GLI EMIGRANTI NON RITORNANO
PIU'
... a Natale
Foto ricordo di banzesi in Germania scattata a Weil Am Rhein
nel 1962
(Sopra da sinistra: Renna Francesco, Nino Vito,
Cavaliere Michele, Tafaro Luigi, Tafaro Vito, Tafaro Vito, Pepe Rocco, Cataldo
Vito Antonio;
Sotto da sinistra: Manieri Nicola, Pomponio Alfonso, Tafaro Luigi, Pomponio
Vito)
Come
partivano una volta gli emigranti da Banzi ? Probabilmente i pionieri che si sono
recati in America, per raggiungere Napoli, dal cui porto sarebbero salpati con la nave
per quella remota terra - per la maggior parte dei quali senza più ritorno - si saranno mossi dal paese con qualche
animale, cavallo o mulo, forse traino, su cui caricavano le loro valige di
cartone, o bauli di legno.
Ho sentito raccontare che col traino partirono da Banzi tre
miei zii paterni - Francesco, Michele e Donato Carcuro - all'inizio del
novecento, prima che nascesse mio padre - il quale non li ha poi visti mai in vita sua - rimanendomi ignoto tuttavia se arrivassero a Napoli con tale mezzo
di locomozione, o se esso sia servito solo per raggiungere qualche tappa
intermedia. La "Carrera della Regina", comunque, avrà costituita
all'epoca un'importante arteria di collegamento, sulla quale chissà come
trottavano cavalli e muli davanti a "sciarabballi" e traini, salvo
fermarsi per dare la precedenza a qualche carrozza di lusso che trasportasse la regina.
Mio padre invece, come del resto io undici anni dopo, partì nel 1960 col
pullman, o postale come si chiamava a Banzi, per recarsi alla stazione di
Palazzo San Gervasio. All'epoca c'erano tanti treni che, provenienti da Gioia
del Colle, collegavano con Rocchetta San Antonio e Foggia, dalla quale ultima
località poi
partivano numerosi espressi e diretti per il nord. Quando arrivavi a Foggia, c'era
normalmente una carrozza già pronta, parcheggiata su un tronco di binario, sulla quale
prendevi posto, nell'attesa che venisse attaccata al convoglio
che sarebbe sopraggiunto.
Nel frattempo cominciavi a socializzare con gli altri
passeggeri-emigranti e ciò ti procurava un po' di sollievo, ti faceva allentare
la morsa della tristezza che ti attanagliava l'anima. Ti rifocillavi anche un
po' con qualche panino, infarcito con mortadella o frittata, che bagnavi con un
po' di vino (all'epoca non c'erano mica le bottiglie d'acqua minerale) il quale
ti tirava un po' su lo spirito.
Quando mio padre si convinse di partire per la Germania come
emigrante, dopo esservi stato deportato come prigioniero, anzi internato,
dall'Albania, non immaginava di staccarsi da Banzi per tredici anni. Egli
affrontò il viaggio senza dramma, scettico che avrebbe superato la visita di
controllo a Verona, per aver contratto diverse malattie infettive durante la
guerra, e reduce anche da un recente grave infortunio che gli aveva procurato
una parziale invalidità al lavoro, ritrovandosi con una gamba più corta di
qualche centimetro rispetto all'altra.
A quella determinazione giunse dopo che mia sorella Filomena
- la più grande allora in casa - cercava di persuaderlo di provare anche lui ad
emigrare, facendo leva soprattutto su un argomento per convincerlo: "guarda
solo con quale faccia gentile ritorna dalla Germania Michele Iacovera!",
intendendo con ciò che egli non aveva più la pelle scurita dal sole, preso
durante i lavori della campagna. Stranamente, allora costituiva motivo di
distinzione sociale, soprattutto per le donne, avere la pelle bianca, mentre
oggi è l'esatto contrario, atteso che esse fanno di tutto per farla diventare
scura, od "abbronzata", come adesso si dice.
Ciò accadde una sera di febbraio del 1960 allorché,
sottoposto mio padre ancora all'ennesimo assalto di convincimento di mia
sorella, lo vidi cedere e, mi pare di ricordare con gli occhi un po' umidi,
disse che se proprio volevamo che doveva ritornare ancora in Germania, lo
avrebbe fatto, forse nutrendo comunque dentro la segreta speranza che, come
dicevo sopra, non avrebbe superato la visita di controllo; ma così non fu e si
ritrovò ad aggiungere in Germania ancora altri tredici anni come
"gastarbeiter", dopo i due trascorsi come prigioniero di guerra.
