IL16 OTTOBRE
una data anch'essa memorabile
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Ci sono delle date memorabili. Sono sicuramente tali quelle in cui si celebrano le solennità liturgiche cristiane, alcune arcinote e di data certa, come Natale, Epifania, Tutti i Santi e forse Immacolata Concezione (questa perché prelude alle vacanze natalizie e precede la prima inaugurale della Scala di Milano), un po' meno le altre due feste di precetto non cadenti di domenica imposte dalla chiesa cattolica, ovverosia Maria Santissima Madre di Dio e Assunzione di Maria (conosciuta anche come festa dell'Assunta). Vi sopperisco allora io precisando che la prima si celebra dall'ora vespertina del 31 dicembre fino a tutto il 1º gennaio di ogni anno, la seconda il 15 di agosto, festività che invece è associata più comunemente a quella di ferragosto, istituita dall'imperatore Augusto diciotto anni prima della nascita di Gesù Cristo. E' curioso notare che, tenendo conto che la festa della Assunzione di Maria è stata istituita con la Costituzione apostolica "Munificentissimus Deus" emanata da Pio XII in data 1° novembre 1950, alla festa di ferragosto avrà partecipato anche la famiglia di Gesù, stante che la Galilea in cui essa visse faceva parte dell'impero augusteo romano all'epoca vigente. Tuttavia, nel mondo cristiano non tutte le chiese riconoscono essere dogma ciò che ha dichiarato detto papa e i cristiani ortodossi ed armeni al posto della "Assunzione" festeggiano la "Dormizione" di Maria, ritenendo che lei sia salita in cielo anima e corpo (come il figlio Gesù) senza essere morta, ma solo in uno stato di sonno profondo. Taluno potrebbe rilevare che mi sono dimenticato di altre solennità, quali San Giuseppe, Annunciazione del Signore, Natività di San Giovanni Battista, Santi Pietro e Paolo, Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo, Ascensione di Gesù, Pentecoste, Santissima Trinità, Corpus Domini, Sacro Cuore di Gesù, addirittura della Pasqua. Senonché, tali solennità, o non sono di precetto, o cadono necessariamente di domenica, oppure sono differite a tale giorno, se infrasettimanali. In
particolare poi, per quanto riguarda la Pasqua, la data di celebrazione è
cosiddetta mobile, perché varia di anno in anno secondo i cicli lunari,
cadendo la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. In
relazione ad essa vengono poi stabilite le celebrazioni della Quaresima e
della Pentecoste. Nel passato le festività religiose erano davvero tante, ben trentasei quelle di precetto che cadevano nella settimana e, considerato che in base al Codice di diritto canonico, can. 1247, "i fedeli sono tenuti all'obbligo di partecipare alla Messa e di astenersi inoltre da quei lavori e da quegli affari che impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo", papa Pio X, forse constatando l'assenza totale di fedeli in chiesa, si rese conto che non si poteva impegnare per così tanti giorni la gente, distogliendola dal lavoro e pertanto il 2 luglio 1911 emanò il motu proprio Supremi disciplinae, col quale, da trentasei, ridusse ad otto il numero delle feste di precetto che cadevano nella settimana. Accanto alle solennità cristiane vi sono poi le feste civili, a cominciare da quelle che hanno parvenza religiosa di Santo Stefano (26 dicembre) e pasquetta (lunedì dopo Pasqua), per proseguire con quelle prettamente laiche o patriottiche di capodanno (1° gennaio), festa della liberazione (25 aprile), festa del lavoro (1°maggio), festa della Repubblica (2 giugno), ferragosto (15 agosto in contemporanea con la festa religiosa dell'Assunta). Comunque,
religiose o civili che siano le ricorrenze che fanno colorare di rosso le
