LA GUARDIA AGLI SPOSI
di Michele Feo
Università di Firenze
Alla cara memoria
di Giovan Battista Bronzini e Scevola Mariotti
Una silloge di 71 componimenti poetici
della tarda latinità, messa insieme verisimilmente negli ambienti
dell'aristocrazia romana legati a Simmaco, si è salvata perché conservata in
un codice del monastero di San Colombano a Bobbio; scoperta del 1493
dall'umanista Giorgio Galbiate, che vi aveva fatto una spedizione di ricerca per
conto dei duchi di Milano, poi per secoli nuovamente scomparsa all'attenzione,
è stata ritrovata da Augusto Campana in una copia umanistica posseduta dalla
Biblioteca Vaticana (cod. Vat. Lat. 2836), La prima edizione critica dell'intero
gruppo, che va ora sotto il nome di Epigrammata Bobiensia, è stata fatta nel
1956 dal grande filologo classico Franco Munari; ad essa ne è seguita una
seconda nel 1963 nella prestigiosa «Bibliotheca Teubneriana».l Numerosi sono
stati gli interventi critici di studiosi di varia nazionalità, volti alla
spiegazione e alla ricostruzione del testo, spesso corrotto e inintelligibile.
Fra tutti spiccano per acutezza di ingegno e per completezza del quadro quelli
di Scevola Mariotti, un altro grande classi- cista, che ci ha lasciato nei primi
giorni del 2000, noto ai liceali d'Italia come autore di un vocabolario latino
di successo.2
Ritornando sull'interpretazione di EB 36 dopo precedenti
interventi del 1956 e del 1962,3 il Mariotti si era posto il quesito se in esso
non si annidasse un'allusione a un costume tradizionale di cui tracce sarebbero
reperibili ancora ai giorni nostri. Metodicamente il problema è più che
legittimo. Basterebbe il Satiricon di Petronio con la sua ricchezza di
ritualità e credenze a dimostrare quanto fertile di risultati possa essere la
lettura antropologica dei classici. Ma veniamo a BR 36. Una strana Penelope in
veste di eroide ovidiana scrive (probabilmente ad Ulisse lontano) per
raccontargli un amore consumato in sogno. Per facilitare la comprensione della
complicata questione riporto di seguito la traduzione italiana di Mariotti.
Non toccata dai proci e
casta per tanti anni
(i miei baci li conosce appena lo stesso Telemaco),
per questo la verginità mi ha giocato nei tuoi confronti con
fiamme ardenti
e nella sovrana sola è divampato un amore sincero.
5 Spesso, donna inesperta, ho tremato per falsi sogni
e mi sono uscite dalla bocca parole sconvenienti.
E anche sveglia ho provato pene sconosciute,
e senza scoprire in me un segno del piacere ho tastato il
letto con mano tremante,
perché a te anelante, che movevi il supremo attacco,
l0 ha ceduto, arrendevole e senza parole, il mio amore.
Non ho osato ferirti con denti crudeli o con unghie,
perché l'amore ha stretto tra noi un patto con silenziosa
pace.
Al fine non ho invocato con grida di paura l'ancella (?),
né la vecchia schiava, prima nell'ossequio, è accorsa.
15Io ho messo mano alla lettera, pallida di vergogna,
confessando il peso che grava sul verginale pudore.
In un passaggio difficile del suo
discorso, al v. 13, Penelope menziona qualcosa che nella tradizione è forse
corrotto:
denique non aviam trepido clamore
vocavi.
La parola chiave del nostro problema è aviam, la
nonna. Questa lezione aviam è testimoniata da due stampe
quattrocentesche del componimento, fatte a ridosso della scoperta bobbiese. Ma
il manoscritto Vaticano al posto di aviam legge animam, che è
impossibile per metro e per senso. Privilegiando il manoscritto sulle stampe, e
quindi partendo da animam, Mariotti, in un primo momento ritenne di
correggere questa parola in Triviam, cioè Diana, la dea della castità;
poi sembrò invece ben disposto verso un'altra correzione famulam,
l'ancella (e su questa correzione ha condotto la traduzione sopra riportata). Ma
un altro studioso, il tedesco Paul Maas, fin dal 1957 gli scrisse per difendere
la sensatezza della lezione aviam. Diceva Maas: «lo non mi azzardo a
respingere aviam; ho sentito dire una volta che in Italia ragazze che si
sposano molto giovani tengono nella prima notte di nozze una parente anziana
nelle vicinanze, per trovar riparo, se necessario, da uno sposo troppo
impetuoso» [mia traduzione dal tedesco]. L'opinione di Maas fu confermata da un
altro studioso acerbamente scomparso, il latinista pugliese Vincenzo Tandoi, il
quale ebbe a dire che l'usanza era ancora viva trent'anni prima in Lu- cania e
in alcune zone arretrate della Puglia; ma non era chiaro per Tandoi se si
trattasse di una parente o di una amica non illibata.
Agli inizi dell'estate 1996 l'amico Mariotti si rivolse al
sottoscritto, come meridionale e curioso di tradizioni popolari, per chiedergli
se avesse contezza della presunta tradizione. In un viaggio in Lucania a fine
luglio di quell'anno ebbi occasione di intervistare parenti e conoscenti.
Risultò che tutti conoscevano la tradizione di far la guardia agli sposi nella
prima notte di nozze, ma non si trovò traccia di quello che premeva a Mariotti
e su cui avevano testimoniato Maas e T andoi: ossia che guardiana fosse una
vecchia parente della sposa e che essa avesse la funzione di soccorrere la sposa
contro il fresco marito maldestro e violento (per una presunta eccezione vd.
l'ultimo paragrafo del presente lavoro). L'articolo di Mariotti, in cui è anche
un cenno alla ricerca da me fatta, con l'augurio che essa venisse pubblicata
indipendentemente dai risultati portati al suo problema filologico, è intanto
uscito a stampa: De Penelope (Epigr. Bob. 36), in Synodia. Studia Humanitatis
Antonio Garzya septuagenario ab amicis atque discipulis dicata, a cura di U.
Criscuolo e R. Maisano, Napoli 1997, pp. 645-646 n. 22; ed è stata poi
ristampata (alle pp. 260- 270) nei magnifici e imponenti Scritti di fiilologia
classica, Roma 2000, preparati dall'Autore stesso, ma portati alla pubblicazione
dagli allievi Mario De Nonno e Leopoldo Gamberale.
Sospetto, con tutto il rispetto per uomini di tanto ingegno,
che Maas e Tandoi abbiano frainteso o forzato notizie vaghe e malcerte per
sentito dire (il sentito dire è dichiarato onestamente da Maas), e propendo a
credere che la guardia della nonna non sia mai esistita; e a una convinzione non
diversa deve essere giunto Mariotti, se ha fmito per non accogliere il
suggerimento di mantenere aviam e ha proposto, sia pure senza troppa
convinzione, la nuova congettura famulam.
Se posso esprimere di passaggio il mio parere sul testo
latino, personalmente ritengo giusta la difesa di aviam, anche se non per
le ragioni addotte dal Maas. Credo che animam del manoscritto
Vaticano,sia proprio una cattiva lettura di aviam, anzi auiam, del
perduto Bobbiese. E probabile che auiam fosse scritto avia con un
trattino sovrapposto, che fungeva da segno di compendio per la 'm' finale. Ora,
se quel segno sovrapposto fosse stato interpre-tato non come sostituto della m
finale, bensì come segno di un compendio più energico per un'altra, intera,
parola, e se la lettera u fosse stata letta come n (scambio paleografico
frequentissimo), ecco che tutta la parola auiam diventa anima. Da anima
ad animam il passaggio è inavvertitamente imposto dalla sintassi.
Restando fermi alla bontà della lezione aviam, la
nonna, si tratta di trovarle un senso. Non so se esagero nel sovrapporre visioni
ed esperienze del mondo contadino che fu, ricordando a chi non lo sapesse che
nelle famiglie patriarcali quasi sempre i bambini dormivano con la nonna.
All'ombra maestosa della nonna parla l'adulto Carducci attraversando la Maremma
per rievocare il racconto della novella di lei che cerca il suo perduto amor. Nel
lettone comune, al buio e tra il dormiveglia, mia nonna raccontava a noi
nipotini le sue novelle. La celebre canzone napoletana Maria Mari, più nota
come ai Mari (1899), opera del ciabattino poeta Vincenzo Russo, è un vero e
proprio paraclausíthyron povero; nella seconda strofa l'innamorato stando di
notte in mezzo alla via dichiara che la bella dorme accanto alla nonna («'a
nonna a fianco a te»). Siccome a sedici anni le fanciulle di un tempo erano
già accasate con figli, la Maria di Napoli ancora nubile doveva essere quasi
una bambina e perciò bene le stava accanto la nonna. L'invocazione alla nonna
di una ragazzina poteva essere non molto diversa dalle esclamazioni generiche
«Mamma mia!» e «Madonna!», che escono dalla bocca di tutti gli italiani di
ogni sesso, età e credenze, in presenza di pericolo o sorpresa generica.
