LA MITICA STAZIONE DI PALAZZO SAN GERVASIO
Il linguaggio dei ragazzi d'oggi - chiunque se ne può rendere conto - è alquanto povero, nella sua povertà ricco solo di ingredienti lessicali costituiti da "cazzo, puttana, troia", amalgamati insieme dall'emulsione della... "merda". Talvolta, però, anzi spesso e volentieri, come a compensare ed ingentilire siffatto turpe sproloquiare, lo condiscono con un abusato aggettivo esclamativo: "mitico"! Siffatta esclamazione era sconosciuta agli adolescenti-giovani della mia generazione: al posto di quella parola, quando si voleva esprimere meraviglia e stupore per qualcosa di mitico, noi esclamavamo"uagliòòò!!!, con tre "o" finali e tre punti esclamativi. Tuttavia, se non si conosceva l'aggettivo mitico, si conoscevano i sostantivi da cui esso sarebbe poi derivato: "Beatles, Rolling Stones, Elvis Presley, Lucio Battisti, Claudio Baglioni", per fare qualche esempio. Un po', forse, era diventato mitico anche il complesso di Banzi "Le Anime", evoluto successivamente in "Le Anime Bianche", anglofonato infine - come voleva la moda - in "The Whites Souls". Anche se il complesso bantino è diventato ora appena un labile ricordo di coloro che lo componevano - così almeno è per me -, un po' esso è stato mitizzato da qualcuno, ad esempio da Elena di Vanzaghello, che ne stampò a suo tempo una foto dal mio sito e l'appiccicò all'interno dell'anta dell'armadio del suo ufficio, dirimpetto a quella di Claudio Baglioni, sì che, quando le due ante erano aperte, le facce del complesso "Le Anime" - pensate un po' - si ritrovavano di fronte a quella del cantante divenuto davvero mitico, guardandosi tra di loro: a me sembrava, però, che lo sguardo di Claudio si specchiasse in modo particolare in quello di Giovanni, immagino forse per una manifestazione di riguardo, perché non gli sarà stato difficile evincere che era lui il capo-complesso. Tuttavia, a me, non per anticonformismo, non piace andare dietro ai miti creati dagli altri e, se proprio dovessi sentire il bisogno di coltivarne qualcuno, il mito me lo invento io. Allora per me costituisce, ad esempio, un mito l'anno 1968, perché verso la fine di aprile sbocciò un amore la cui corolla, dopo quarant'anni, è tuttora viva e profumata.
Ma c'è un altro mito che occupa un posto d'onore tra i ricordi più vivi della mia vita, avendone scandito i passaggi più significativi e cruciali: la stazione di Palazzo San Gervasio. Della sua esistenza ne sentii parlare quando nel 1961 vi si recò mio padre per prendere il primo della serie di treni che lo avrebbero condotto al complesso di baracche montate ad Haltingen, provincia di Baden, Germania, dove lo stavano aspettando altri "gastarbeiter" (ospiti del lavoro). Per diversi anni, sia alla partenza che al ritorno, non si era mai data occasione di accompagnarlo alla stazione, o di andarlo a prendere. Quando, alla partenza, doveva recarsi alla stazione di Palazzo San Gervasio, egli prendeva sempre l'autobus: ce n'erano due che passavano al pomeriggio da Banzi, utili per prendere il treno, ma mio padre sceglieva sempre il primo, forse non tanto per essere più tranquillo, quanto per non prolungare l'agonia della partenza, per risparmiare a noi figli lo sforzo sovrumano di contenere le lagrime, che spingevano dietro le palpebre per sgorgare come rigagnoli di fontanelle. Al ritorno, poi, sapevamo sì il giorno in cui sarebbe arrivato, ma non l'ora, sicché l'attesa del suo arrivo poteva prolungarsi tutta la giornata, anzi, delle volte è successo anche che si andasse a letto e che solo in piena notte sentivi sbattere una portiera di macchina che annunciava il suo arrivo: all'epoca mica c'erano i cellulari coi quali potevi comunicare l'andamento del tuo viaggio! Anzi, erano pochissimi anche quelli che avevano il telefono fisso. Anche in questo campo, come per la televisione, la famiglia Tafaro è stata una delle prime a dotarsene, sicché a me, ad esempio, era agevole, una volta sceso alla stazione di Rocchetta San Antonio, avvertire dell'imminente arrivo alla stazione di Palazzo San Gervasio, in modo che, se non c'era nessun autobus che vi passasse a breve, si recapitasse qualche parente per venirci a prendere. Una volta, però, il telefono si usava con molta parsimonia e, volendo risparmiare qualche gettone (allora