date del calendario, esse, più che a celebrare gli eventi ed i dogmi
divini e civili relativi, impegnano i più soprattutto a progettare ponti
di vacanze, e meno male che sia così perché, altrimenti, che barba che
noia! Ma le date memorabili sono davvero tante ed assumono rilevanza soprattutto quelle connesse ad eventi che riguardano la vita personale di ognuno di noi. C'è un mese, quello di ottobre, che è tutto un fioccar di date da ricordare. A cominciare dal 1°, che nel 1912 fece vedere la luce a Michele Rigato, compagno di guerra di mio padre, nonché mio padrino con sua moglie Antonietta Palermo (la donna più dolce ed amorevole cha abbia conosciuto in vita mia) e sessant'anni dopo ad Elena (una delle poche privilegiate a suscitarmi particolari emozioni) e due giorni dopo nel 1948 a Maria Teresa, un'altra donna che mi ha emozionato tantissimo, ma in un senso affatto particolare, agli antipodi di quello precedente. Procedendo in ordine casuale, memorabile, anzi indelebile è il giorno 14 (del 1985), quello appena passato l'ho rievocato all'interessata così: "Oggi ci sarà chi guarderà a lungo il Sole, ricordando che trentadue anni fa arrise ad una felice creatura appena venuta al mondo. Il Sole poi (io l'ho visto), per illuminare meglio la grazia del suo viso, scese a posarsi sulla sua fronte e non volle andare più via". E
poi il giorno 9, che nel 2010 ha voluto farmi il dono della mia prima
nipote Sophie ed il 21 di trentuno anni prima, che diede alla luce suo
padre, mio primogenito, omonimo di nonno Lorenzo che nacque cinque giorni
dopo nel 1911, e non voglio far cadere nell'oblio l'11 di ottobre che fece
nascere in contemporanea una mia sorella e la primogenita di un'altra
sorella, la prima nel 1954, la seconda dieci anni dopo. Ma ora voglio dedicarmi a celebrare in particolare quella del 16 ottobre, perché ad essa è collegata una triade di eventi. Il primo accadde nel 1915, non ha a che fare però con la prima guerra mondiale, non fu in alcun modo un evento nefasto, bensì il suo esatto contrario: la nascita di Antonio Giacomino. Chi era costui? Colui che per tanti anni (insieme al fratello Giuseppe) ha collaborato a dare esecuzione concreta alla supplica contenuta nella preghiera del "Padre nostro", ovverosia "dacci oggi il nostro pane quotidiano". Col suo mulino, per decenni, ha fornito di farina tutte le famiglie di Banzi e paesi vicini, consentendo alle nostre mamme di fare le grandi pagnotte, con cui ci sfamavamo ogni giorno: nel tascapane i nostri padri ne portavano un tozzo grande per andare a lavorare in campagna, noi figli uno piccolo per andare a scuola. Ritengo l'opera dei due fratelli essere stata talmente eccelsa da fargli meritare l'intitolazione di una via a Banzi, in modo che, oltre agli eroi risorgimentali dei fratelli Bandiera, siano ricordati anche i fratelli Giacomino. Ma io ho ancora altri motivi per ricordare la data di nascita di Antonio Giacomino. Cominciando da quello più banale, perché egli ha il mio stesso nome. Un altro è che egli assunse la carica di sindaco nel 1951 "apposta" per sottoscrivere l'atto della mia nascita, la qual cosa gli procurò un tale entusiasmo da contagiare anche sua moglie Grazia, al punto che non resistettero all'idea di fare una seconda figlia, Teresa, per darmela in sposa il 23 dicembre 1978. Il secondo evento accadde esattamente quattro anni dopo il primo, ovverosia il 16 ottobre 1919: grazie ad esso il mio compare Michele Rigato ebbe un altro fratello ed io il mio "grande" maestro, Giuseppe Rigato, dai più appellato "don Peppe", ma soprattutto col soprannome di "Carbonella", mutuato dal lavoro svolto precedentemente all'insegnamento, ovverosia la produzione di carbonella. Venuto