A differenza di mia sorella, io non ho avuto al riguardo
alcuna voce in capitolo, giacché contavo allora meno di nove anni, però
scrutavo attentamente mio padre per vedere se quel pressing di mia sorella
facesse breccia in lui, perché intravvedevo anche il mio tornaconto, costituito
dalle stecche di cioccolato che, come tutti gli emigranti, anche mio padre
avrebbe portato quando sarebbe ritornato per Natale.
Così non avrei più invidiato Erminio, figlio appunto di
Michele Iacovera, il quale mi faceva uscire gli occhi dalle orbite, quando si
sbafava tanta cioccolata, mentre io potevo centellinarla in piccolissima dose e
solo quando "Mastron" mi dava dieci lire di mancia per qualche
commissione che gli facevo, che spendevo per andare a comperare da "Farnidd"
una tavolettina di cioccolato "Ferrero", acquistata soprattutto per la
raccolta delle figurine dell'epopea garibaldina che erano contenute
dentro.
Anch'io il treno l'ho visto la prima volta, ovviamente, alla
stazione di Palazzo San Gervasio; ma, prima di salirci su, dalla masseria di un
tale Molino, che si trovava nei paraggi, dove andavo con sorelle e fratello a
raccogliere ed insertare il tabacco, rimanendone incantato quando transitava,
soprattutto se trattavasi di convoglio merce, composto di un'infinità di
vagoni, che andavo in confusione a contare tutti giacché il treno era in
movimento.
Poi è arrivato anche il mio turno di partenza, nel settembre
1971, ma non come emigrante per la Germania, bensì come studente universitario
per Bologna. Lo ricordo quel viaggio, fu molto difficile perché la notte prima
della partenza piovve tanto in giro, sì che la linea ferroviaria subì delle
interruzioni in alcuni punti a causa di smottamenti, e fummo costretti a
scendere dal treno ed a trasbordare su autobus per raggiungere la stazione successiva,
comportando questi saliscendi sforzi inauditi, giacché dovevo trasportare due valige
pesantissime.
L'ultimo tratto di viaggio fu però piacevole, perché
entrarono nel compartimento una mamma con una ragazzina, la quale, trovandomi
rassomigliare molto a Massimo Ranieri (non è stata l'unica a dirmelo, anche se
ciò non ha costituito per me affatto e mai motivo di orgoglio), insisteva che le
cantassi qualche canzone, senza accorgersi che, più che voglia di cantare, io
avevo voglia di piangere.
La notte prima di partire fu pressoché un dormiveglia, anche
perché dovevo prendere l'autobus al mattino alle sei per andare a Palazzo San
Gervasio, sicché arrivai a Bologna sfinito, anche per le peripezie di viaggio
sopra dette, non facendo alcuna fatica ad abbandonarmi al sonno, dal quale fui
risvegliato alla domenica mattina dalle voci inconsuete di due signore che conversavano
affacciate alle finestre da un palazzo all'altro, che mi fecero capire,
insieme all'aria più fresca, che non ero più a casa mia a Banzi; ma la strana sensazione che provai è stata tutt'altra cosa rispetto a quella che avrà
provato invece mio padre e quella schiera infinita di emigranti, quando si sono
risvegliati la prima volta in baracche di Paesi stranieri.
In questi giorni
prenatalizi, negli anni sessanta, eravamo tutti preda di una spasmodica attesa,
i nostri padri da lontano, e noi figli e mamme da Banzi, perché, finalmente,
dopo un anno ci si poteva rivedere e trascorrere qualche settimana insieme.
Nostra madre era tutta indaffarata ad impastare la
tradizionale varietà di dolci, "pettole, calzoni, coz'ncidd, scart'ddat",
riempiendo la casa di aromi delle varie spezie - cannella e noce tostata - e poi,
di tutta quella bontà di dolci, ceste, "cantaridd e spase", che riponeva
sotto il letto, imparando tuttavia noi a memoria dove infilare le mani per
estrarre, qualche "coz'ncidd - come erano buoni quelli infarciti di ceci
arrostiti ed intrisi di "mircutt"! - o "scart'ddat.
Mio padre era molto diligente e premuroso ed andava a
prenotare tempestivamente il posto per il ritorno su qualche treno straordinario
messo a disposizione ad hoc per gli emigranti. Ma quel treno, se sapeva quando
sarebbe partito, non sapeva invece quando sarebbe arrivato a Foggia, perché
l'ora indicata era del tutto aleatoria, accumulando ritardi biblici, dovendo, in
quanto treno straordinario, dare la precedenza a tutti gli altri treni, pure
loro in ritardo, rimanendo parcheggiato fermo in chissà quante stazioni, ed
andando avanti a strappi.