Probabilmente la nostra Penelope vuol dire che si è abbandonata agli eventi del
sogno poco casto, senza invocare la nonna o altre persone, come invece avrebbe
fatto una ragazzina intatta che si fosse trovata in quella situazione, perché
ormai lei non era né ragazzina né alle prime armi.
I risultati della ricerca furono ordinati, datati 3 agosto
1996 e messi sotto il moggio. In occasione di un altro e più recente viaggio a
Banzi, nel giugno del 2002, ho sottoposto le vecchie interviste a controllo dei
protagonisti, tranne che a Francesca Padula intanto morta, e ho potuto
interrogare e conversare con altri straordinari personaggi, purtroppo questa
volta senza registratore. Queste nuove fonti hanno arricchito il quadro,
lumeggiando aspetti e fornendo particolari insospettati, ma non hanno fornito
elementi per dare una risposta diversa alla originaria domanda di Mariotti.
La mia ricerca demologica non ha portato
dunque nessun contributo all'intelligenza della lettera di Penelope. Ma, come ho
accennato, essa sembrò a Mariotti degna di essere resa nota, al di là
dell'intento che l'aveva occasionata. La pubblico per il suo valore
documentario, come piccolo recupero di uno di quei tratti di civiltà contadina
che, stabili per secoli, sono stati repentinamente di- strutti dal progresso
capitalistico e dal suo ineluttabile omologante avanzare.
La tradizione non è del tutto sconosciuta agli studi, che si
riportano tutti ad aree meridionali (4). Ma meriterebbe di essere indagata più
a fondo. I luoghi della mia indagine (Banzi, Genzano di Lucania, Gravina in
Puglia) sono angoli di mondo sperduti ai confini della Lucania e della Puglia:
paesi poverissimi, dove le uniche attività erano la coltivazione della terra
e l'allevamento degli animali. n costume era praticato con regolarità fino a
una quarantina di anni fa, ma si può dire che non si è mai spento del tutto.
Risulta però che le generazioni acculturate di quarantenni e cinquantenni oggi
non la conoscano e nemmeno ne abbiano sentito parlare.
Quando gli sposi si ritiravano nel talamo, alcune persone
assicuravano la loro presenza nelle vicinanze durante tutta la notte. Lo scopo
era quello di difendere gli sposi - tutti e due, sia chiaro, e non la sola donna
- da scherzi malevoli e pesanti. Questi per così dire scherzi potevano
consistere nel bloccare la porta di casa con un'asse messa in croce o nel
depositare dietro di essa oggetti vari, quali coma di animali, un pupazzo, un
pietrone, una carogna di animale e persino il contenuto di càntari (monumentali
vasi da notte). La prima notte di nozze è costellata in tutta l'area europea da
ritualità e pratiche, spesso poco gentili, come lo charivari. Ma la
natura e la fenomenologia della guardia non si intendono fuori di una società
urbanisticamente caratterizzata. Le operazioni fatte di notte dietro la porta
presuppongono infatti paesi con case basse fornite di solo piano terra, e al
massimo di un ulteriore primo piano rialzato; tutta la casa nuziale consisteva
di una sola stanza con ingresso diretto sulla strada. Sic- ché, accostandosi
all'uscio, malintenzionati o amici indiscreti potevano origliare da vicino,
lanciare fescennini e disturbare variamente. Erano scherzi feroci quanto le
burle rinascimentali e potevano provocare risse e sangue; non erano graditi
dalla stessa società che li praticava e li manteneva in vita.
Ernesto de Martino ha voluto costringere l'usanza ad assumere
un significato magico. Ma l'ha fatto a mio avviso abusivamente, forzando il
significato di un termine, che in alcuni racconti dei protagonisti qualifica il
costume: u strite. Per de Martino strt'te o stride è «un complotto magico teso
agli sposi per disturbare la prima notte». Ma, per quanto io so del mio
dialetto nativo (e anche del pugliese), strtae non significa complotto e tanto
meno complotto magico, bensì dispetto grave, atto di spregio, azione offensiva
e distruttiva in- tesa a provocare un danno diretto alla persona o indiretto
alle cose, per odio o rancore o vendetta o malanimo o semplicemente per
insensata cattiveria e stupidità: per es. è uno stride uccidere a qualcuno un
animale, tagliargli piante, rovinargli un oggetto caro e sim. (in alcuni dei
racconti da me raccolti l'azione contro gli sposi viene definita 'scherzo', per
sottolineare il suo aspetto ludico, ma non offensivo; per intenderci: portare il
cantaro è uno stride, ma mettere la mazza in croce è uno scherzo). Inoltre
tutti i miei intervistati escludono che la guardia si facesse contro azioni
magiche; le fatture potevano esserci, ma erano fatte precedentemente e in altra
sede, e contro di esse la guardia delle nozze non poteva più niente. D'altro
canto chi faceva il dispetto non interferiva nella consumazione del matrimonio;
le conseguenze dello stride erano quelle che potevano vedersi pubblicamente la
mattina seguente, quando la casa degli sposi appariva esposta al sorriso o al
ludibrio per la presenza di oggetti scherzosi o pesantemente allusivi, li
risultato più sicuro dell'indagine è l'accertamento di una coscienza della
sacrosantità dell'istituto matrimoniale e della necessità di difenderlo da aggressioni esterne che ne potrebbero sgretolare la solidità e il prestigio
sociale, Le interviste del 1996 furono da me riassunte, per evitare prolissità
e ripetizioni inutili. Ritenni però di riportare più fedelmente le due più
significative, quelle di Marietta Feo e di Francesca Padula. Queste due donne,
le più anziane fra le persone allora interrogate, straordinarie nella loro
semplicità, si esprimono con grande efficacia. Marietta, che ha anche il dono
della sinteticità narrativa (ma il suo discorso purtroppo è stato solo
parzialmente registrato su nastro), è un archivio antropologico vivente. Ai
miei lettori, che probabilmente appartengono alla cultura illuministica e
progressiva cui io stesso appartengo, lettori che probabilmente guardano alla
conoscenza come a fatto nobile e poco tinto di emozioni, mi corre l'obbligo di
spiegare che quanto mi è stato detto mi è stato detto con sincerità e senza
occultamenti, ma sempre con qualche turbamento. Ho avvertito sempre negli
intervistati la coscienza che le domande che ponevo erano indiscrete e forse
eticamente non proponibili. I parenti e gli amici mi hanno risposto per una
serie di strane ragioni: la fiducia nella mia persona, visto un po' come
l'intellettuale di famiglia, vissuto lontano e sostanzialmente ritenuto corretto
e disinteressato; l'avermi molti di loro visto bambino e il desiderio di
compiacermi e persino quello di non provocare mie critiche alla loro 'barbarie'.
La disponibilità degli estranei è stata propiziata da loro amici e parenti
stretti, e ancora una volta agevolata dalla mia qualifica professionale. Ma
nell'esposizione di un particolare un vecchio si è arrestato fmché una donna
nubile presente non è uscita dalla stanza: «Agg' a piglia la terra e me l'agg'
a scittà mbacce», ha commentato davanti alla possibilità di arrecare offesa
all'onore della ragazza. E da tenere presente che in queste interviste i
risultati possono essere condizionati dall'abilità delle domande, proprio come
accadeva negli interrogatori della Santa Inquisizione. A tratti io stesso ho
avvertito che l'incalzare delle domande e la loro 'suggestività' avevano
qualcosa di inquisitoriale: accadeva infatti che, sotto la pressione delle
domande l'intervistato cedesse qualcosa delle sue ferme convinzioni e si
affacciasse a possibilità che prima aveva negato. Ma bastava attenuare la
tensione e, dopo qualche divagazione, riprendere il precedente problema con
calma che nell'interrogato tornavano salde le certezze prima vacillanti.
Un ultimo sfuggente quid che ho percepito a tratti
nitidamente era il costituirsi di una certa complicità esoterica fra il
detentore della verità e il ricercatore. Non so fino a che punto la vanità di
esser messi per scritto compenserà in qualcuno di quegli uomini e di quelle
donne il peccato di violazione del pudore. I più di loro avrebbero preferito
l'anonimato.
INTERVISTE DEL 1996
(rivedute nel 2002)5
Antonietta Pacella, sp. Renna, n. e attualmente
vivente a Banzi (Potenza) dopo essere stata per vari anni a Torino; intervistata
in auto tra Banzi e Gravina in Puglia (Bari) il 30 luglio 1996.
A domanda se esistesse a sua conoscenza
l'uso di fare la guardia al talamo, risponde prima di no (per fraintendimento
della domanda), poi conferma e si diffonde in particolari. A suo parere la
guardia si faceva da uomini, uno per la sposa e uno per lo sposo; esclude che si
facesse da donne. Lo scopo era di proteggere da azioni di dispetto, collocazione
di oggetti e cose del genere.