a conoscenza che sarei diventato un suo alunno, ero contento, perché
avevo avuto notizia (non per nulla si chiamava Rigato) che faceva
"rigare dritto", che imponeva ordine e disciplina, ciò che
desideravo dopo l'esperienza pessima della scuola materna, dove regnava la
confusione, il caos e l'anarchia, con le maestre che non si facevano
rispettare e lasciavano fare tutto. All'epoca (forse perché le aule erano insufficienti) la mia classe andava a scuola il pomeriggio. Mi ricordo nitidamente che un giorno, verso l'imbrunire, entrò in aula una signora additando un alunno che, a suo dire, era reo di essere andato a rubarle le olive. Il maestro, improvvisandosi non solo giudice ma anche boia nello stesso tempo, udita l'accusa fatta dalla donna, inflisse non so quante bacchettate a quel mio compagno di scuola, il cui schiocco sulle mani sembrava produrre effetto anche su quelle mie. Per fortuna io non avevo mai rubato le olive, come invece mio fratello nel convento dei monaci, ritornandosene a casa con le tasche piene, seppure non troppo, perché qualcuna la perdeva strada facendo per i buchi nelle fodere. Ora
però, non allora, mi chiedo: competeva al maestro occuparsi di ciò? E se
la signora si fosse sbagliata nell'identificazione del bambino e lo avesse
scambiato per qualcun altro? Se quell'episodio mi scosse un po', l'effetto mi passò subito perché dopo poco, giacché la classe era troppo numerosa, fui trasferito nella prima mista, dove trovai "una maestra", Emma Carlino, che si rivelò come una seconda mamma, mite, dolce e buona non meno della prima. Purtroppo però quella maestra la ebbi solo in prima elementare: dalla seconda fino alla quinta ritornai a rigare sotto Rigato, di cui non avevo dimenticato affatto quel biglietto da visita esibito all'inizio dell'anno scolastico precedente e l'impressione che suscitava quando, balzando dalla pedana si cui era posta la cattedra, faceva tremare tutto il pavimento. Comunque, fino alla terza elementare, io non gli ho offerto motivi per meritarmi né bacchettate, né ceffoni perché, come diceva mia madre, ero un bambino diligente, con ciò intendendo lei un quid in più dell'essere intelligente, non di diverso. Peraltro,
non era la sola a ritenermi tale, c'era anche una vicina di casa che,
spesso, ripeteva a mia madre che sarei potuto diventare un monsignore
perché avevo la fronte alta. In quarta elementare, invece, arrivò anche il mio turno per sperimentare, non la bacchetta, ma le mani del maestro. Ciò accadde un giorno in cui, interrogato in geografia, scambiai est per ovest sulla carta geografica. Il maestro si avventò improvvisamente addosso e, come fanno i pugili per mettere kappaò l'avversario, mi mollò due pesanti ceffoni, destro e sinistro che, se non mi fecero finire al tappeto, ciò fu solo perché esso non c'era per terra; tuttavia mi fecero vedere le stelle in pieno giorno, e fare immediatamente la pipì addosso, come vidi una volta accadere ad un maiale cui il padrone aveva dato una martellata in testa per ammazzarlo. Per il resto dell'anno scolastico, ogni volta che c'era geografia, la notte non riuscivo più a dormire dall'incubo. Allora facevo appello alla speranza che l'indomani, come talvolta accadeva, al posto di Rigato, comparisse a scuola un maestro supplente: chiunque egli fosse, mi avrebbe consentito di respirare un po'. Se il maestro supplente fosse stato poi Giovanni Marotta, fratello di Padre Marcellino, stare a scuola diventava sereno e piacevole, per la bonomia che emanava dal suo volto, agli antipodi di quello arcigno del supplito. Un episodio me lo fa ricordare in modo particolare: quando una volta epitetò come