di mutande pulite e basta.         Allora il capo del lager nonostante che fosse un mezzo uomo e anche cattivo lo mandò via giustificando la nostra innocenza. 
    Ma il vecchio maledetto non si arrese. La mattina successiva ci venne a prendere uno della polizia scientifica, ci portò alla baracca del vecchio e ci fece misurare l'impronta del piede con quella che si trovava sul terreno lasciata dai ladri.
    Anche la scientifica disse al vecchio che non erano nostre le impronte, il vecchio insisteva ancora, dicendo che bastava che il poliziotto ci avesse accusato per farci fucilare. 
    Così vidi che il poliziotto perse la pazienza, gli mollò un ceffone e lo minacciò, ebbe così termine questo fattaccio. 
    Nel lager intanto cominciavano a circolare voci che asserivano che i tedeschi avevano lasciato le posizioni di Monte Cassino, che gli americani avevano già passato il Reno, le truppe russe avanzavano, a noi italiani i russi ci stimavano, ma quando poi le loro truppe andavano bene volevano diventare i padroni di tutti i rifugi e non ci volevano più fare entrare. 
    Ma noi italiani ci armammo tutti di piccole mazze ad uso di manganelli, divenne una lotta, dove li trovavamo li caricavamo di botte. 
    Così un vecchio russo che parlava bene l'italiano disse ai suoi connazionali che lui era stato dodici anni a Roma e conosceva bene lo spirito e il valore degli italiani, e per suo merito noi e i russi ci riconciliammo e non ci offendemmo più da ambo le parti. 
    Una notte mi trovavo al quarto piano di un edificio non ancora bombardato, suonò l'allarme e cominciò il bombardamento. Mentre ci apprestavamo ad uscire mi sentii abbassare il pavimento sotto i piedi, una parte di calcinacci cadendo dai muri mi venne addosso, ma non era niente di grave, lo stabile in cui mi trovavo non venne colpito dalle bombe ma dallo spostamento d'aria causato dalle bombe stesse che avevano colpito e raso al suolo tre palazzi a venti o trenta metri da dove stavo. 
    La mattina successiva arrivò una lettera dalla mia cara consorte con solo poche parole di speranza, con l'augurio che tutto finisse presto per poterci riabbracciare. 
Quando avvenivano i bombardamenti, e noi con essi or- mai convivevamo, ne avevo spesso avuto in sogno una visione premonitrice: accadeva sovente che la notte, o qualche notte prima, sognassi di veder cadere dei barili, delle querce o cerri di alto fusto.

    Una sera della fine di febbraio del 1945 ebbi una di queste premonizioni. In piena notte mi svegliai impressionato dall'immensa quantità di querce, cerri e barili che cadevano dal cielo. Io feci la mia traduzione: erano tutte bombe che stavano per abbattersi su di noi. n giorno successivo andammo a lavorare, dissi ai miei compagni di recarci quanto prima ad un rifugio sicuro. 
    Sapevamo di un rifugio a cui avevamo lavorato, che aveva molti metri di roccia sovrastante ed era in grado di contenere migliaia di persone per diversi giorni, era dotato anche di condizionatori d'aria. 
    Verso le ore diciassette insieme ai miei paesani, con dei tedeschi e con persone di altre nazionalità ci stavamo recando al rifugio. Eravamo a mezza strada quando sentimmo il rombo dei motori degli aeroplani, i tedeschi dicevano che erano i ' loro apparecchi, ma ad un tratto abbiamo sentito le esplosioni che seguivano allo sganciamento delle bombe. 
    L'allarme cominciò a suonare, intanto si era fatta notte fonda, il bombardamento continuava e si vedevano i bagliori delle esplosioni rischiarare il buio della notte. Mentre insieme agli altri correvo, ricordo che una ragazza sui diciassette anni si afferrò alla mia giacca e non mi mollò più, anche lei era spaventata come i passeri, con l'anima in punta ai denti arrivammo al rifugio.         Dopo circa tre quarti d'ora suonò il cessato allarme, io , avevo bisogno di sbrigare un atto piccolo e cercavo di vedere se riuscivo ad andare un momento fuori, ma arrivato al punto di varcare la soglia per uscire, feci in tempo a notare che fuori c'era un uomo ed una donna che si stringevano, un razzo luminoso fece più chiaro del giorno, le bombe continuarono a scendere giù con la loro potente distruzione. 