A domanda insistita se poteva essere una protezione per la
sposa da eccessiva aggressività o violenza da parte del marito, è visibilmente
in imbarazzo, ma nega la cosa. La domanda tuttavia scatena ricordi di violenze
coniugali: ricorda che a metà degli anni cinquanta andò sposa una figlia di
Giuseppe R. (un parente di suo marito) e che nella notte di nozze la donna fu
aggredita dallo sposo; a domanda perché ciò sia avvenuto, fornisce due
spiegazioni possibili: o che gli avessero fatto la fattura (s'intende al marito,
rendendolo non compos sui), o che avesse scoperto la moglie non illibata.
Lo sposo tentò di accoltellare la donna, mentre ancora gli invitati erano nella
sala da ballo. I rispettivi genitori erano a fare la guardia. La sposa urlò e
gli uomini di guardia sfondarono la porta. Da allora la coppia non ha avuto
bene. Questo racconto non riesce tuttavia a indurre la Pacella a dichiarare che
la vigilanza alla porta nuziale avesse per scopo la protezione della sposa dalla
violenza dello sposo. Aggiro la
domanda: avveniva che la sposa, prima di ritirarsi con lo sposo, venisse
rassicurata da qualcuno a non temere violenze, perché era protetta? Risponde
diffondendosi sull'ignoranza totale delle ragazze di altri tempi in questioni
sessuali e matrimoniali, anche in normali cose fisiologiche, e ricordando che le
donne più anziane durante le fatiche dei campi si divertivano a spaventarle
raccontando cose terribili sulle nozze; ma è decisa nel no alla domanda.
Vittoria Renna, vedo Calogero, n. a
Banzi il 26 luglio 1931; intervistata il 30 luglio 1996 a Gravina in Puglia
(Bari), dove vive da oltre trent'anni. E presente Antonietta Pacella, che
interviene spesso.
La Renna conferma che nella notte delle nozze, nelle
vicinanze, ma a di- stanza di discrezione, c'erano un familiare dello sposo e
uno della sposa; a do- manda se erano maschi e femmine, risponde decisamente
«uomini»; mai sentito dire della presenza di donne. Lo facevano per difendere
gli sposi da quelli che mettevano coma di animali dietro la porta insinuando che
il marito era cornuto, o per allontanare gente che volesse origliare, o per
impedire che andassero a gettare dietro la porta il contenuto del cantaro.
L'usanza esisteva ancora negli anni cinquanta. Per lei stessa nel 1954 fecero la
guardia (probabilmente il fratello). Ricorda che qualche anno dopo (1955 o '56)
hanno messo le coma a una sua conoscente.
Ripropongo la domanda già fatta alla Pacella, se le spose
venissero rassicurate a non temere violenze da parte del marito nella prima
notte. La Renna con- ferma il no della Pacella. Tutte e due le donne spiegano
poi che non c'era bi- sogno di dare informazioni o assicurazioni sulla
vigilanza, perché «si sapeva».
La Pacella racconta che a un tizio (Giovanni S.) hanno fatto
la fattura la prima notte. Secondo le due donne è accaduto che lei volesse e
che lui dor- misse; allora lei lo ha aggredito e gli ha «vrancisciato la
faccia».6 Successivamente hanno identificato l'autrice della fattura in RP.,
una donna di Banzi in fama di fattucchiera, e l 'hanno indotta a toglierla col
dono di ciammellini.7
Angela, giovane figlia della Renna
presente all'intervista, tira fuori un libro del gravinese Franco Amodio,
Santa Dunella vestita di nero..., Venosa 1994, dedicato alle tradizioni
popolari di Gravina. Lo scorro, ma al capitolo sul matrimonio non trovo quello
che cerco. Riconosco in Amodio un mio vecchio compagno di liceo di cui non
sapevo più nulla. Interrompo l'intervista, lo rintraccio per telefono e gli
faccio domande sulla veglia agli sposi. Neanche a lui risultano le due cose che
cerco: né l'attestazione di una guardia fatta da donne, né l'idea che la
guardia fosse una protezione della sposa; a sua opinione la guardia era una
difesa della sacralità dell'istituto matrimoniale e non della sposa.
In una conversazione con vari presenti,
che segue all'intervista alla Renna, affermo che, se fosse dimostrato l'intento
di difendere la sposa attraverso la sorveglianza, si accerterebbe l'esistenza di
una antica coscienza contadina che la sessualità maschile può degenerare in
violenza e che occorre da essa proteggere la donna. L'osservazione non trova
risonanza alcuna. Le due donne Renna e Pacella insistono nel dire che la
protezione era contro esterni, «o anche protezione della sposa».8
Lucia Ciola, sp. Renna, di anni 69,
n. a Genzano di Lucania (Potenza), intervistata il 30 luglio 1996 a Gravina in
Puglia, dove vive da una quindicina di anni.
Prima dice di conoscere l'usanza per averne appreso
l'esistenza durante gli anni in cui è vissuta con la famiglia presso Altamura
(Bari): «stasera cuggìneme non si ritira, stanno a sorvegliare la zita».9 Poi
ammette spontaneamente che l'usanza esisteva anche a Genzano. La guardia era
rivolta contro chi vo- lesse andare a molestare gli sposi. Era fatta da un
parente da parte della sposa e uno da parte dello sposo.
Interviene il marito Vito Renna, n. a Banzi,
per precisare i dispetti: cantaro depositato o vuotato dietro la porta, sigillo
imposto alla porta.
Alfredo Feo, n. a Banzi nel 1930 e
vissuto molti anni nello Schwarzwald, in Germania; intervistato da solo a Banzi
il 31 luglio 1996;
<la revisione è avvenuta l'Il giugno 2002, alla presenza della moglie Maria Nicola e della figlia
Rosa>..
Dopo l'ultimo ballo (tarantella) gli sposi venivano
accompagnati alla loro casa, poteva esserci una serenata, quindi restava solo
qualche parente stretto, fratello dello sposo o della sposa, che vigilavano fino
al mattino per evitare che si facessero scherzi, come bussare alla porta, o
gettare oggetti. Erano esclusivamente uomini. Lui stesso ha visto uomini fare la
guardia. Racconta della propria
moglie Maria Nicola che dopo le nozze non voleva secondo la consuetudine uscire
di casa e, costretta da lui ad andare di sera a cena dai genitori, si copriva la
testa con lo scialle.
<Maria Nicola alla lettura del passo interviene per ricordare che il mattino
dopo la sua prima notte di nozze, alle quattro, una donna vicina di casa andando a lavoro ha bussato alla sua porta e ha detto: «Iè fatte iurne»,10 che
vuol dire «Alzatevi». Maria Nicola ha riconosciuto la voce e ha riposto al saluto dicendo: «Zia Vincinzella!» A domanda se fosse usuale andare a dare il
buon giorno agli sposi, risponde di no e attribuisce quell'evento al caso>.
Maria Cancellara, di anni 73, n.
il7 dicembre 1923 e vivente a Genzano di Lucania; intervistata nella sua casa a
Genzano il 1° agosto 1996.
E' imbarazzata, perché crede di dover raccontare la propria
notte di nozze. Tuttavia dà notizie su alcuni usi: la suocera che porta il
caffé la mattina dopo; le prove della verginità presentate alla suocera; la
sposa che non esce di casa per vergogna per una settimana (la 'settimana della
vergogna').
Sulla questione specifica della vigilanza dice di ricordare
(cose che ormai non esistono più) che si diceva che i suoceri e altri stavano
dietro la porta degli sposi per intervenire nel caso ci fossero state questioni
fra gli sposi. Ricorda anche che a qualcuno tempo addietro (35-40 anni fa) è
stata fatta la fattura e che per questo è rimasto per una settimana senza
combinar nulla; poi la madre ha chiamato persona abile a sfare la fattura.
Interviene Alfredo Feo, presente, per informare che
tale fattura fu fatta a suo zio Luigi Bevilacqua e che per questo egli andò
digiuno (o liscio) due o tre giorni. Interviene Raffaele Giordano, n. a
Banzi il7 dicembre 1949, genero della Cancellara, ragioniere, per dire che la
tradizione di fare scherzi agli sposi è ripresa in anni recenti e che lui
stesso ha partecipato di uno scherzo colossale fatto a sposi incauti dagli
amici, i quali sono entrati nella loro casa e l'hanno conciata in modo che
quelli hanno poi dovuto faticare tutta la notte per renderla agibile. Altri
presenti ricordano antichi scherzi che si facevano agli sposi sprovveduti prima
che essi entrassero nel talamo. lo stesso ricordo di aver sentito parlare di
quello di cospargere le lenzuola di zucchero.
Marietta Feo, vedo Bevilacqua, n. a
Banzi (Potenza) il 20 giugno 1916, dove è sempre vissuta e tuttora vive; è
stata fin dalla gioVinezza di carattere ribelle ma nei rapporti fra i sessi
fedelissima al suo mondo; nel dopoguerra accesa comunista; intervistata il Io
agosto 1996;<l'intervista è stata verificata, confermata parola per parola e integrata qua e là il
10 giugno 2002 da una Marietta che alla bella età di 86 anni è più vispa e lucida che mai>
A domanda se ricorda che intorno al talamo si aggirassero
persone nella notte delle nozze, risponde: «Hai voglia!».