idiota un mio compagno di scuola. Io non conoscevo il significato di quella parola, ma dall'espressione sprezzante colta nel volto del maestro, dal tono di voce aspro con cui l'aveva pronunciata, arguii che doveva trattarsi di un'ingiuria pesante. Non era solo il poco amore con cui trattava gli scolari figli di vaccari e pecorari, a volte manifestava anche una sorta di sadismo, non molto dissimile dal nonnismo nel servizio militare. Così egli si divertiva a riorganizzare i banchi in modo da comporre tre file, corrispondenti rispettivamente a quelle dei cavalli, dei muli e degli asini, in cui faceva prendere posto gli scolari, a seconda di quanto egli li giudicasse più o meno bravi (la mia fila era comunque quella dei cavalli). Ma una manifestazione di sadismo terribile una volta avvenne anche nei confronti di uno scolaro suo nipote. Gli scappava la pipì, ma, evidentemente sentendosi anche lui molto intimorito dal maestro suo zio, non osò chiedere di andare a gabinetto prima della ricreazione, così, ad un certo punto, apparve sotto il suo banco una vistosa chiazza liquida. Notata subito dal maestro, giacché il nipote non poteva non occupare il banco davanti, invece di cercare il modo di alleviare il disagio in cui egli era improvvisamente piombato, che fece? Lo punì, facendolo inginocchiare nella pozzanghera di pipì. Comunque, debbo dare atto che verso il finire dell'ultimo anno scolastico (1961/1962), il maestro ebbe una lieve metamorfosi, diventando un po' più mite ed umano. La causa la individuo ora postumamente nel fatto che quello sarebbe stato il suo ultimo anno d'insegnamento, giacché, da quello successivo, avrebbe assunto le funzioni di direttore didattico. Venuti a conoscenza della "promozione" avuta dal maestro, il "Derossi" della classe, ovverosia Michele Caffio, si fece promotore di un regalo al futuro direttore (idea probabilmente suggerita da sua madre, fino ad allora pari collega, probabilmente allo scopo che, in seguito, fosse trattata bene dal suo nuovo superiore). Organizzò una colletta e, col ricavato, acquistò una bottiglia di Vermouth, facendo la bella figura di porgerla in dono nelle mani del maestro in congedo. Rigato finì così di procurarmi incubi come maestro, eppur tuttavia le sue mani addosso dovetti sentirle ancora un'altra volta, l'anno successivo, quando frequentavo la prima media. Si andava a scuola a Palazzo San Gervasio ed ero rimasto l'unico compagno-amico di suo nipote Carlo, fatto oggetto di feroce mobbing da parte di tutti gli altri ragazzi di Banzi che frequentavano la medesima: era un atto di non poco coraggio il mio, perché mi esponevo al rischio di finire oggetto di scherno e dileggio anch'io. Così, isolato ed emarginato com'era ridotto, per solidale compassione, al mattino lo andavo a prelevare da casa ed insieme ci recavamo a prendere il mezzo di trasporto a scuola, una millecento familiare bianca guidata da Domenico Librasi di Palazzo San Gervasio, che all'andata trasportava delle insegnanti, al ritorno noi studenti. Il punto di carico era all'inizio di via Umberto I (la strada in salita che porta in piazza). Nell'attesa dell'arrivo dell'automobile, se il tempo era cattivo, quanti ne eravamo (una dozzina e forse più) ci rifugiavamo in casa da Giuseppina D'Andria (confesso tra parentesi che è stata la prima ragazza a farmi provare la sofferenza dell'amore), la cui madre ci accoglieva amorevolmente tutti. Tale abitazione è diventata successivamente sede di una macelleria. Senonché, mentre la porta di questa casa poteva essere varcata in tutta tranquillità, incoraggiati ad entrare da quella santa donna, se taluno se ne facesse remora, nell'innocenza dei miei undici anni non immaginavo invece che entrare sic et simpliciter nella casa di "Donna Giuseppina" fosse come profanare un tempio sacro. Quel mio ingresso mattutino era evidentemente mal sopportato, così ha incaricato suo cognato direttore didattico di farmelo capire. Ed egli lo ha fatto alla sua maniera: è entrato all'improvviso dove ero in attesa del nipote, si è avventato addosso e mi ha scaraventato fuori. Lo
