LE FRAGOLE
con questo poemetto di GIOVAMBATISTA ROBERTI
da loro curato e trasformato in un "befanino", Michele Feo e Gabriella Mazzei fanno gli
AUGURI per il 2008

Me lo stavo chiedendo nei giorni scorsi: "chissà, se anche quest'anno il prof. Michele Feo mi terrà ancora nella lista dei destinatari del "befanino", che non mancherà di far stampare ancora una volta dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera!". Ma oramai era arrivata la Befana ed il "befanino" non mi era ancora giunto: "mi avrà escluso dall'elenco", ho pensato amareggiato.

Ma stamattina mia figlia Elena, tornata da una settimana trascorsa a Napoli e, venuta a casa a pranzo, nel mentre ci siamo seduti a tavola mi dice: "c'è della posta per te, tra le altre una busta piccola ma pesante". Arguisco subito di cosa si tratti e già da lontano, dal colore ne riconosco il contenuto ed il mittente: "E' ancora il "befanino" del prof. Feo!", esclamo, e, sporcando la busta (ma solo quella) con un po' di vino, non esito ad aprirla subito, scoprendo così che dentro c'erano "Le fragole", un poemetto di Giovambatista Roberti, curato dal prof. Michele Feo e da sua moglie Gabriella Mazzei.

Non nascondo che il pranzo per me è stato alquanto più breve, perché ci tenevo a gustarmi questa "prelibatezza" letteraria, a base peraltro di frutta, sicché non sono andato completamente fuori tema, anche perché, non mi vergogno a dirlo, infine quasi mi  è parso "d'aver fraghe mangiate".

Il prof. Feo, per una "serie di casuali e fortunate circostanze" è riuscito a scovare questo pressoché sconosciuto poemetto, addirittura in tre edizioni - la prima, la seconda e la quarta -: quella relativa alla prima, contiene nientedimeno la firma autografa dei censori di Bologna e le correzioni a mano del Roberti per la seconda edizione.

"Gli amici vorranno gradire un ritorno del nome Roberti nei nostri befanini" con il poemetto "Le fragole" scrive Feo. Io, sebbene prima d'ora ignorassi totalmente questo poeta e non avessi una grandissima dimestichezza ed allenamento con l'endecasillabo, certamente l'ho gradito, ringraziando pertanto il professore per avermene fatto omaggio.

Col suo permesso e della signora Gabriella Mazzei, vorrei estendere oltre i 500 destinatari del "befanino" la conoscenza ed il piacere di questa lettura, inserendo qua il poemetto, adattando i cui versi finali, porgo anch'io gli auguri per il 2008:

All'anno 2008 la serena pace
aleggi sempre intorno e voli
e la ridente sanità vivace
a noi tutti la vita ci consoli;
e la felicità pura e verace
dal fianco nostro un sol dì non s'involi;
e a dire che ogni cosa lieta vada,
sulle fragole il zucchero ci cada