gli apparecchi telefonici pubblici funzionavano con appositi gettoni), ci si metteva d'accordo prima su come fare le comunicazioni con segnali cifrati. Così, per esempio, ci si accordava che se si faceva squillare il telefono una volta, ciò significava che si era arrivati a Rocchetta, se lo si faceva squillare due volte, ciò significava che si era arrivati a Palazzo. Ma accadeva che chi doveva stare in ascolto del telefono si allontanasse un attimo proprio nel momento in cui il telefono squillava ed allora i messaggi venivano decifrati malamente, con conseguente incazzatura di chi ne subiva poi i disagi. Arrivò il tempo in cui anch'io potetti vedere la stazione di Palazzo San Gervasio. Ciò accadde, se non ricordo male, nell'estate del 1963, ma non per andare a prendere il treno per recarmi in qualche luogo di vacanza, bensì perché lì nei paraggi c'era una masseria il cui padrone coltivava tabacco ed io, insieme ad altri banzesi, vi andammo a fare la raccolta. Ci venivano a prendere al mattino in macchina ed il padrone (mi pare si chiamasse Molino o forse Palermo) stava attento a selezionare i soggetti più produttivi, in modo da ammortizzare bene le spese del noleggio. Da quella masseria si vedeva non molto lontana la stazione e tutti i treni che vi transitavano, littorine e convogli merci: talvolta mi soffermavo a contare tutti i vagoni che componevano questi ultimi, esclamando dentro di me: "mamma mia quanti!". Poi accadde, durante la frequentazione della ragioneria a Palazzo San Gervasio, che un giorno - come almeno una volta fanno tutti i ragazzi - marinai anch'io la scuola: andando a zonzo qua e là, finimmo con l'arrivare proprio in stazione ed allora, finalmente, potetti vedere da vicino quel luogo mitico: tutto era ordinato, pulito, lo spazio circostante adornato di piante ed aiuole, vi si respirava un'aria quasi religiosa da convento. Successivamente, quando si è giunti a possedere qualche automobile in famiglia, si ebbe sempre più motivi, alternati di tristezza e gioia, di recarsi in quella stazione per accompagnare od andare a prendere qualcuno, padre o fratello, finché le partenze e gli arrivi non furono effettuati in conto proprio, il che cominciò per me verso metà settembre del 1971, allorché partii per Bologna a fare gli studi universitari. Un arrivo in particolare mi piace ricordare qua ora. Si tratta di una volta che, facendo il militare nel 1976, giunsi alla stazione di Palazzo San Gervasio con l'ultimo treno verso le 22,30. Non c'era nessuno che potesse venirmi a prendere, né, a quell'ora, poteva esserci più alcun mezzo pubblico. Allora feci a piedi tutto il tragitto dalla stazione di Palazzo San Gervasio a Banzi, peraltro con una borsone alquanto pesante. All'uscita dal paese, nei paraggi del distributore di benzina, mi imbattei anche in un gruppo di cani randagi che mi fecero non poca paura. Per fortuna uno di essi mi si avvicinò con spirito non ostile, io gli feci a mia volta qualche gesto amichevole ed esso mi accompagnò nientedimeno fino a casa: che bella passeggiata fu quella notte in compagnia del cane e delle stelle: spettri e fantasmi si tennero tutti ben lontani da me. Un po' di apprensione mi venne solo quando dovetti passare davanti alla lapide del "milanese", il cui spirito sembrava essere lì pronto per soffiarmi addosso. A Banzi giunsi verso l'una, cercai di svegliare nel modo più soft possibile i miei genitori, lanciando qualche sassolino contro la tapparella della camera e, che gioia grande fu per loro svegliarsi all'improvviso per abbracciare il figlio caporal maggiore! Essi ritornarono subito a letto, io un po' più tardi, non prima di essermi rifocillato di ciò che trovai in frigorifero, in particolare mi feci una scorpacciata di carne di coniglio in gelatina insaporita d'aceto e fave cotte. Non mi ricordo più ora quando sia stata l'ultima volta ad essere salito o sceso dal treno alla stazione di Palazzo San Gervasio ... forse ciò è avvenuto solo in poesia. A ricordarmelo ci ha pensato qualche giorno fa Antonio Scardinale, che mi ha scritto la lettera sotto riportata, con la quale è venuto a toccarmi un nervo ancora molto sensibile, che mi ha provocato la fitta di tanti ricordi, alcuni dei quali ho voluto raccontare in questa pagina.
Caro Antonio, |
18 settem.bre 2008