spavento fu tale da ritornarmene a casa invece di andare a scuola! Per completezza di verità, non posso tuttavia non ricordare che invece una volta sono stato accolto in casa col sorriso da "Donna Giuseppina". Ciò accadde una sera quando, ingaggiato da lei per tutto il pomeriggio come uno schiavetto a trasportare bracciate di legna, di cui avrebbe fatto scorta per l'inverno, fui invitato a casa sua a fare i compiti insieme al figlio, sotto direzione, ovviamente, della medesima maestra. Si trattava di analisi grammaticale ed il giorno successivo, controllato il compito dal professore (nonché notaio) Antonio Proto, rimasi sconcertato nel vedere che egli mi sottolineò diversi errori: ma come, esclamai dentro me, l'analisi l'ho eseguita sotto dettatura di una maestra! In "Donna Giuseppina" scattavano però a volte anche degli impulsi di generosità, così una volta mi prese un cappellino di suo figlio e me lo mise in testa, pensando evidentemente che la mia famiglia non potesse permettersi di comperarmelo, ciò deducibile facilmente dal fatto che i pantaloni indossati erano normalmente rattoppati al sedere da mia madre. Senonché,
quel cappellino, unto e bisunto soprattutto ai lembi paraorecchie, mi fece
talmente schifo che cercai di affrettare il ritorno a casa per togliermelo
di testa e non mettermelo mai più. Comunque, ritirato il figlio dalla scuola di Palazzo San Gervasio e trasferitolo a Genzano di Lucania, non ho avuto più motivo di contatto, né con lui, né con sua madre, e neppure di mettere piede in casa loro. Solo che una volta il professore di educazione fisica Orlando mi chiese di far avere una lettera al fratello di "Donna Giuseppina", Alfredo. Così, giacché al ritorno da scuola già passavo davanti casa sua, suonai il campanello per adempiere alla cortesia chiestami. Apparve al portone "Donna Giuseppina", alla quale dissi che il professore Orlando di Palazzo San Gervasio mi aveva incaricato di recapitare la lettera che avevo in mano a suo fratello Alfredo. A quel punto cosa avrebbe fatto una persona qualunque? Verosimilmente avrebbe preso la lettera e detto "grazie", nel caso di specie anche con un sorriso, vedendo "Donna Giuseppina" che il latore era un vecchio compagno di suo figlio, che aveva anche sfruttato all'età di undici anni a fargli trasportare a braccia quintalate di legna. Ma "Donna Giuseppina" non si faceva annoverare in quella categoria e, ritenendosi evidentemente un'eccezione alla regola, mi guardò con cipiglio iracondo, fulminandomi con un'istantanea inquisizione: "e chi è Alfredo, un tuo collega? Ma cosa ti insegnano a scuola? Cosa ti insegna tua madre"? Colto di sorpresa dalla imprevista quanto sconcertante reazione, il cui senso lo arguivo non dalle parole, ma dal tono rabbioso con cui le pronunciava, che suonavano inequivocabilmente di rimprovero biasimevole per qualcosa che avessi fatto di male (ma cosa?), ne rimasi attonito, sicché, senza riuscire a capirne il motivo, mi allontanai subito spaventato, udendo tuttavia ancora per un buon tratto di strada aspre parole di invettiva nei miei confronti. Raccontato l'accaduto a mia madre, dopo un breve almanaccare, dedusse che a scatenare l'ira furiosa di "Donna Giuseppina" poteva essere stato il fatto che avevo appellato suo fratello