Introduzione di Michele Feo

Se il padre Ennio si metteva a scriver versi dopo avere reso onore a Bacco, il gesuita conte Giovambatista Roberti anteponeva all'ispirazione delle Muse «un sorso di caffè o di cioccolata e un vasello di fiori armonicamente disposti e fragranti. Intriso di cultura classica, gioiosamente fedele alla Poesia, cristianamente devoto e terrestremente partecipe dei problemi sociali del suo tempo, ma alieno da ogni mutria moralistica, il Roberti (Bassano del Grappa 1719-1786) aveva assorbito tutta la lezione edonistica e progressiva dell'illuminismo francese. Il suo pubblico amò lui e i suoi numerosi eleganti libretti, che godettero buona e lunga fama, finché il romanticismo non li gettò nel cestino della dimenticanza. Ma chi apra i suoi endecasillabi catulliani, le sue favole esopiche e i poemetti italiani La moda, Le fragole, Le perle, La commedia, L'armonia, assaporerà ancora la freschezza e la gradevolezza del verso, la fine sapienza dell'erudizione classica e l'arguzia, come chi apra i trattatelli e i pamphlets ammirerà e condividerà la passione civile di un uomo che si è battuto contro una puericultura antiquata ben prima di Pietro VeTri, contro le mostruosità della tratta dei negri in nome della dignità dell'uomo e non delle convenienze politiche o economiche, che ha difeso la riforma teatrale goldoniana e ha osato rimproverare Petrarca di scarso amor di patria quando l'idea stessa di patria italiana era alquanto nebbiosa. 
   Zio di Egle Euganea, gli amici vorranno gradire un ritorno del nome Roberti nei nostri befanini. Proponiamo la lettura del poemetto Le fragole, perché una serie di casuali e fortunate circostanze ci consente di disporre della prima, della seconda e della quarta edizione dell'opera, che con la terza sono quelle pubblicate in vita dell'autore e da lui controllate. Si aggiunga che il nostro esemplare della prima [vd. qui, p. 4J è provvisto delle correzioni autografe del Roberti apportate al testo in vista della seconda edizione, che anzi esso è precisamente l'esemplare inviato ai Superiori di Bologna per l'approvazione alla stampa, che dei censori reca le firme [vd. qui, p.16] e che infine in tre punti, al passaggio da un fascicolo all'altro, porta i segni a matita del tipografo con l'indicazione delle segnature. 
   Le correzioni autografe migliorano il dettato della prima edizione; ma qualche ulteriore rifinitura è stata operata in fase di correzione di bozze, e ancora nella terza edizione (ma l'autore non si è mai accorto di qualche errore introdotto dal tipografo, come condotti al posto di conditi a II 28, 6). Daremo qui il testo definitivo, sufficientemente sicuro, e non infastidiremo i lettori con l'apparato delle lezioni in movimento. Nel commento abbiamo voluto essere sobri, e nell'identificazione delle fonti non tutto è stato risolto. Il poemetto, come del resto tutta l'opera del Roberti, meriterebbe un 'attenzione critica non occasionale. 
   Pubblicata per ben tre volte anonima e sempre preceduta da una lunga dedica firmata da Guerino Roberti, fratello di Giovambatista, per il matrimonio del nobile veneziano Giovanni Mocenigo con una Loredan, l'opera appare col nome del suo autore solo nella quarta edizione. Abbiamo mantenuto anche la dedica agli sposi, perché con tutta probabilità anch 'essa opera di Giovambatista. 
   Della fortuna dell'opera meritano di essere ricordati due episodi: le lodi che ebbe a tributargli il gesuita Davide Scoto in un carme sui gelsomini con la risposta di Roberti stesso a nome delle fragole; e l'inserzione da parte di Giacomo Leopardi di un lungo passo del libro II nella parte poetica della sua Crestomazia italiana col titolo «Riposo di Diana».

CANTO PRIMO

I
Giovani lieti, è pur soave cosa
a lenti passi uscir dall'ample mura
della mormoreggiante e popolosa
città ch'alberga ogn'importuna cura,
e sopra questa umil pendice erbosa
posar in grembo a tenera verdura
e vagheggiare la beltà sincera
della vezzosa e varia primavera.

II
Dal lito occidentale ancor si vede
lontan sul curvo cielo il vivo raggio,
però cortese il sole a noi concede
mirar in viso il benvenuto maggio.
Ricondurrem ver la cittade il piede
dopo il diurno e lucente viaggio,
mentre nell' onde tremule di Spagna
Febo i destrieri suoi fumanti bagna.

III
Degli arbuscei tra la frondosa spoglia
or serpe cauto il venticello dolce
e, perché la novella e giovin foglia
che appena al suo picciuol si regge e folce
quasi del troppo ardire non si doglia,
lieve in passando sol la bacia e molce,
e insidioso vola e noi conforta
co' depredati odori che ci porta.

IV
A questo molle venticel beato
donar vo' questi miei placidi versi.
Ma, deh, ti piaccia, o cintio Apollo amato,
ch' oggi essi sien delle tue grazie aspersi,
onde Zefiro poi non dica: «O ingrato!
Son da' miei doni troppo i tuoi diversi,
perch' io t'allegro con odor soavi
e tu con versi rei mi cruci e gravi».

V
Vedete, amici, in quell' aprico canto
come vivida fragola s' innostra
e, quasi di modestia e beltà il vanto
a un tempo voglia, in un si cela e mostra.
Pur ella par che inviti ora il mio canto
colla fragranza onde empie questa chiostra;
tra foglia e foglia scopremi sua faccia
e ben m'accorgo che non vuoI ch' io taccia.

VI
O amabil fragoletta, ascolta e godi,
ché celebrar vo' i tuoi leggiadri onori
e mentre udran cantarli in nuovi modi,
n'abbiano invidia i frutti e l'erbe e i fiori.
E se diman il labbro mio non frodi
de' tuoi nettarei graziosi umori,
o fragoletta mia, sarò contento
e darai premio largo al mio concento.