    Per più di due ore, a ondate successive, fecero un altro grande macello. Cessato l'allarme, piano piano uscimmo dal rifugio e tornammo verso la scuola dove eravamo alloggiati, diverse bombe l'avevano colpita, il posto letto sia di Carcuro che di Di Cosimo non esistevano più.

    Riuscimmo comunque a prendere qualche zaino tra cui il mio. Ci accertammo che non ci fossero cose strane dentro e ci mettemmo in cammino verso il luogo dove stavamo a lavorare. Lungo la strada lo spettacolo era dappertutto macabro e deplorevole: tutte le case che bruciavano, i tetti scricchiolavano e tutto crollava, come fossero castelli di carta. 
    Le strade erano tutte piene di crateri e sprofondate dalle bombe che non si poteva neanche camminare. Incontrammo gente che cercava di salvare qualche utensile dalle fiamme e dalle macerie e qualcuno aveva appena gridato verso di noi: «Mann, Komm Komm!» quando ad un tratto uscirono da dietro delle macerie due soldati che ci dettero l'alto là e ci costrinsero a seguirli [mo ad un posto di guardia di un Lazarett. 
    Qui dopo quasi un' ora arrivò un capitano tedesco con un soldato di Bolzano e ci interrogarono, aprirono i nostri zaini per vedere se avevamo rubato qualche cosa ma non trovarono altro che la nostra piccola cambiata, il capitano ci chiese dove stavamo andando, noi gli dicemmo la verità, che la nostra caserma era stata bombardata e che risultava inabitabile, che stavamo andando in Rumstrasse, dove stava il rifugio ed una baracca che stavamo costruendo. 
    Ci consigliarono di ritornare indietro e di non proseguire per quella direzione perché lì il bombardamento era stato più forte, che vi erano diverse bombe inesplose, che altri avrebbero potuto prenderci veramente per ladri e ci potevano ammazzare. Poi ci misero in libertà e tornammo alla scuola adibita a caserma, ma non andammo dentro, rimanemmo fuori dove, nascosti dietro ad una siepe, passammo tutta la notte. 
    Pensammo che non potevamo e non dovevamo avvicinar- ci alla scuola sia perché era pericolante e poi perché i soldati tedeschi cercavano uomini per andare a cercare i morti tra le macerie, inoltre avevamo paura che qualche matto, di nasco- sto, poteva fare con noi il tiro al bersaglio, tirarci qualche colpo di arma da fuoco e mandarci al creatore. 
    Passammo la notte nascosti sotto le siepi, così fece giorno.

    Il luogo in cui eravamo stati [mo ad allora era del tutto distrutto ed inabitabile, quel giorno fummo trasferiti ad un altro lager.     
    La prima domenica di marzo alcuni militi tedeschi vennero a prenderci, prelevarono una quarantina di uomini e ci portarono al cimitero. 
    Appena arrivati venne il custode e ci disse che voleva otto uomini per fare una buca lunga un metro e ottanta, larga più di un metro e mezzo e profonda un metro. Aggiunse che appena avevamo finito potevamo andar via. Non avevamo ancora finito di pulire l'ultimo strato di terra sul fondale che vedemmo arrivare un ufficiale ed un sottufficiale tedeschi con cinque ragazzi tenuti sotto tiro dalle loro armi. 
    Quello che sembrava avere più anni poteva averne una ventina, gli altri quattro mostravano di averne sulla quindicina. 
    Il più grande sospettò che la fossa era stata scavata per loro e tentò la fuga, gli altri rimasero fermi. I militari di scorta lo raggiunsero e gli dettero tante botte, poi lo ricondussero di peso dagli altri quattro, quindi li fecero stendere in fila con la faccia per terra e a gambe divaricate. Il tenente ad alta voce lesse una carta. A quanto potetti capire i ragazzi, abusando degli allarmi dei bombardamenti, andavano in giro a rubare. Li fucilarono sopra la fossa che io ed altri sette italiani avevamo appena scavato. 