semplicemente "Alfredo" e non "Don Alfredo". Ma se comunemente tutti lo chiamavano senza anteporre quel predicato d'onore nobiliare! In fondo era solo uno diplomato in agraria che insegnava educazione tecnica alle scuole medie, e diverse altre persone di quel rango venivano chiamate senza anteposizione di predicati d'onore, oramai in disuso anche per docenti più elevati, come ad esempio Francesco Feo, professore di matematica, che non ho mai sentito nessuno appellarlo "Don Francesco". Infine, il terzo evento con data 16 ottobre accadde, in un'aula del tribunale di Varese, 2013 anni dopo il parto della Vergine Maria. In composizione monocratica, la giudice Anna Azzena era chiamata a sentenziare sulla colpevolezza o meno di me, Antonio Carcuro, in ordine alle quattro querele per diffamazione, presentate dal mio maestro Giuseppe Rigato, da sua figlia Maria Teresa, da sua cognata "donna Giuseppina", da suo nipote Francesco De Mattia. Nessuna delle quattro persone ritenutesi da me offese era presente in aula, neppure la preside primogenita di don Peppe, che in altra precedente udienza si era lanciata in un panegirico paterno prontamente troncato dalla giudice. Tuttavia aleggiavano in aula due presenze sotto forma di spiriti: una era del mio maestro, l'altra di mio suocero. A differenza degli anni precedenti, in cui, quali ex compaesani, si incontravano in Cielo per festeggiare il ricordo della loro discesa sulla Terra nello stesso giorno, questa volta disertarono entrambi il rituale appuntamento, perché tutti e due erano mossi dall'ansia di andare a vedere che sorte toccasse: per l'uno allo scolaro temerario che si era permesso di non tessergli solo lodi, per l'altro al genero che doveva continuare a prendersi cura di sua figlia, dei suoi nipoti e pronipoti. Nell'attesa del pronunciamento del giudizio, essi non si guardavano solo in cagnesco, battibeccavano vivacemente… per quanto nessuno li potesse sentire. Cominciò
mio suocero ad apostrofare l'ex maestro-direttore didattico Don Peppe. "Perché tuo genero ha pubblicato degli scritti sul suo sito web nei quali parla male di me e, giacché offende la mia reputazione, voglio che vada in prigione." "In prigione? E cosa ha scritto di tanto male per meritare questa punizione: ha detto che sei brutto? Un mascalzone? Un ladro? Un usuraio? Un puttaniere? Un pedofilo? Un ricchione? Ti ha calunniato per dei misfatti che non hai commesso? Ha scritto qualcosa di falso sul tuo conto?" "No, tutto ciò che ha raccontato è perfettamente vero e gli sono anche grato per averlo scritto, perché la mia memoria traballante sta facendo cadere nell'oblio i ricordi di tanta parte della mia vita ed allora le pagine composte da tuo genero mi aiutano a ricordare. Solo che quelle pagine possono essere lette da chicchessia, visto che il sito web che le riporta www.carcuro.com è diventato tanto famoso da avere una diffusione endemica: qualunque ricerca uno faccia su Banzi, vengono proposte quelle contenenti i racconti e le poesie che parlano di me, maestro epitetato "Carbonella", che arrivo tardi a scuola, che mi metto a russare e pulire le orecchie ed il naso in aula, che meno di brutto gli scolari, ecc. ecc. Ma che figura ci faccio e fanno fare anche alle mie figlie presidi e professoresse, ove nei propri istituti scolastici venisse fatta la scoperta di chi sia realmente il loro padre?" "Ma che c'è di male sapere come fosse un maestro a fine anni cinquanta, il tuo scolaro nonché mio genero ti ha fatto un ritratto artistico, di cui dovresti compiacertene ed a leggere il quale dovresti anche divertirti, esserne orgoglioso perché frutto di un talento che anche tu hai contribuito ad affinare, insegnandogli 'cu ca co acca no, che chi acca sì': ti ricordi?" "Veramente avevo anche coniato il motto 'che bell'asino che sei" per aiutare a ricordare quanto facesse '6 x 6' e tuo genero era talmente bravo in tabellina che mi avvalevo di lui per mandarlo in giro presso le case dei suoi compagni di scuola a fargliela ripassare!" "Ed