VII
Dicon che un tempo tu eri selvaggia,
traendo solitaria ed erma vita
dentro a un vallone, dentro ad una piaggia
di qualche inospital alpe romita.
Là da natura in ben oprare saggia
fu il seme e il fior e a te la foglia ordita
ed ella ti guardò colà gelosa
e da prima ti tenne al mondo ascosa.

VIII
Oggi che a noi non sei più peregrina
più ancora t'ama provida natura
e dentro ad ogni terra cittadina
ella t'accoglie con benigna cura
e a te pietosa e agevole s'inchina,
fmché rosseggi tenera e matura;
e con materno vigile consiglio
ti serba illesa d'ogni rio periglio.

IX
Tu spunti e cresci alla stagion clemente,
quando il terren dal ciel sol grazie impetra;
quando non anco estivo raggio ardente
scende dall' infiammato e lucid' etra;
quando non anco tra il fischiar fremente
piomba la piova grandinosa e tetra,
né il villan ora mira i nuvol bruni
ed ora i figli che staran digiuni.

X
Che se mai come altiera femminetta
la piccolezza tua pigliassi a sdegno,
mira le piante c' hanno eccelsa vetta
come son poste ai turbin aspri in segno;
pensa che se le scuote e le suggetta
il vento d'ira formidabil pregno,
tu in umiltà secura increspi un poco
le tue fogliucce e il suo furor t' è un gioco.

XI
E perché dalle amiche frutta tue
il palato miglior carezze senta,
natura come novellizie sue
per man di primavera le presenta;
e così il labbro, che digiuno fue,
al tuo primo apparir par si risenta
e nella nuova tua freschezza eletta
tutto si riconforta e si diletta.

XII
Non offria tristo il verno innanzi agli occhi
che magri e malinconici apparecchi
di ravignani insipidi pinocchi,
di fichi oltremarin stiacciati e secchi,
che della rancia etate i confin tocchi
avean talor troppo aggrinzati e vecchi;
e favor era inusitato e strano
zibibbo cotto al sole siciliano.

XIII
Ma oggi che la mia frugale mensa
un piattellin di fragole consola,
lodo Natura, sebben mi dispensa
di sue dolci delizie or questa sola.
Natura quasi ad altro oggi non pensa,
che a tale sua odorosa famigliuola
e alla fragola intorno tutte l'ore
confetta quell' ambrosio suo sapore.

XIV
.Aspetti», par che dica, .e l'abbia in pace,
la cotognola pera e la sorbina,
che loro darò poi succo mordace,
quanto mite alla pera zuccherina.
Ingiallirò l'aspro pepon bibace,
maturerò la pesca e la susina
e ai fichi gonfierò le picciol' epe
di tanto pingue mel finché ognun crepe.

XV
Intanto alla mia buona e bella molto
fragoletta, mio onore e cura mia,
oggi ho l' industre ingegno tutto volto,
finché compiuto il lavorio ne sia.
Appena il pensier mio sgombro e disciolto
dal ben voluto e caro studio sia,
che ed estate feconda e autun pomoso
di mille beni miei farò giojoso».

XVI
Così parla Natura. E s'ella aggiugne
in dono allieto maggio e al vicin mese
il buon carciofo, che poi vecchio pugne
e s' impela per barba discortese,
e lo sparagio, che volentier s' ugne
d'olio nato nel bel tosco paese
e che più allice il pronto dente ingordo,
qualor d' insubre sia butirro lordo;

XVII
pur so, che d' infra l'erbe hanno i natalì
né tra l'ingenue frotte ottengon loco;
e in ver soffrano pria gli strazi quali
piaceran meglio allor tiranno cuoco,
sentan quest' erbe li supplici e i mali
di fumo lagrimoso e d'acre fuoco
e traggan indi alla mensa seconda
ed accoglienza allor sperin gioconda.

XVIII
Né s' adirin che in fascio io le avviticchio
con ogni popolar erba minuta;
regnin per me sull' appio e sul radicchio,
vincano la lattuga ampIa e cestuta
e sprezzino dell' aglio il grave spicchio
e il raperonzo e la cipolla acuta,
ma di tal gloria poi si taccian paghe
né ardiscan porsi al fianco delle fraghe.

XIX
E pur di loro è men ritrosa e avara
la fragoletta, che vario artifizio
non richiede di mano esperta e rara
né di cultura dilicato ufflzio;
la piacevole sua indole cara
quasi sotto ogni ciel accetta ospizio
e liberale per le ajuole vaga
e da sé serpeggiando si propaga.