«A quale scopo?», risponde: «Per impedire che mettessero
la mazza in croce», cioè che qualcuno per dispetto bloccasse con una spranga
la porta del- la camera impedendo l'uscita degli sposi la mattina dopo.
Ricorda, per sentito raccontare da sua nonna, che a un tale
che aveva avuto la nominata che la moglie non era buona 11 posero nella notte un
pupazzo dietro la porta. Altro tipo di dispetto da cui gli «attendenti»
difendevano gli sposi era la collocazione di coma dietro la porta.12
Precisa che gli attendenti erano parenti, «gente
costretta».13 Erano uomini. A domanda insistita se poteva darsi che qualche
volta ci fossero donne, risponde quasi stizzita: «Che avinna a fà le femmine?
Erano uomini, perché le donne non andavano girando di notte».14 Al suo
matrimonio sono stati a vegliare i parenti del marito.
A domanda se si facevano magie contro gli sposi, Marietta
risponde con un lungo e dettagliato racconto della fattura fatta proprio contro
suo marito Luigi 15 (è l'episodio già ricordato da Alfredo Feo) e di come poi
egli ne sia stato liberato. La fattura fu fatta da R.P.,16 vicina di casa della
suocera. Prima delle nozze la fattucchiera (anzi, nella forma dialettale bantina,
fattucchiara) si era rivolta alla madre dello sposo:
«Zia Rosa, quando si sposa Luigi?».
«Sabato».
«M'aggio a fà una risa».
Alla fine della festa lo sposo comanda il ballo. Ma Luigi era
già 'attaccato':
«Io non comando».
Gli dicono: «Quando vi volete ritirare...».
Vanno a letto («Ci cuccammo»). Lui dice alla moglie:
«Vogliamo contare i soldi?». E cominciò a
bestemmiare:
«Ammo fatto u cavallo corridore.17 Era meglio ca non mi
sposavo, se non ero buono».
La mattina andò dalla mamma: «Madonna, lo stomaco!».
<La mamma: «Che hai?». E lui: «Andate a dirlo a Marietta che non ci
vado più. Agg' a muri a come mi sento»>.
La madre riconobbe la fattura della commare R. Andò a
Genzano da altra fattucchiara; questa le diede un unguento da ungere tutto il
corpo, con la raccomandazione di stare lontano dalla moglie. La giovane moglie
si vergognava di ungerlo e lo unse la madre<per tre sere>.
Marietta ricorda anche un'altra fattura: la commare Francesca
R. fu caricata di mazzate dal marito, perché gli avevano fatto la fattura.18
Marietta fornisce anche particolari sull'esecuzione delle fatture,19 e commenta
che i maghi moderni sono degli imbroglioni che fanno solo per far soldi.
Riportata al senso della guardia nella notte nuziale, dice che erano guardiani
che guardavano la zita.2O
<Al secondo incontro, provocata, Marietta è generosa di
particolari sulla storia e sulla persona di R.P., pur mostrandosi turbata dalla
prospettiva che queste notizie vengano propalate. Per la precisione non la
preoccupa che ven- gano divulgate lontano, ma trova disdicevole che girino
scritte nd paese. R.P., morta già all'epoca della prima intervista, accreditava
lei stessa la nomea di fattucchiara; aveva raccontato infatti di aver comprato
un chilo di carne e di essere andata nd bosco di notte, a mezzanotte; aveva
acceso il fuoco ed arrostito la carne; mentre la mangiava, bestemmiava i santi a
uno a uno, «prima li pigliava da nnante e po da dreto»; quindi era andata alla
porta della chiesa, li aveva trovato una capra, le era montato sopra e la capra
la portava altare per altare e lei bestemmiava i santi a uno a uno, prima li
pigliava davanti e poi di dietro. Secondo Giudittella, la madre di Marietta,
erano tutte fandonie e non sapeva fare nulla. Marietta commenta di suo che, se
l'ha fatto, ora sta all'in- ferno. «Ma le fatture le faceva. Le ha fatte anche
alla figlia, quando si è sposata, al genero gli attaccò il sangue la notte
delle nozze». Quando morì a Potenza, «abbottò tutta», cioè si gonfiò, al
punto che non entrava nella bara, da quanti peccati doveva pagare, e dovettero
schiacciarla.
Interrogata, distingue rigorosamente fattucchiara da
masciàra (maga) e da belle donne. La fattucchiara faceva le fatture, legava il
sangue; la maga entrava nelle case e guastava le persone. Le belle donne erano
invece esseri sovrannaturali che provocavano eventi strani e facevano dispetti:
p. es. potevano tagliare le vesti; Marietta ricorda il caso della sua piccola
bambina che dormiva fra lei e il marito improvvisamente scomparsa e ritrovata
sotto il letto>.
Francesca Padula, n. a Banzi il 2
giugno 1903, qui sempre vissuta e morta il 14 aprile 1999; <è stata testimone di Geova>
; intervistata il3 agosto 1996 nella casa della figlia Saveria. Sono presenti la
figlia Saveria, il marito di Saveria, e Domenico Renna (marito di
Antonietta Pacella). Trascrizione da nastro con italianizzazione del
dialetto.
«Zia Francesca Padula, quanti anni
avete?».
Francesca: «Novantatré».
«E dove siete nata?».
Francesca: «A Banzi».
«A Banzi. Siete rimasta sempre a Banzi?».
Francesca: «Qui siamo nati, qui siamo cresciuti. E qui
abbiamo a morire».
«Be', speriamo che avvenga sempre più tardi».
Francesca: «Ehhh, siamo fatti vecchi, che amm'a campà?».
«Ma state ancora molto bene».
Francesca: «hhh!».
«Senti, zia commare, vi voglio fare delle
domande...».
Francesca: «Dimmi».
«Delle domande sugli usi di matrimonio, sulle tradizioni,
come si svolgevano certe cose nel matrimonio. Mi dovete scusare se sembrerò
indiscreto, ma non è per sapere né i fatti vostri né i fatti degli altri; è
una questione di studio. Quello che voglio sapere è questo: quando si era fatta
la festa degli sposi, dopo che si era fatto il ballo, il pranzo, i ciambellini e
tutto il resto...».
Francesca: «... dopo gli sposi si ritiravano alla casa coi
suoni appresso, che facevano la serenata, e i familiari andavano ad
accompagnarli tutti alla casa dello sposo, e dopo rimanevano loro in pace, la
famiglia se ne andava, il padre dello sposo e il padre della sposa stavano a
guardare...».
«Nelle vicinanze della strada».
Francesca: «Nelle vicinanze della strada».
«E perché stavano a guardare?».
Francesca: «Eh... p' i stride,21 che poi gli andavano a
mettere la mazza in croce [ride]..., ca mo' gli andavano... e non sai? Tutto
questo».
«Ma...».
Francesca: «Eh, si facevano scherzi ai tempi di prima... Be',
sposava una zita, quando andavano a ritirarla,22 andavano i compagni dello
sposo, andava- no a mettere la mazza in croce alla porta, la mattina non gli
facevano aprire la porta. Eh questo è il fatto che andavano a guardarli i
genitori».
«Vi ricordate voi di averle viste queste persone che stavano
vicino alla strada a guardare gli sposi?.. Non vi
ricordate?». Saveria: «Non li
hai mai visti?».
Francesca: «A chi?».
Saveria: «A quelli che guardavano i ziti».
Francesca: «Ho visto quando sono sposati i familiari
nostri».
Saveria: «E va bene, li hai visti che...».
Francesca: «Ho visto quando si è sposato lo zio Peppino con
Rosina Cena, quando siete sposati voi...».
«Quando è sposato lo zio Peppino l'hanno fatto?».
Saveria: «Eh sì, sì, si faceva...»
Francesca: «Sì».
«Per esempio, quando è sposata mamma mia l'hanno
fatto?».
Francesca: «Tutti, a tutti... Eh figurati il nonn023 non andava a guardare la
porta alla figlia! [ride]».
«E quando siete sposata voi, l'hanno fatto pure a
voi?».
Francesca: «Be', io.. quando sono sposata io, non c'è stata
cerimonia a me. Noi ci siamo presi a braccetto e ce ne siamo andati [ride].
Abbiamo fatto una cosa fra noi due e niente più».
«Io però non riesco a capire cosa facevano queste persone
nella strada. Per esempio, erano solo uomini o potevano esserci anche delle
donne?».
Francesca [scandalizzata]: «No, le donne no».
«Perché le donne no?».
Francesca: «Eh, per i compagni, per lo sposo... Non è che
facevano... Per non farli uscire la mattina presto, aprire la porta, andavano a
mettere la mazza in croce, ma le donne no».
Saveria: «Non li facevano fare per paura che qualcuno...,
guardavano che nessuno andasse dietro la porta ad
ascoltare...».
Francesca: «L 'hanno fatto pure ad Antonio nostro
[ride]».
Saveria: «Sì, a mio figlio, quando è sposato. E allora
stava alla casa della nonna. La prima notte di matrimonio l'hanno fatta a casa
della nonna, perché dovevano partire per Genova, e sono rimasti là».