allora? Giova proprio che ti ripeta l'ultimo motto che hai ricordato
appena sopra: 'che bell'asino che sei! Soprattutto poi se tieni conto che
mio genero, in occasione della tua dipartita, ti ha fatto il saluto forse
più sentito, bello ed affettuoso. Ne seivenuto a conoscenza no?" "E
ciononostante non hai rimesso la querela e sei venuto qua con la speranza
rancorosa di vedere condannato il tuo scolaro e tradotto incatenato in
prigione? Ma come è possibile essere animati ancora da tanta crudele
cattiveria, per uno come te che è stato ``Arbeiter`` 52673, internato nel
lager 1242 di Dortmund, patendo terribili sofferenze, che hai voluto anche
raccontare nei libri che hai scritto?" "Non per nulla sei finito nella prima cornice del purgatorio e, per espiare questo peccato capitale, stai portando pesanti macigni sulle spalle. Quanti massi ti rimangono ancora da trasportare?" "E chi lo sa, non riesco a contarli, sono una catasta alta quanto l'Everest! Caso mai adesso si raddoppierà pure per non aver accolto la proposta di tuo genero di dare prova di resipiscenza e di essere invece qua clandestino a dare conferma di essere ancora posseduto in pieno dal delirio di superbia di me stesso." E
la conferma avvenne senza ombra di dubbio. Io avrei voluto l'assoluzione piena, ma la mia avvocatessa mi pregò di accettare la prescrizione del reato e chiudere la vicenda lì così. Mandai giù quella proposta, seppure obtorto collo. Subito dopo, uscito dal tribunale, mi sono fatto una bellissima passeggiata per il centro di Varese ed i suoi giardini estensi, godendomi tutta la mia libertà, insidiata e minacciata dalla querela del mio maestro & soci di famiglia. Ed il mio maestro? Diede un'occhiata rabbiosa a mio suocero e, con un gesto di stizza, scomparve immediatamente per andare a ricaricarsi sule spalle il masso che aveva posato nascosto per fare la fuga clandestina. Mio suocero, invece, se ne ritornò al suo posto in Cielo più leggero che mai, non senza però essere passato prima a trovare mio padre per tranquillizzarlo. Mia madre, a differenza di suo marito, non ne aveva bisogno, era assolutamente serena, perché il primo angioletto di suo figlio, che ha sempre vegliato su di me e scongiurato ogni disgrazia, si era ancora adoperato a che non mi accedesse alcun male neanche questa volta. Sarà stato proprio quell'angioletto di mio fratello a mettere tranquillo anche me, perché un giorno ho avvertito dentro come uno spirito che mi ha liberato dall'angoscia del processo, esortandomi a stare sereno. L'esito del processo ha confermato quella sensazione. Se, tutto è bene quel che finisce bene, per terminare alla stessa maniera questo racconto, voglio indicare infine ancora una data del 16 ottobre: quella del 1978, in cui avvenne l'elezione di un "grande" papa, Giovanni Paolo II. Come alla sera, dopo il rituale annuncio del cardinale protodiacono, "habemus Papam", Karol Józef Wojtyla si affacciò alla loggia centrale della basilica di San Pietro in Vaticano e, salutando i fedeli, diede subito prova di "humilitas", dicendo: "se mi sbaglio ad esprimermi nella lingua italiana, mi 'corriggerete'". Un grande papa era umilmente disponibile a farsi correggere, un modesto maestro di scuola elementare no. Ciascuno si trova ora al posto che si è meritato.
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16 ottobre 2013