    Dopo la fucilazione il sergente con la pistola sparò ad ognuno due colpi dietro al cranio. I ragazzi non erano ancora completamente morti e stavano sbattendo gli arti come i polli, o i conigli quando li buttarono tutti e cinque nella stessa buca con tutto quello che avevano addosso, comandandoci: «Schnell! schnell! begradt!» che voleva dire terra, terra, copriteli, e così fu fatto. Una volta finito di seppellire i malcapitati, prima che fossimo andati via suonò l'allarme. Non lontano stava uno di quei rifugi che Hitler aveva fatto costruire, era tutto in cemento armato.

    Nel cimitero ci fu un forte bombardamento, i muri del bunker sembrava che si piegassero tutti intorno al rifugio, vedendo i muri piegarsi come fuscelli avemmo una grande paura, ma la costruzione fatta da sopra a sotto con muri spessi più di due metri in cemento e ferro non si fece neanche un buco nonostante tutte le bombe che ci mandarono addosso. 
    Tornati al lager già si diceva che l'esercito russo e angloamericano avanzavano, noi stavamo aspettando di vedere se la fortuna ci avrebbe aiutati fino alla liberazione, con la speranza di riabbracciare i nostri cari. 
    Io non sapevo neanche dove si trovava mio fratello, se anche lui era prigioniero o no, se era ancora vivo o no. 
    Il giorno ventidue di marzo del quarantacinque arrivarono a Kassel più di settanta italiani sfollati da Dresda. Arrivati allo scalo di Kassel trovarono la popolazione che prendeva tutto ciò che stava sui treni, fu così che i nostri sfollati andarono anche loro a prendere il pane che stava sui vagoni, ma un plotone di SS vide questi uomini carichi di pane e li fermarono. Saputo che avevano preso il pane dai vagoni del treno, li condussero vicino ad una fossa provocata da una bomba, li fecero inginocchiare e li fucilarono facendoli cadere tutti nel cratere della bomba. 
    Solo qualcuno riuscì a scappare dandosi alla fuga, buttandosi sotto tra i vagoni dei treni ed i binari della ferrovia. 
    Quei corpi trucidati furono lasciati lì per due mesi, perché nessuno ebbe cura di loro. 
    I cannoni di grossa gittata degli alleati si cominciarono a sentire anche a Kassel. La mattina del giorno ventotto marzo andammo sul posto di lavoro, ancora al bunker di Rumstrasse dove lo chef, così chiamavano il capo del personale del lager, tutto imbronciato disse: «Arbeit fertig, alles weg», così tornammo al lager. 
    Tutti cercavamo qualche posto per poterci rifugiare nel caso di qualche bombardamento o di qualche battaglia locale

per difendere la città. Fu così che il rombo dei cannoni si faceva sempre più vicino.
     La mattina del trentuno di marzo venne a trovarci Lombardi. Quel povero ragazzo era molto affezionato a me, quando sentì avvicinarsi il momento più bello e più brutto volle avventurarsi a cercarci per trovarsi insieme a me, e così fu che io, Di Cosimo, Carcuro e Lombardi ci trovammo tutti e quattro insieme, nonostante il fatto che Lombardi aveva spesso litigato con i miei paesani, ma io l'avevo difeso mettendomi anche contro di loro. Comunque in quelle circostanze tutto fu dimenticato. 
    Di Cosimo sapeva di un rifugio molto buono e ci volle condurre ma non ci disse che quel maledetto rifugio era di un capitano delle SS, che apparteneva ad una simile personalità. Quando scendemmo nel rifugio vi trovammo solo un uomo ed una donna. In tre rimanemmo giù, Di Cosimo rimase invece per strada dove, per chi sa quale ragione che gli passava per la testa, invece di osservare e calcolare lo stato di tensione dei tedeschi e i loro movimenti, vedendo passare delle donne si mise a fischiettarle sussurrando pis!... pis!. In quell' atto lo colse il capitano delle SS che lo conosceva e lo interrogò chiedendogli cosa stesse facendo lì. Di Cosimo ingenuamente gli disse che eravamo in quattro e che stavamo nel suo rifugio. Di Cosimo ci aveva portato proprio nella tana del lupo. 