«Questo in che anno è avvenuto?».
Saveria: «Che anno? Sono ventidue anni fa».
«E gli hanno fatto gli scherzi?».
Saveria: «Sì, hanno fatto gli scherzi. Hanno detto:
facciamo come si usava prima. Sono andati là e hanno messo un pisco 24 grosso
con una mazza in croce, così non potevano aprire la mattina. Non si usava più,
così hanno detto: facciamo come facevano gli antichi. E hanno fatto questo
scherzo».
«Ma facevano pure le magie dietro la porta?»
Saveria: «Le magie chi le ha fatte, le facevano quando
andavano alla chiesa. Dice che le maciare li attaccavano per non farli unire
l'un l'altro. [ll marito dà segno di contraddirla in qualcosa]. O dio, quando
siamo sposati noi si facevano. Ti ricordi commà R.P., che l'ha fatto alla
figlia... Si facevano».
«Saveria, quando ti sei sposata?»
Saveria: «li '48».
«Quindi il '48 ti ricordi che esistevano queste
cose?»
Saveria: «Sì sì, anche dopo».
«Però i parenti dietro la porta nella prima notte nuziale
contro le magie non potevano fare niente».
Saveria: «Ma allora le magie non c'erano più. Queste cose
sono esistite fino a non ha molto, che li facevano questa legatura agli sposi
per non farli accoppiare, fino a quando è morta commà R.P .».
«Eppure tu sei sicura che mai una donna stava a guardare la
porta». Saveria: «No no, solo gli uomini andavano a guardare. L 'ho inteso,
ché io non li ho visti. Andavano gli uomini da lontano, non è che andavano a
mettersi dietro la porta. Da lontano guardavano che non andasse qualcuno dietro
la porta degli sposi...».
«Poteva capitare che nella notte delle nozze gli sposi
litigassero fra di loro... Per esempio che lo sposo era troppo violento, che
aggrediva la sposa...».
Saveria: «Ma queste cose dicevano sempre che erano cose di
magia».
«Ma nel caso in cui per esempio il marito picchiava la
moglie nella notte delle nozze potevano intervenire le persone che stavano a
guardare nella strada?»
Saveria: «Queste cose non le ho mai sentite. Quelli
certamente non aprivano. Se se le davano, se le davano fra di loro [ride]. E chi
aveva a intervenire? Stavano chiusi dal di dentro! Prima ci tenevano di più,
diciamo, alla verginità, chi non la trovavano vergine la uccidevano, la
facevano, la davano,25 la cacciavano. Tutte queste cose succedevano
prima».
«Esatto, esatto. Ma queste persone che stavano fuori,
stavano anche per intervenire ad impedire cose di questo genere?
Saveria: «Può darsi pure».
«... cioè che il marito era violento...».
Saveria: «Può darsi che lo facevano pure sotto quello
scopo... ma chi lo sa? Nessuno...».
Interviene Domenico Renna: «Sì, ma non potevano entrare
perché erano chiusi da dietro, dentro...».
Saveria: «Può darsi pure che, diciamo, si sentiva bussare,
loro la smette- vano. Però nessuno l'ha...».
Domenico: «Vedi, è successo il caso di Peppino D., con
Francesca. La notte Peppino l'ha lisciato il pelo, perché la fattura
gliel'avevano fatta R.P. e quello l'ha caricata di mazzate»!6
«Chi è Peppino?» Domenico: «Uno qua vicino... Allora il
padre della moglie, Giuseppe R., dietro la porta voleva entrare, non poteva
entrare, quelli avevano chiuso da dentro».
«Chi avevano chiuso da dietro?».
Domenico: «Gli sposi! L'attàne27 della zita non poteva
entrare dentro, perché era chiuso la porta da dietro».
«Ma la sposa ha chiamato aiuto?».
Saveria: «No no no. Che volevano chiamare aiuto? Ché quelli
mica lo sapevano che uno stava lì a guardare. Erano tutti segretamente che
andavano da lontano a guardare...».
«Ecco, proprio questo vorrei sapere, se possiamo
pensare che gli sposi sapevano che c'erano delle persone in mezzo alla strada e
in caso di bisogno la sposa poteva chiedere aiuto a questi parenti».
Saveria: «Può darsi pure, e chi lo sa? Prima insomma non
c'era questa cosa. Erano più severi. Può darsi pure che era per questo fatto
che li guardavano. Perché guai se succedeva che era successo una cosa prima,
diciamo non era stato lui,28 come è successo ad Oppido, l'ha uccisa.
Succedevano pure così...».
«Non viene fuori niente di certo... [fra me e me]. Insomma,
voi avete no- tizia di qualche sposa che è stata bastonata dal marito e che ha
chiesto aiuto alle persone che guardavano, al parente che stava fuori?».
Saveria: «No, no proprio, il fatto di chiedere aiuto no. Il
fatto che è successo così che si sono picchiati, diciamo, c'è proprio questa,
questa Francesca che è una parente vostra.29 E successo che dice che tenevano
questa legatura di sangue,30 l'aveva legati questa fattucchiera, quello che era.
Però non sappiamo se era proprio perché gli aveva fatto la fattura o era
perché così gli era venuto in capo a lui. Chi lo sa come è successo? Chi può
sapere le cose proprio personali a uno che succedono?».
...
Domenico: «Abbiamo la stessa età, come mi ricordo io si
ricorda lei».
«Insomma tu escludi che le persone che stavano fuori della
porta poteva- no essere non una protezione contro...».
Domenico: «No, è la protezione di fuori, della gente che non andassero a
molestare, che non andassero a cimentare -più in dialetto ».
«Esatto, ma io voglio sapere se queste persone potevano
essere una pro tezione anche per la sposa contro lo
sposo». Domenico: «Ma
questo...».
Saveria: «Può darsi pure...».
Domenico: «Ma questo non si pensava a quel fatto, perché si
sapeva che se questi si sono sposati si vogliono bene, si sono voluti bene, no?
allora che c'era bisogno di andare a guardare la sposa ancora 31 lo sposo l'allisciava
il pelo, diciamo così in dialetto va... non si pensava. Anche io sono andato,
quando è sposato Vituccio,32 ho fatto io dietro la porta, ma che pensavo forse
ancora Vituccio sfregava33 la moglie? No, io l'ho fatto per... ancora persone di
fuori andavano a dare fastidio...
Saveria: «... che qualcuno... pure di andare a dire qualche parola brutta
dietro la porta...».
«Allora, un'altra domanda: voi sapete che la madre o una
sorella o una donna anziana diceva qualcosa alla sposa prima di ritirarsi con lo
sposo?».
Saveria: «Sempre sentito, però a me non mi ha detto niente
nessuno. Mamma a me non ha detto mai niente. E chi lo sa che li dice? Perché
prima la sposa, pure io, non sapevo niente. Non sapevo neanche che vuol
dire...».
INTERVISTE DEL 2002
Angela Rigato n. a Banzi il 28 otto
1927, scuola elementare fino alla terza classe, sempre vissuta a Banzi,
casalinga; sposata nel 1954, quattro figli; inter- vistata il 13 giugno 2002
alla presenza del marito Domenico Nino.
A domanda se ricorda la guardia agli
sposi, risponde di sì. Fuori, per strada, stazionavano persone che guardavano
gli sposi, erano parenti dello sposo e della sposa, parenti «costretti»,
fratelli, compari, anche amici, il padre no.
Alla domanda cosa facessero precisamente, descrive una
situazione di festa (in tale forma non altrimenti testimoniata): stavano fuori,
cantavano, ballavano, cimentavano (cioè sfottevano, s'intende affettuosamente)
gli sposi, tuppulavano (bussavano) alla porta, scherzavano. Pure serenate, con
un organetto.
Perché stavano dietro alla porta? Risponde: «La gioia, la
gioia che erano sposati>.
Stavano tutta la notte? Risponde: «Pure fino alle
tre».
C'erano anche delle donne? Risponde: «Sì, qualcuna, per
gioco, qualcuna meno seria».
Ricorda di stride agli sposi e quali? Risponde: «Sì. Per
disprezzare. Met- tevano un muciaccio dietro la porta, per dire che ti sei
sposata un muciaccio». A domanda precisa che il muciaccio è un fantoccio di
pezza e stracci, tipo la Quarantana a carnevale. «Mettevano l'uva spina -ma non
per disprezzo, per amore, un regalo alla sposa perché non poteva uscire per
sette giorni (la settimana santa o della vergognanza), all'ottavo andava in
chiesa alla messa vesti- ta di nero; prima poteva uscire solo di sera per andare
dai parenti».
La guardia aveva lo scopo di difendere la sposa dalla
violenza dello sposo? Risposta: «Forse, è possibile. Perché c'erano matrimoni
preceduti da liti e dissensi>. Non sa se a lei sia stata fatta la
guardia.