XX
Mediti Alcon ne' rusticani studj
come il silvestre prun cangi suo stile
e svesta quelli suoi costumi rudi
per dolce forza d'innestar gentile.
Certo fia ch' egli aspetti e agghiacci e sudi
pria che ricolga il frutto dissimile,
pria che lo spino, a mal oprare avvezzo,
mansueto deponga il primo vezzo.

XXI
Menalca del giardino a destra e a manca
il sorbo, il pero, l' arbicocco pianti,
ma sappia che il desir lungo si stanca,
pria che l' arbor di bei fior s' ammanti.
E sappia c' han la fede corta e manca !
i bei fiori pomposi ed incostanti: !
tardo il nipote ottien frutto dal seme
e l'avo ne saggiò sola la speme.

XXII
Sin colà dove chiaro argenteo laco
alla vaga Salò scherza sul piede,
dove il terren non langue freddo e opaco,
ché il puro sol tutto lo scalda e vede;
colà dove il tersissimo Benaco
è delle ninfe pescatrici sede,
dove la gioia, dove brilla il riso
dell' antico terrestre paradiso,

XXIII
anzi che penda sultroncon vegliardo
illimon pigro ed il cedro più lento,
il giardiniere con industre guardo
la roncola e il ronciglio adopra intento;
e se s' inaura al fine il frutto tardo,
lieto si chiama del sofferto stento
e le man alza ringraziando al cielo,
che lo serbò dall' importuno gielo.

XXN
La mia fragola dunque non si lasce
priva di laude andar inonorata,
ché per ingegno di natura nasce,
non dall' arte difficile pregata;
e col suo latteo succo educa e pasce
da sé la stirpe ch' è poc' anzi nata;
e l'indugiar tanto le grava e incresce,
che a sua maturità presto riesce.

XXV
Pur se tu il seme spargi, anzi che scosso
da vital aura e' si sviluppi e sciolga,
e pria che tu più del cinabro rosso
il frutto morbidissimo ricolga,
avverrà che due volte il sole mosso
all' annuo corso intorno al ciel si volga;
ed in mercede alI' aspettar minore
sarà poi della fragola il dolciore.

XXVI
Però s'entro alle fraghe dolcemente
l' ambrosia schietta e liquida tu ami
ed il cupido labbro impaziente
per essa tosto di bearsi brami,
mentre amico ortolan lo ti consente,
alquanti prendi piccioletti rami,
ch' abbian nel suolo ben minute e spesse
in varie fùa le radici messe.

XXVII
Trapianta le crescenti ramicelle,
poiché autunno colora le sue poma,
ed in apriI spunterà il fior tra elle,
che farà biancheggiar lor verde chioma,
ed in giugno omai adulte e grandicelle
del frutto porteran la grata soma.
E quinci d'anno in anno rubiconda
fiammeggerà la fragola ritonda.

XXVIII
E la miri dal suo cespo la rosa,
che pregia tanto il vivo suo colore,
e aprendo il vergin seno rugiadosa
si crede esser regina d'ogni fiore;
la miri allor che intorno ape amorosa
susurrando le vola in vago errore,
e forse n'avverrà che tempri alquanto
l' orgogliosetta quel suo troppo vanto.

XXIX
Il ranuncolo a lei ceda la mano, .,
l' anemon rosso e la rossa viola
e il garofan fogliuto e il tulipano, !
quand' aman pur vestir porpora sola, :1
e il coronato don del melagrano 1
e la giuggiola colla lazzeruola, j
e il papavero amico del riposo,
che piega sempre il collo dormiglioso.

XXX
Ma perché tale sorga il buon germoglio,
dove darai a fragola soggiorno,
fa' pria d' ogn' erba inesorabil spoglio,
che inopportuna là spuntasse intorno.
E avverti ch' ella ha un suo cotale orgoglio,
che il magro e arsiccio suoI si prende a scorno
e disia la grassezza e l'aria aprica,
sebben talor le saria l'ombra amica.

XXXI
La fragoletta, ahimè, s'affligge e cuoce
sotto al flagello dell' irato sole,
quand' egli da quel suo leon feroce
fiamme disperge per l'eterea mole;
e tanto il raggio incendiator le noce,
che, sebben non ha allora a nutrir prole,
non più regge se stessa e impallidisce
e sviene e s' accartoccia e inaridisce.