    Il capitano delle SS venne giù con la lampadina tascabile, e la pistola in mano e ci disse, urlando, di uscire subito fuori o ci avrebbe ammazzati. Scappammo subito via. 
    Da quel bunker ci portammo a quello della stazione, che in verità era molto più sicuro, ma lì stavano diverse guardie che fino alla sera raccolsero più di trecento prigionieri di tutte le nazionalità, ci inquadrarono e ci accompagnarono fino fuori dalla città di Kassel, dicendo guai a chi fosse tornato indietro. ~ Fu un momento drammatico per tutti. Quando fummo fuori dalla città i tedeschi ci abbandonarono al nostro destino.

    La guerra era ormai giunta alla fine. La Germania era in ginocchio e, non sapendo più cosa fame dei suoi prigionieri, i tedeschi cominciarono a lasciarci liberi di andarcene via. 
    Noi quattro prendemmo una strada secondaria che se l'avessimo seguita ci avrebbe portati dritti dritti alle linee tede- ;che piazzate in periferia a difendere la città. Furono due olandesi a salvarci. Ci chiamarono e quando li raggiungemmo :i dissero che nella direzione della nostra marcia erano piazzate le truppe germaniche. 
    Poi tutti e sei percorremmo un breve tratto di strada fummo sulla rotabile, quindi ci separammo dagli olandesi che presero ma direzione, mentre noi paesani ne prendemmo un' altra e proseguimmo seguendo idealmente la rotabile in una direzione che noi dicevamo andasse verso Berlino, anche se in realtà non sapevamo affatto dove stavamo andando, l'unica cosa certa era l'indicazione provvidenziale dei due olandesi che ci avevano invitato di [mire tra le maglie del fronte tedesco in ritirata.
    Camminavamo con gli zaini pieni di roba ed anche di pane che gli stessi tedeschi ci avevano dato a volontà durante il giorno, prima che ci abbandonassero alla nostra sorte. 
    Mentre camminavamo si sentiva sempre più vicino l' obi- :::e pesante degli americani. Verso l'una di notte alla nostra sinistra scorgemmo un pioppeto. I pioppi non erano di alto fu- sto, erano piuttosto medi, ci fermammo e ci addormentammo, come fece giorno ci rimettemmo in viaggio. 
    Durante il tragitto ogni tanto incrociavamo dei soldati te- deschi che ci guardavano ma non ci dicevano niente. 
    Riuscimmo a transitare incolumi sopra un grande ponte che i tedeschi avevano già collegato a molte mine per farlo saltare per ostacolare così l'avanzata degli americani. 
    Gli aeroplani americani volavano sulle nostre teste, se avvistavano qualche mezzo di trasporto lo attaccavano con le bombe e le mitraglie. 
    Giunti dall' altra parte del ponte proseguimmo il cammino finché la sera raggiungemmo una cittadella di nome Götingen, lì cercammo un posto di ristoro, ci prese una guardia che aveva dei mali procedimenti, si comportava male, sbraitava con arroganza germanica; era piccolo di statura ma si rendeva grande ed importante e fece un gran casino. 
    Poi, dopo aver esaurito il suo sfogo, fatto di imprecazioni in tedesco, si calmò e ci dette della paglia per dormire, del pane e del burro. 
    Non appena fece giorno ci firmò un lascia-passare per Northeim. 
    Arrivati al posto di blocco il capo-posto ci chiese il passo, io e gli altri gli consegnammo la carta che ci aveva dato la guardia che sbraitava, ma lui subito disse: «Nein Ziirich En- gliinder sind in Northeim», noi gli facemmo capire che quel capo non ci avrebbe creduto e pregammo il capoposto di farci un altro biglietto che ci consentisse di rimanere almeno un' al- tra notte a Gottingen. Il capoposto fu gentile, ci fece accompagnare da un maresciallo in borghese. 