A domanda se i guardiani dovevano controllare ancora i due se
le davano (che i due non avessero a picchiarsi), chiede meravigliata: «Perché
se le dovevano dare?» Alla citazione di casi in cui la sposa poteva scoprirsi
non illibata, non sa cosa rispondere. Ricorda che si diceva: «Amm' a scì a
guardà i zite». La guardia la facevano a tutte due gli sposi.34
Domenico Nino, n. a Banzi 1'8 setto
1925, vissuto sempre a Banzi, bracciante agricolo. Molto riservato, è presente
all'intervista alla moglie, senza contestare alcunché. Ricorda che, quando si
è sposato, sua madre gli ha fatto un abitino (cioè uno scapolare) e glielo ha
attaccato al collo, evidentemente per proteggerlo da fatture.
Margherita Fumarola, sp. Franculli;
n. a Banzi il4 ago 1928, vissuta sem- pre a Banzi; scuola fino alla terza media;
casalinga; di famiglia benestante; intervistata il 13 giu. 2002 insieme con
Giuseppina Carcuro.
La guardia agli sposi, a sua conoscenza, si faceva. La
facevano i suoceri, il padre, i fratelli e altri familiari intimi.
Ricorda un episodio occorso a Angela P., una taverniera
estroversa e allegra, madre di un figlio epilettico. Quando si è sposata, era
ignara e aveva paura del marito. Ha detto all'uomo di prenderle un ciammellino;
quando lui è salito sul solaro (cioè sul soppalco di legno), è fuggita di
casa; ma fuori ha trovato il suocero e il padre che l'hanno bloccata e indotta a
rientrare. (Evidentemente non sapeva della guardia e non si aspettava di trovare
i guardiani).
Giuseppina Carcuro, n. a Banzi il
27 otto 1930, insegnante elementare, donna colta e anticonformista; ha studiato
a Matera e poi è rimasta sempre a Banzi.
Conferma che la guardia si faceva e che la
facevano i parenti. Racconta preliminarmente, per far capire la temperie
culturale, un episodio occorso durante una festa di matrimonio di cui è stata
testimone come invitata, a Genzano. Verso le dieci di sera la sposa comincia a
intristirsi; a mezzanotte comincia a piangere dirottamente e ad aggrapparsi alla
madre; pian piano l'hanno consolata ed è andata via in lacrime con lo
sposo.
A domanda perché si facesse la guardia risponde: «Perché
la libertà era condizionata».
Interviene la Fumarola, rincalzando che i matrimoni erano
condizionati e contrattati dalle famiglie; a suo parere «rimaneva la paura di
andare a letto con uno sconosciuto», laddove «quando c'è l'amore uno non
capisce niente più». Domanda: Chi aveva paura, l'uomo o la donna? Risposta:
«La donna, la donna! Mica scappa l'uomo! La donna!»
A domanda se la guardia aveva lo scopo di proteggere la
donna, ambedue le intervistate rispondono di sì, sicurissime di
sì.
Domanda: Proteggere dunque la sposa dallo sposo? Risposta:
«No! Era una protezione del matrimonio, dell'onore. Si uccidevano per
l'onore».
Domanda: Si può ipotizzare un marito violento? Risposta:
«No, no! C'era solo, nella prima notte, il timore del primo incontro».
Le due intervistate escludono recisamente che la guardia
fosse fatta da donne.
Infne la Carcuro ricorda un episodio del 1963: a Genzano si
sposò la cameriera del fratello; era una brava donna, ma povera; la suocera non
la gradiva per le sue condizioni economiche e per dispetto nella prima notte
appese qualcosa al portone, un maleficio, per cui il giovane per tre o quattro
sere non poté combinare niente; finché non fu scoperta e rimossa la
causa.
Michele Rigato, n. a Banzi nel 1912;
produttore e venditore ambulante di carbonella per i paesi; emigrato a Bologna
dove vive; autore di ampi ricordi manoscritti [ora pubblicati da Canio Franculli
con tit. E così fu. Attraverso il Novecento} ricordi per l'Italia di oggi,
Possidente 2003]. Intervistato per telefono da casa Franculli il 13 giugno 2002.
Durante l'intervista si inserisce vigorosamente la moglie Antonietta Palermo,
n. a Banzi, casalinga, di anni 82, scuola fino alla quinta
elementare. Michele afferma la
realtà della guardia, conferma che fosse fatta da parenti stretti. A domanda
perché ciò avvenisse, spiega che delle volte portavano qualcosa di male dietro
la porta, buttavano cantari, facevano stride, e che per- ciò i parenti
stazionavano con paròccole.35 Divaga volentieri con racconti di aneddoti e
sogni simbolici.
Prende la parola la signora Antonietta, per fare una
perorazione fiume in difesa della assoluta correttezza morale delle sue nozze.
Stretta al tema, sostiene che, essendo il primo rapporto delicato, c'era il
timore che la donna fuggisse per tornare da sua madre, oppure che qualcosa
andasse male; costretta a spiegare meglio il pensiero, dice che il padre e gli
altri vigilavano acché non succedesse qualcosa di male. A domanda: qualcosa di
male a chi? risponde: «Qualcosa che poteva danneggiare la donna».36
A domanda se a fare la guardia potevano esserci donne Michele
e Anto- nietta rispondono singolarmente e concordemente no, non l'hanno mai
sentito dire, e non è cosa normale.
Michele Palma, n. a Banzi il6
maggio 1905, è il più vecchio degli intervistati; mestieri: arte di mazza,37 a
salario per una ventina d'anni, quattro anni di guerra, poi agricoltore e
pastore. Narratore pacato di grandi doti, è un protagonista della tesi di
laurea di Rosa Nino, La lingua dei pastori di Banzi, Università di Bari
a. acc. 1989-90. Intervistato il 13 giugno 2002. Come le donne colte Carcuro e
Fumarola, tende a rispondere con il racconto di fatti esemplari, traendo da essi
la defInizione e forse la legittimazione delle norme di comportamento.
Fa un lungo e minuzioso racconto delle costumanze
matrimoniali a Banzi. Nei tempi della gioventù si andava a scuola a sette anni
compiuti; maschi e femmine erano seduti in banchi separati; c'era un solo
maestro dalla prima alla quinta elementare. Durante i ragionamenti
dell'avvicinamento era sempre il guaglione che si innamorava della menenna; poi
venivano a saperlo il padre e la madre per via di masciate (ambasciate) e si
combinava il matrimonio. Lui è stato attaccato al matrimonio (cioè fidanzato)
per tre anni con la defunta moglie Maria Domenica Nino. Si faceva festa con
suoni e balli di allegria. Finita la festa gli sposi andavano a dormire. Qualche
volta per qualche sospetto (perché gli scostumati, gli imbecilli ci sono sempre
stati) qualcuno si metteva vicino alla camera degli sposi, ancora qualche
malintenzionato andava a fare dispetti. Erano parenti dello sposo e della sposa.
Stavano lì tutta la notte. I dispetti erano -non ricorda quando è venuta la
fogna -quello di gettare die- tro la porta un vaso da notte o mettere un animale
morto. La mattina dopo la mamma dello sposo portava il caffè agli sposi e
voleva vedere il danno (cioè la prova della verginità).
A domanda se donne potevano fare la guardia risponde: «No,
donne no, sicurissimo».
A domanda se la guardia si può interpretare come una difesa
della donna, risponde con il racconto di un caso occorso a Banzi, che tuttavia
«non si può avverare» (cioè non si può dimostrare), perché chi lo conta in
un modo e chi in un altro. In una notte di nozze sono arrivati a mazzate (non
vuole dire i nomi, ma si tratta del caso raccontato da Antonietta Pacella e da
Domenico Renna). Aggiunge che in occasione di un matrimonio nella casa di fronte
un tizio di Spinazzola ebbe a collocare una fila di pietre davanti alla porta
degli sposi. Tornando sui dispetti alla fine dell'intervista, Michele spiegherà
che gli autori potevano essere vecchi liti, cioè precedenti fidanzati o
pretendenti rifiutati.
Per lui la guardia era una difesa dell'uomo e della donna. A
suo parere le donne arrivavano al matrimonio consapevoli, non si può dire che
fossero ignare. Racconta quindi la storia già raccontata da Margherita
Fumarola, quella di Angela F., sposata a Luigi P., avvenuta prima che lui
nascesse: la sposa chiede il ciammellino, lo sposo sale, lei toglie la scala e
scappa; lui salta giù e l'afferra per i Cim.
Al suo matrimonio fecero la guardia un fratello dello sposo e
uno della sposa. Torno a porre la domanda sulla protezione della sposa. Michele
risponde trasversalmente con due lunghi racconti. Uno è quello di una sorella
di suo padre, donna bella, che quando ha sposato il suo uomo è stata oggetto di
una fattura con vino bianco, che l'ha portata alla morte (della fattucchiara
rivela anche il nome, F. D. L.). L'altro riguarda una sua sorella, sposata nel
1937: per effetto di fattura il primo bambino rifiuta la poppa e muore; nel 1940
nasce una figlia e anch'essa muore in condizioni simili. n marito allora cacciò
la donna, che fu accolta e curata dai genitori.