Allora, io che fremevo dal barbiere - dovevo farmi trovare in
ordine da mio padre - per ritornare quanto prima a casa, perché non mi perdessi
il momento del suo arrivo, e quando il barbiere mi aveva finito di tagliare i
capelli, mi precipitavo subito indietro col batticuore, temendo che fosse già
lì, fremevo del tutto inutilmente, perché mio padre, oltre che non essere
ancora arrivato, si trovava ancora chissà quanto lontano!
E continuavo a rimanere in ascolto del fatidico rombo del
motore della seicento multipla di "Pettirosso" che, con ogni
probabilità, lo avrebbe trasportato a Banzi dalla stazione di Palazzo San
Gervasio; ma talvolta arrivava sera, si andava anche a letto senza che, né la
seicento multipla, né altra autovettura si fosse sentita fermare davanti a
casa. Quando poi, dopo essere rimasto a lungo sveglio, il sonno prendeva il
sopravvento, esso veniva bruscamente interrotto dallo sbattere della portiera di
un'autovettura: sì, era finalmente arrivato, pur nel cuore della notte,
balzavamo dal letto e vedevamo nostro padre fare il sospirato ingresso in casa.
Dopo la gioia del saluto non seguiva però anche quella di
vedere cosa nostro padre avesse portato dentro le valige, giacché la loro
apertura veniva rinviata all'indomani, rimanendo di ciò un po' dispiaciuti: non
ci si rendeva conto allora che forse era altro ciò che nostro padre desiderasse
fare subito.
Ora a Banzi è finito quel gioioso trambusto del ritorno
degli emigranti per Natale, e non c'è più neppure "Pettirosso" che
faceva la spola dalla stazione di Palazzo San Gervasio a Banzi, restituendoceli
ad ondate. Peraltro, tanti di essi sono emigrati definitivamente lì da dove,
pur volendo, il ritorno non è più possibile.
Qualcuno però quegli emigranti, le loro facce, se le ricorda
ancora, le tiene impresse nella memoria e scolpite nel cuore, ed ha voluto qua,
seppure non più con gioia ma con tristezza, rievocarne il ricordo.
Ci sono, comunque, degli emigranti che a
Banzi ritornano ancora, seppure non più per Natale, bensì per agosto. Ad
attenderli c'è la piazza, i tavolini davanti a quattro bar, e "l'estate
bantina", che l'amministrazione comunale organizza forse proprio in loro
onore.
Essi però non arrivano più con treni straordinari, non
approdano più alla stazione di Palazzo San Gervasio - divenuta nel frattempo
deserta ed il cui edificio è stato sprangato e ridottosi ad un rudere
fatiscente - e non sono più trasportati a Banzi da "Pettirosso"; vi
arrivano, invece, tutti per lo più con le proprie automobili, taluno anche in
aereo, pochi in treno.
Ma quelli non sono più veri emigranti, sono degli
pseudoemigranti, che forse hanno perso il senso di appartenenza, frastornati da
un ancestrale legame con la propria terra, mantenuto in vita dai ricordi del
passato, e lo smarrimento per la realtà attuale, nella quale non riuscirebbero
più a riconoscersi, se dovessero rimanere qualche giorno oltre agosto.
A tanti
di loro piace comunque ritrovarsi a Banzi per alcuni giorni, andare a fare
qualche passeggiata in campagna e nei boschi per raccogliere more e lumachine,
recarsi al Banzullo, fare alla sera avanti ed indietro in piazza, scrutando facce, per indovinarne qualcuna e commuoversi riconoscendola
dopo tanti anni; poi, se capita di ritrovarsi a festeggiare anche i 50 anni,
portarsi dietro anche qualche emozione in più da raccontare.
A taluni di questi pseudoemigranti, oltre che in agosto con
"l'estate bantina", il sindaco riserva attenzione anche a dicembre con
l'invio di cartoline di auguri per Natale. Questo privilegio, per esempio, l'ho
avuto io l'anno scorso, quest'anno la cartolina non mi è ancora arrivata, e
forse non arriverà più. Certo, anche se dovesse giungermi, in ogni caso essa
non mi farebbe lo stesso effetto delle cartoline che inviava per Natale il
compare Michele Rigato, una delle quali è rimasta tuttora attaccata al vetro di
uno sportello della cristalliera della casa di Banzi: evidentemente il valore delle
cartoline dipende da chi le spedisce.
20 dicembre 2005