    Il maresciallo in borghese ci chiese di andare un po' a casa sua, poi ci avrebbe accompagnato. Andammo alla sua casa, trovammo la moglie, una nobildonna che ci vide e pianse, poi il maresciallo ci riempì le tasche di carote dicendoci che non aveva altro. 
    Quando arrivammo un' altra volta dove eravamo stati la sera prima, la guardia che ci aveva accolti imprecando cominciò a saltare avanti e indietro come una capra nonostante che ci fosse il maresciallo in borghese, poi si calmò e ci dette ancora la paglia e da mangiare. 
    La mattina seguente ci fece un biglietto con destinazione Hannover. 
    Io mi sentivo male e quasi con la febbre, passammo due villaggi, di cui il primo traducemmo il nome in italiano che chiamammo Santo Spirito, e devo dire che non so se quella traduzione fosse corretta, dell'altro villaggio non ho presente un nome specifico ricordo solo che cominciò a piovigginare;' che era quasi notte e noi non sapevamo dove dormire.

    Carcuro vide una signora e le chiese se sapeva indicarci dove potesse trovarsi qualche rifugio con soldati italiani, lei disse che ad una distanza di quattro chilometri c'era una baracca con cinquanta italiani. 
    Carcuro chiese anche qualcosa da mangiare, la signora tedesca lo portò a casa sua e gli diede quasi dieci chili di patate, con quella provvista riprendemmo il nostro cammino. Verso le ore ventuno inzuppati di pioggia arrivammo nel piccolo paesino di nome Bovenden, dove stavano i cinquanta italiani. 
    Nella baracca c'erano molte grosse stufe a carbone che erano già incandescenti e rosse. I nostri connazionali ci fecero buon'accoglienza, così ci potemmo asciugare, poi mangiammo qualcosa: ci offrirono delle barbabietole arrostite sotto la brace e dopo aver mangiato ci addormentammo e chi seduto, chi sdraiato a terra, passò la notte. 
    Al fare del giorno il capo baracca disse che dovevamo andarcene via, altrimenti si sarebbero formati dei reggimenti se tutti gli sfollati che passavano da lì si fossero fermati. Ma io stavo poco bene. Di Cosimo voleva andare a Berlino, ma io dissi che non mi sarei mosso più di lì finché non saremmo stati liberati. 
    A fianco alla baracca, a circa trecento metri di distanza, c'era uno sgabuzzino fatto a triangolo e pieno di mobilia, allora proposi di mettere fuori la mobilia accatastata e di metterci dentro noi, così facemmo. Risolto il problema di un luogo chiuso e protetto dalle intemperie mi recai da un contadino e chiesi un po' di paglia da mettere sotto le spalle. 
    Il contadino fu buono, ci dette la paglia e ci sistemammo alquanto bene. 
    Era già il tre di aprile, i giorni passavano abbastanza bene. Il mattino del sei, a non più di mille metri, si sentirono canta- re due mitraglie, poco dopo mentre le mitraglie continuavano il loro triste ritornello vennero due soldati tedeschi, poi arrivò un grosso carro armato che si piazzò a meno di trenta metri da noi, poi andò via quello e ne vennero un secondo ed unterzo che ci passarono vicino, la mitraglia si sentiva sempre più vicina. Giunsero le due e di fatto non era accaduto nulla di nuovo, allora pensai di andare alla baracca a prendere una borraccia piena d'acqua. Non si sa mai, avrebbe potuto servirci.