Donato De Bonis, n. a Banzi il
1926; personaggio sanguigno e franco, partecipò alla sommossa del 1950; ha
trascorso 21 anni in Germania senza imparare la lingua. Intervistato il 13
giugno 2002 con la moglie Lucia Muscio, n. a Genzano e vissuta a Banzi, presenti
il figlio Domenico, architetto comunale, e Rosa Nino, laureata in Dialettologia,
ambedue ora per la prima volta venuti a conoscenza della tradizione della
guardia.
Comincia Lucia: «Tanne38 si guardavano i
ziti. Per difendere gli sposi da- gli stridi stavano in attesa i familiari. Li
guardavano pure tutta la notte. Quando sposai io...».
Interviene bruscamente Donato che, seccato, tronca il
riferimento personale e prende in mano il racconto: «Si usava così. Gli sposi
non si conoscevano. Lo sposo non toccava la fidanzata, non le dava un bacio,
c'era la verginità, tutti e due. La prima notte aVveniva che l'uomo si trovava
una donna a sua disposizione, non sapeva dove mettere le mani. Allora qualche
filabustiere erano curiosi di andare dietro la porta, la mascatura 39 era grossa
[ne mostra una antica], e da questo buco la gente andava ad annusolare4° e poi
si veniva sa- pendo. Se lo sposo aveva detto alla sposa «madonna, quanto sì
bella!», la mattina dopo si sapeva. Allora hanno inventato la guardia. I
giovani arrivavano al matrimonio oscuri di tutto, le donne ancora di più, non
sapevano niente».
Racconta quindi della prova di verginità da presentare alla
suocera.
Interrogato sugli stride, dice che erano coma ecc., posti da
un fidanzato respinto. Lucia interviene per raccontare che, quando lei era già
zita con Do- nato, una conoscente si adoprò per indurla a rompere il
fidanzamento. Lo stride era una vendetta o un danneggiamento al
matrimonio.
Chiedo se la guardia aveva lo scopo di proteggere la donna, e
ottengo ancora risposta negativa. Donato è deciso nell' affermare che la
guardia doveva garantire il rispetto degli sposi.
Faccio un lungo ragionamento secondo questo filo di logica:
la donna era nella società di cui si sta parlando elemento più debole, quindi
andava protetta o tenuta sotto tutela, per esempio dal padre o dai fratelli; se
una donna non sposata fosse stata offesa, toccava ai maschi difenderla anche con
la forza: dunque prima del matrimonio alla donna era dovuta una 'guardia' da
parte degli uomini (gli astanti ammettono che era così). Dopo il matrimonio la
donna passava sotto la protezione o tutela o diritto del marito, un altro uomo;
ove il marito non fosse stato all'altezza della protezione, potevano intervenire
i maschi della famiglia d'origine; dunque alla donna era garantita una 'guardia'
nel matrimonio (gli astanti ammettono anche ciò). Chiedo come è possibile
pensare che non esistesse un istituto di protezione o guardia o tutela specifica
per lei nella transizione dalla prima alla seconda fase, cioè appunto nella
prima notte di nozze; e chiedo anche se questa funzione fosse assolta dalla
guardia della prima notte, aggiungendo che ciò potrebbe essere testimonianza di
una civiltà sensibile alle difficoltà della condizione femminile. Gli
intervistati non reagiscono e i due più giovani appaiono estranei al
ragionamento.
La conversazione continua su temi di fatture, malocchio e
corrispondenti antidoti. Si rivela che bastava mettere sotto il letto degli
sposi una falce, o forbici, per sventare malefici. Una scopa posta presso la
porta stornava l'ingresso delle belle donne, costringendole a contare uno per
uno i fili di cui era composta. Si dà notizia di varie fattucchiare di Banzi.
Secondo Donato i poteri di una passavano ad altra donna solo in punto di morte:
colei che voleva ereditarne i poteri doveva stazionare presso il letto e
afferrare con i due pugni chiusi il lenzuolo o le mani della morente nel momento
del trapasso.
LA GUARDIA DELLA NONNA
Questa è una storia romanzesca, che non
si può raccontare senza dichiarare che ogni riferimento alla realtà è
puramente casuale e che nessuno è auto- rizzato a decodificare le sigle del
racconto con nomi reali di testimoni e attori di Banzi. Ciò per rispetto di
persone viventi che potrebbero scorgere nella filigrana la propria sorte, e che
forse per questo motivo non sono volute entrare nella serie delle
testimonianze.
Immaginiamo allora un giallo di paese che ha all'origine un
evento strano e che si dipana tra ipotesi e versioni diversificate, per volgere
a una soluzione coerente e logica, anche se forse immaginaria. Come in tutte le
storie romanzesche, tutto è nebuloso all'inizio, tutto sembra chiaro alla fine.
Ma qui chiaro davvero non è nulla, e tutto è ambiguo. E solo la disposizione
processuale dei dati -opera del raccoglitore e dei suoi complici testimoni -che
sembra raffigurare alla fine un percorso lineare e fedele alla ragione. La
'verità' vera della storia non sta nella positività dei fatti, ma in quanto
essa rivela della sfaccettata psicologia popolare e delle mitologie che
l'immaginazione, la superstizione, il dolore e la paura dei singoli e della
collettività hanno generato. Con questo avvertimento, mi è parso di non
privare i lettori di questa inquietante, allucinata e semi-fantastica
appendice.
All'inizio ci fu l'interruzione di R. al racconto di M.: la
guardia agli sposi esiste ancora oggi, nel 1994 fu guardato fino al mattino il
matrimonio di AA! Ma sei anni dopo R. nega di aver detto quel che è depositato
su nastro magnetico. Messa alle strette dal ricercatore e dalla figlia presente
allora e oggi, ricorda. Aggiunge che quella guardia fu fatta dalla nonna.
Finalmente la tanto cercata guardia della nonna! Acquisisco esterrefatto e
incredulo la notizia e prego che sia verificata. L'indomani R. e la figlia
partono. In tarda mattinata ricevo la visita di M., madre di R., che mi comunica
avere sua nipote tentato di raggiungere AA e la nonna ZZ, per procurarmi un
appuntamento; ma essere la cosa risultata impossibile, perché la vecchia è in
ospedale fuori del paese e la nipote occupata ad accudirla.
Poco più tardi riferisco incidentalmente a MN e al marito la
strana storia, meravigliato dell'eccezione femminile a tutta la consuetudine
come accertata dalla concorde memoria del paese, che esclude la presenza di
donne nella guardia agli sposi. I due reagiscono subito rivelando che ZZ è una
fattucchiera; e fanno un inventario delle presunte fattucchiere del paese.
Precisano poi che le persone in questione vengono da fuori, quasi a dire che in
qualche modo sono estranee al vero tessuto sociale del luogo, e che il nonno di
AA ha ucciso il fratello.
Mi trasferisco da MR e racconto la vicenda con 1'accumulo dei
dati. MR risponde che la circostanza non è credibile. Però: ZZ è donna
energica e coraggiosa, abituata a combattere nella vita, inoltre fisicamente
robusta. Ha i peli come fosse un uomo... La conosce personalmente, va ogni
pomeriggio in chiesa. Potrebbe incontrarla, ancora ieri girava per il paese. Ma
la sera mi riferisce che la donna versa in cattivo stato di salute e non è in
condizioni di tenere una conversazione.
Il giorno dopo riepilogo la piccola indagine poliziesca alla
famiglia NN. Per la figlia ZZ è una pazza. I genitori confermano con ampi
dettagli e genealogie che un fratello uccise un fratello. E precisamente il
nonno di AA, sposato a ZZ, uccise il fratello, forse per istigazione della
moglie; nel 1994, quando è andata a nozze, AA, figlia di una figlia
dell'assassino, era orfana di nonno e di padre, e aveva solo la nonna ZZ.
La sera incontro la famiglia RR. Confermano che ZZ è
fattucchiera e che sa fare le legature di sangue, ottenute con polvere di rospo,
vetro macinato e sangue mestruale, che impediscono all'uomo di esercitare la
forza virile con la moglie. Ma è possibile che abbia fatto la guardia alla
nipote o si deve pensare che sia una fandonia? Rispondono che son cose che non
si dicono, ma è vero.
La storia viene quindi ricomposta secondo una trama che tiene
insieme tutti i pezzi. n fratello uccise il proprio fratello per questioni
insorte nella notte di nozze di uno dei due. Essi vivevano nella stessa casa.
Quando il secondo si è sposato con ZZ, ha pregato 1'altro, già accasato, di
andar via con la moglie per discrezione. Ma la «perfida cognata» si è
nascosta dietro un divisorio e la notte ha origliato. Ha scoperto così che ZZ
non era andata vergine al matrimonio.. La cosa è diventata di dominio pubblico
(e tuttavia gli avvocati della «ottima cognata» contestano le accuse e
rovesciano tutte le perfidie su ZZ). Ne è nato un dissapore tra i due fratelli,
che è sfociato dopo molti litigi nella tragedia. Siccome ZZ era una volpe,
sapeva quel che poteva accadere e per questo molti anni dopo ha guardato la
nipote.