    I miei compagni li lasciai nel paesino vicino ad un paraschegge interrato, si trattava di una buca scavata nel terreno e j coperta da tronchi, abbastanza grande da poterci stare tutti e 1 quattro dentro. Mentre stavo per arrivare alla baracca, non lontano si aprì un fuoco infernale, artiglieria, fanteria, carri armati..., io trovai riparo dietro ad un grosso e vecchio ceppo di quercia che era aderente alla baracca e mi feci quanto una formica, tutti i soldati tedeschi in ritirata passarono lì vicino, per mia fortuna nessuno mi vide, altrimenti non stavo neanche qui a raccontarlo, rimasi così fermo ed immobile come quel provvidenziale ceppo di legno. Quando finirono di passare i tedeschi cessò il fuoco, così diedi due salti e arrivai alla porta della casa del capo baracca che era un tedesco zoppo, alla base del soffitto c'era la volta di ferro, vi entrai e vidi che c'erano quattro o cinque famiglie, uno dei tedeschi non voleva farmi entrare, gli altri lo rimproverarono dicendo che ormai loro non comandavano più. 
    Infatti dopo cinque minuti arrivò un soldato americano con una lampada e la pistola in mano, ordinò di uscire tutti fuori, i tedeschi uscirono uno per uno passandogli davanti, quando stavo per uscire anch'io il militare americano notò che io ero un soldato avendo avuto sempre addosso la divisa con le stellette dell'esercito italiano. Dopo che furono usciti tutti i tedeschi il soldato americano mi domandò come e perché mi trovavo lì, gli feci capire che ero un prigioniero italiano, mi diede la mano in segno di amicizia, poi mi domandò se avevo da fumare, io gli dissi di no, allora prese un pacchetto di sigarette e me lo diede.     
    Poi mi domandò se sapevo indicargli un contadino con le mucche, cosa che feci portandolo direttamente ad una fattoria ritorno, ci abbracciammo e per festeggiare il nostro ritrovamento ci dettero del vino che loro avevano preso come botti- no durante l'occupazione degli americani, poi ci unimmo agli altri ex prigionieri di un ex lager di Kassel. 
    Per festeggiare la nostra definitiva liberazione andammo in un deposito di vino italiano, prendemmo una botte di oltre otto quintali, la facemmo ruzzolare per quasi due chilometri fino al lager. Arrivati al lager la mettemmo in posizione e cominciammo a bere. 
    I napoletani si misero a cantare e insieme a tutti i gli ex prigionieri che si trovavano lì ci mettemmo a ballare. 
    A Kassel, dopo essere stati liberati dagli americani, siamo, rimasti ancora una ventina di giorni in attesa di partire per l'Italia. Durante quei giorni avemmo della farina e facemmo, anche della pasta di casa, fatta a mano. 
    Cominciammo a scrivere alle nostre care famiglie chè non stessero più in pensiero, chè tra un po' di tempo ci saremmo abbracciati per sempre. 
    In quel periodo c'era molta gente che vagava cercando la strada del ritorno. Era passata una settimana quando venne un ragazzo di nome Santo Vito, mi portò la notizia che era stato insieme a mio fratello Giuseppe a Dortmund. 
    Io fui molto contento e quasi volevo andare a trovarlo, ma ' per l'incertezza che forse si poteva partire non azzardai, mi bastò di aver avuto sue buone nuove. Nel periodo che rimanemmo ancora in Germania ce la siamo passata naturalmente meglio di quando eravamo prigionieri, avevamo cominciato ad assaporare la libertà di movimento, con Di Nardo facemmo società, compravamo bevande e le portavamo col treno ad un campo americano a Fritzlar. Loro ci davano in cambio sigarette e tabacco. 
    Il mattino del quindici giugno ci venne dato l'ordine di partire per l'Italia. Preparammo il nostro zaino con valigie di fortuna, ci mettemmo tutti in riga e ci avviammo alla stazione" ma, prima che arrivassimo noi, sul treno salirono molte donne tedesche che volevano partire anch' esse.
    Verso le ore dieci gli americani ci diedero l'ordine di sali- e sul treno, ma quando videro tutte le donne che erano già alite invertirono la disposizione precedentemente impartita e i comandarono di scendere, lasciando le donne sul treno poiché non vollero scendere, erano ostinate a venire in Italia. 
    Il cambiamento dell'ordine suscitò malumore e resistenza, allora gli americani piazzarono le mitragliatrici, ribadirono, ordine di scendere, di riprendere gli zaini e le valigie e ci ingiunsero di ritornare un'altra volta al lager. Neppure le donne tedesche ebbero il piacere di partire. Noi che volevamo raggiungere, quanto prima, le nostre care famiglie, da cui eravamo lontani da cinque anni, dovemmo tornare al lager. 