-«Ma perché non ha mandato un uomo al posto suo?»
-«Era una. nottambula e non aveva paura manco dei
diavoli».
RIASSUNTO
La ricerca è stata occasionata dal quesito, avanzato
dal filologo classico Scevola Mariotti, se sia possibile interpretare un passo
degli Epigrammata Bobiensia come testimonianza che in età tardo-antica
nella prima notte di nozze la nonna della sposa stazionasse nelle vicinanze del
talamo per proteggerla da eventuali eccessi del marito. Allo scopo sono state
realizzate varie interviste in paesi della Lucania e della Puglia, in due
spedizioni distinte nel tempo. Da esse è risultata con tutta certezza
l'esistenza del- l'uso di 'guardare gli sposi' nella prima notte di nozze, cioè
di proteggerli da scherzi di amici, e soprattutto da dispetti e spregi offensivi
('stride') di malintenzionati. Ma in nessuno modo è emerso che i protettori
fossero donne. La costumanza è stata ben descritta da testimoni anziani, talora
con dovizia di particolari. Sono stati stati raccontati episodi di vita vissuta,
intrecciati a volte con superstizioni e azioni magiche, e in fine è stata
ricostruita una storia oscura di sangue.
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NOTE:
1. Epigrammata Bobiensia, detexit A. CAMPANA, edidit F. MUNARI,
vol. II: introduzione ed edi- zione critica a cura di F. Munari, Roma 1955;
Epigrammata Bobiensia, edidit W. SPEYER, Lipsiae 1963. Sulla personalità di
Campana si possono vedere i volumi di due atti di convegni a lui dedicati:
Testimonianze per un Maestro. Ricordo di Augusto Campana, Roma 15-16 dicembre
1995, a cura di R. Avesani, Roma 1997; e Augusto Campana e la Romagna, a cura di
A. Cristiani e M. Ricci, Bologna 2002, nonché La biblioteca di uno studioso
romagnolo. Annotazioni e divagazioni su alcuni libri di Augusto Campana, a cura
di E. Pruccoli e C. Giovannini, Rimini 1999. Di Munari si possiede un bel
ritratto scritto da S. TIMPANARO, in «Be1fagor>, LI (1996), pp. 417-446.
2. Anche di Mariotti S. TIMPANARO ha disegnato un magistrale profilo in
«Be1fagor», XLVIII (1993), pp. 271-326.
3. Adnotatiunculae ad Epigrammata Bobiensia et Anthologiam Latinam, in «Philologus»,
C (1956), pp. 324-325; Epigrammata Bobiensia, in RE, Suppl. IX, Stuttgart 1962,
pp. 46 e 61-62.
4. E. DE MARTINo, Sud e magia, Milano 1966 (la ed., ivi 1959), p. 19; G.N.
MOLFESE, Ceneri di civiltà contadina in Basilicata, Galatina 1978, p. 81; G.B.
BRONZINI, Vita tradizionale in Basilicata, Galatina 1987, p. 345.
5 Le aggiunte sono riportate fra parentesi uncinate.
6 Gli ha graffiato il viso con mani e unghie.
7 I ciammellini (ciambellini) sono genericamente dolci nuziali.
8 La dichiarazione finale è in apparenza un po' sibillina. Ma non credo che
essa cambi qualcosa: ho l'impressione che alla fine le donne l'abbiano fatta per
sfuggire al mio tallonamento argomentativo. Mi pare certo che quell'o non sia
alternativo; insomma le donne vogliono semplicemente dire che la mia domanda è
inutile, perché se si proteggevano gli sposi, implicitamente si proteggeva la
sposa.
9 «Stasera mio cugino non rientra a casa, stanno a fare la guardia agli sposi.
Sull'interpretazione del termine 'zita' io e mio fratello Francesco, presente
all'intervista, per quanto ci resta di rapporto istintuale col nostro dialetto,
siamo concordi: esso non indica la persona della sposa, ma è una sorta di
sineddoche per 'le nozze' o 'gli sposi'; ciò vale per Banzi, e deve valere
anche per Genzano che da Banzi dista il vuoto di un burrone. L'uso ritorna sulla
bocca di un'altra intervistata, Marietta Feo (vd. infra). Del resto anche
in Toscana si dice 'la sposa' per dire il matrimonio, essendo la sposa
l'elemento simbolico e più figuralmente appariscente delle nozze.
10. È espressione formulare: si ricorderà che È fatto
giorno è il titolo di una lirica del lucano Rocco Scotellato, che poi ha dato
il titolo a una postuma raccolta, Milano 1954.
11. Cioè: di cui si diceva che la sposa non era andata a nozze illibata.
12
. <Nel secondo incontro l'episodio delle coma viene riferito a tal Canio D.G., secondo un
ricordo di vecchia data, risalente alla nonna di Marietta, Maria Nicola Fratusco>.
13 Cioè legata da vincoli di consanguineità.
14 È una doppia spiegazione sociologica del perché le donne non avevano parte
in questa azione: primo, era una faccenda da uomini, perché azioni difensive,
che potevano comportare l'uso della forza fisica, erano normalmente maschili;
secondo, era un'operazione che imponeva lo stazionamento notturno per strada e
ciò era inconcepibile per donne.
15. <Luigi fu anche lui comunista; il4 aprile 1950 partecipò insieme ad altri 235 braccianti di
Banzi a una sommossa antipadronale, fu arrestato e imprigionato. Su quell'episodio non esistono
studi storici; una rievocazione letteraria si deve a Canio FRANCULU, Sotto la torre dell'orologio, in
«il foglio», volantino del movimento Prospettiva Democratica del 2 e 15 aprile 1995. Luigi mori
giovane sul lavoro. Di lui Marietta conserva ricordi nitidi e teneramente affettuosi. Ora è uscita in una
considerazione fra poetica e autoironica che, se c'è qualche cosa da quella parte, Luigi l'aspetta, ma
quando si rivedranno chissà come lui la accoglierà, perché lui è giovane, ma lei è vecchia>.
16 È la stessa del racconto di Vittoria Renna.
17 Credo voglia dire: son diventato cavallo da corsa e non
da monta. 18 È l'evento già ricordato da Antonietta Pacella e che ritorna
nell'intervista che segue con Francesca Padula. 19 La fattucchiara fa i nodi
allaccio guardando in faccia la persona che vuole legare; poi va in chiesa e, al
momento in cui l'officiante pronuncia Sanctus, cala il laccio nell'acqua santa e
risponde tre
volte: «Santùs! Diavolo, attaccami a cusse!».
20 Per il significato estensivo di 'zita' = gli sposi, vd. sopra, n. 9.
21 Questo termine è sfuggito al dialetto un po' italianizzato degli
intervistati più giovani. Su di esso, sul suo significato e su quello che gli
attribuisce Emesto de Martino vd. sopra, la premessa.
22 Cioè: quando l'accompagnavano a casa.
23 VuoI dire il nonno di me che interrogo.
24 Un masso, un pietrone.
25 Cioè la picchiavano.
26 <li 12 giugno 2002 Domenico corregge il nome della fattucchiera, sostituendo a RP. un'altra
donna, A.L.; aggiunge che il racconto della fattura nella prima notte era un pretesto: in realtà Fran-
cesca sarebbe stata prima delle nozze deflorata da un altro, esattamente dal cognato della sorella.
Peppino e Francesca dopo molti anni di matrimonio si sono separati; Peppino oggi sostiene che
un figlio nato nel matrimonio non è suo; ma il personaggio è ritenuto generalmente un po' svitato
e inaffidabile>.
27 attàne = padre.
28 Intendi: guai se accadeva che si scoprisse che prima del matrimonio c'era stato un rapporto,
che la verginità era stata presa da altri che il marito.
29 Allude alla storia della figlia di Giuseppe R
30 Cioè la fattura.
31 ancora = per paura che.
32 Viro è un fratello maggiore, il marito di Lucia Ciola.
33 Cioè: potevo forse pensare: sarà mai che Vito bastoni la moglie?
34 Suppongo che la contraddizione fra la descrizione della guardia festosa di
cui all'inizio e quella che affiora dalle ultime battute si spieghi con una
sovrapposizione di qualche episodio di gioiosità paesana di anni recenti su un
diverso costume arcaico.
35 Sono bastoni nodosi usati come arma.
36 Mi è parso di cogliere nei discorsi delle tre ultime donne una notevole
autocoscienza delle condizione femminile, che si intreccia tuttavia
inestricabilmente con l'ancoraggio saldo alle tradizioni. Esse sono le più
acculturate fra le intervistate, ma è curioso che tendano a deprezzare o
occultare il fatto. Antonietta, pur dichiarando di avere solo la quinta elementare,
usa un fervore del discorso il termine 'tabu'. Margherita ha affermato di avere
la quinta elementare, mentre ha frequentato la terza media senza conseguire la
licenza.
37. Cioè guardiano di vacche e altri animali.
38 Allora, a quei tempi.
39 La serratura.
40 Origliare.
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