    La partenza fu rinviata al giorno venti di luglio, con un ritardo di oltre trenta giorni. L'ordine di partire fu dato senza preavviso e di notte, subito si formò una colonna di camion, i portarono ad una stazione secondaria per non far muovere altre donne le quali non so come facessero ma erano nascoste anche sotto ai sedili pur di raggiungere a tutti i costi l'Italia. 
    Durante il viaggio di ritorno feci un altro sogno, ebbi di nuovo in visione mio cugino Stefano che amaramente mi disse: «Beati voi che tornate, ed io che peccato ho fatto?». Quando mi svegliai non potetti fare altro che piangere, allora mi venne da pensare a quando, una volta arrivato a Banzi, avrei dovuto salutarmi con suo padre. Mi venne una stretta al cuore di disperata emozione e dispiacere. 
    Altre volto l 'ho sognato e mi è venuto in visione. Era come se io stavo in viaggio ed avevo molti bagagli, Stefano mi aiutava a trasportarli alla stazione. Cosa si può fare contro la morte? Per me è come se fosse ancora vivo, non lo dimentico mai.
    Comunque il viaggio di ritorno fu abbastanza allegro, si cantava, in massa ci sbracciavamo dai finestrini a salutare la gente che vedevamo alle stazioni di transito, si andava penzolando e ciondoloni sul treno come se fossimo noi i padroni di tutto: treni e mondo intero.
    Arrivati all'ultimo paese tedesco ci fecero fare tappa e ci  fecero fare anche il bagno, poi ci condussero in un locale organizzato dove c'erano due donne, una grossa e grassa che non cantava altro che in tedesco, l'altra che era più bella e intonò «Mamma», prima in tedesco e poi in italiano. Quando finì di cantare gli alpini la presero e la sollevarono in alto sul- i le braccia, poi passò con la vandiera, cioè col vassoio per raccogliere monete, quasi tutti i soldati le diedero soldi. Anch'io 1 1diedi una moneta tedesca, che avevo preso a un morto un giorno che ero andato a sgomberare una casa. 
    Il morto stava dietro la porta riverso con la faccia e la pancia a terra, dalla tasca dei pantaloni si vedeva il portafaglio, lo presi e vi trovai dentro circa quaranta marchi che mi ' servirono per tirare avanti e per fare quel po' di commercio J .. con gli americani. L'indomani ripartimmo, qualcuno si andò a mettere sopra ai carri, sul tetto del treno, forse non valutando il pericolo della corrente elettrica che già veniva utilizzata per le motrici alle quali erano attaccati i vagoni. 
    Alla prima fermata che fece il treno un giovane, che era sui carri, appena cercò di alzarsi fu attratto dalla forza magnetica della corrente ad alta tensione che scorreva sui fili sopra il treno, la scossa elettrica lo bruciò riducendolo a carbone, e " solo quando fu proprio carbonizzato la corrente lo lasciò, fu un vero peccato, rimanemmo tutti scioccati: eravamo liberi e quasi arrivati dai nostri cari, e finire il proprio viaggio su quel treno in quel momento e in quella maniera fu vissuto come un'atroce beffa del destino. La tragedia fu per tutti una lezione, da quel momento tutti si misero più composti e prestarono; i maggiore giudizio.
    Giunti a Verona il treno si fermò e qui, da parte del nostro governo venne consegnata ad ognuno di noi la bellezza di ottomila lire. Questo ci venne dato dopo cinque anni di dura guerra. Questo è stato tutto.
    E' vero che i combattenti del quindici-diciotto hanno combattuto per unificare l'Italia, ma è pure vero che anche noi abbiamo combattuto per la patria. Anche noi dunque, invalidi e reduci della seconda guerra mondiale, avremmo dovuto meritarci lo stesso trattamento che avevano ricevuto loro. Invece se qualche privilegio c'è stato è stato solo per i vecchi combattenti, questo non è giusto. Se si è perduta la guerra la responsabilità è di Mussolini, che aveva sfidato il mondo senza averne i mezzi, portando allo sbaraglio l'esercito italiano alleandolo alla Germania di Hitler. La responsabilità della sconfitta va data anche ai Savoia che per primi hanno fatto i tradimenti per farci perdere. La responsabilità di certo non è stata di noi soldati che abbiamo fatto sempre e dovunque il nostro dovere anche con grandi sacrifici. 
    La destituzione del Duce ed il cambio di alleanza con il patto atlantico ha comportato sofferenze inenarrabili e la perdita della migliore gioventù. Ma non è del tutto vero che siamo tornati sconfitti perché, anche se sconfitti siamo tornati, nonostante tutto, vincitori contro l'inumana logica del nazismo. 
    Con il patto atlantico si sono aperte le strade di tutto il mondo, abbiamo riconquistato la pace e abbiamo ricominciato a vivere. Il governo deve essere come un padre di famiglia, leve fare le cose uguali per tutti i figli, invece c'è chi mangia l sette piatti e chi chiede l'elemosina. Noi abbiano consumato la gioventù per un paio di scarpe rotte. Lo so che ho detto quello che avevo nello stomaco, ma purtroppo parla la voce del cuore. 

    A prescindere dalle considerazioni appena fatte, il ritorno dalla guerra e dalla prigionia era carico di pensieri, di aspettative, di voglia di ricominciare, di dimenticare gli orrori, l'odore dei morti e della fame, di riabbracciare i propri cari. Viaggiavamo animati tutti da questi sentimenti e lungo il viaggio io e Di Cosimo decidemmo di non proseguire fino a Foggia e poi a Banzi, ma di raggiungere prima mia sorella Teresa che si trovava a Roma con il marito ed i suoi tre figli.
    Arrivammo alla stazione di Roma di notte, c'era il coprifuoco, i soldati americani pattugliavano le strade e andavano sparando, quella notte ci toccò dormire all'aperto. Quando al mattino venne meno il coprifuoco e si cominciò a girare liberamente raggiungemmo la casa di mia sorella. 
    Arrivammo alla sua abitazione, ci salutammo commossi, ricevemmo buona accoglienza ma rimasi di stucco nel rileva- re che mia sorella era vedova, era rimasta sola con i due figli maschi Franco e Vito: il marito e la figlia prediletta Ninetta, che aveva bellezza e vivacità impareggiabile, erano defunti. 
    Mia sorella coabitava con altre famiglie, passammo la giornata insieme ad altri inquilini e con loro trascorremmo una serata allegra, per la felicità di esserci ritrovati, ma anche mesta, per il lutto che incombeva inesorabilmente muto. 
    Il mattino seguente ripartimmo in treno da Roma, avendo come mèta il nostro paese Banzi e le nostre famiglie. 
    Arrivati alla stazione di Palazzo S. Gervasio proseguimmo in auto per Banzi. Il ritorno dei propri soldati dalla guerra era gioiosamente atteso da tutto il paese. Infatti lungo la strada incontrammo diversi paesani che ci vennero incontro a salutarci e poi, una volta giunti in paese, fu una cosa incredibile, c'era ad aspettarci tutto il paese, dovemmo scendere dalla vettura, e in mezzo a tutta la folla mi sembrava di essere come un forestiero. 
    Quando entrai in casa mia madre e mia moglie mi abbracciarono piangendo di gioia, poi mia madre mi chiese se avevo notizie di mio fratello Giuseppe, la rassicurai dicendole che avevo avuto sue notizie, che si trovava a Dortmund, che stava bene e che a giorni sarebbe ritornato anche lui. L' attendemmo con gioia ed intrepida impazienza e quando infine ritornò anche lui a Banzi lo accogliemmo tutti quanti con gli stessi sentimenti con i quali ero stato accolto io.

pag. 116-144 del libro pubblicato a cura di Canio Franculli da PianetaLibroEditori 2003 - www.pianetalibro.com

SCRITTORI DI BANZI   HOME PAGE