XXXII
Pur se la uccide il sol, la nube acquosa
non men l'opprime con l'umore vano
e dell' intima pasta saporosa
guasta e corrompe il succo puro e sano;
e sulla zolla tenera e guazzo sa
pullula tale stuol d'erbe villano,
che ogn' erba nuova par che a gara dica:
.Il suol mi ceda la signora antica!».

XXXIII
Dunque il cultore sia destro e vegghiante
contra l' usurpatrice erba ch' alligna,
svelga e disperda pur l' abbarbicante
ingorda tenacissima gramigna,
che il nutrimento fura all' altre piante
e per sé tutto il sugge la maligna,
perché sempre vien men la miglior erba
e la fella e la ria regna superba.

XXXIV
Infin strappare converrà dal seno
alla nutrice fragola i suoi parti,
se per licenza rigogliosi sieno
soverchiamente dilatati e sparti,
poiché, di barbe e filamenti pieno,
errando ognuno va per varie parti
e l'un dell'altro dentro al sen si caccia
e l'un coll'altro si complica e allaccia.

XXXV
E perché a natural feconditate
dopo anni alquanti mal si contraddice,
dell'orto a intatte passi altre contrade
una colonia di fraghe felice.
Ivi, disposte in forme acconce e rade,
comoda sieda l' ima lor radice
e sue pomelle generi lunghette
od ovali o schiacciate o ritondette.

XXXVI
E già i' sento e beo l' alma fragranza
che fuor sottile e gentiletta n'esce
e al minorare della mia distanza
essa all' incontro più s' avviva e cresce;
pure non mai troppo s'intende e avanza,
né prodiga di sé mai non incresce,
qual di acuta ginestra risentita
o di giunchiglia la fragranza ardita.

XXXVII
Veggo la folta schiera porporina
e già contemplo que' 10r visi eletti.
O come, mentre ognuna si arrubina,
par che il palato più ritroso alletti!
O qual in esse si condisce e affina
pasta promettitrice di diletti!
Lasso, che l' alma dall' immagin tocca
la fragola si crede aver in bocca!

XXXVIII
L'attico Zeusi, cui natura diede
esprimer tutte le sue forme vere
col vivace penne1 che acquista fede
alle menzogne ordite nel pensiere,
coll' unta tavolozza un giorno siede
ed' uve pigne un gravido paniere,
uve sì ben tornite e sì leggiadre
che al10r tolte parean all' arbor madre.

XXXIX
L'un grappolo coll' altro sovrapposto
ei fa che il colmo inordinato cresca
ed infra l'uno e l'altro a caso posto
si mostra tralcio secco o foglia fresca.
Turgido ed ebro è ogn' acino di mosto,
che quasi par fuor della buccia n'esca,
e la scorza di un tal fiore s'imbianca
che dove un tocca l'altro solo manca.

XL
Mira i grappoli infinti augello indotto,
ch' ha di beccargli ingenito costume,
e fosse un tordo o fosse egli un merlotto
drizza ver essi l'agili sue piume;
e già distende il rostro aguzzo e ghiotto
e per sé un granel fuor degli altri assume,
quand' ecco in finto quadro urta col becco
e vergognando il trae digiuno e secco.

XLI
Certo così non sono io sulle carte
atto a condur poetico pennello,
ma pure se minore in me si è l'arte,
non fu l'inganno in voi forse men bello.
Forse di voi, compagni, alcuno a parte
nell' errar venne di quel greco augello
e gli parve inghiottire qualche volta
la dolce fraga nella bocca sciolta.

XLII
Ma che non può inquieta fantasia
s'ella si mesce e s'agita e ribolle?
Per lei oltre ogni eccelsa ignota via
del sol, dei venti il mio pensar s' estolle.
E ciò che sarà poi, ciò che fu pria
per lei al guardo mio non s'ombra e tolle,
per lei l' alpi trascorro e nel mar salpo,
cammino e vedo e ascolto e gusto e palpo.

XLIII
E siccome talor, vi dirò solo,
 mercé d'un suo deludermi cortese,
quasi mi bevo il buon liquor spagnuolo
e l' anglo cidro e la birra ollandese;
.o lo schiumoso sciampagna al gallo involo
e il biondo tè di mano allo cinese;
e la fumosa canna ho ancor l'ardire
tor dall' irsuto labbro al gran visire.
 
XLIV
Parmi veder che dal dentato bosso
il gorgogliante cioccolate sciolto
e con destro rotar agiI percosso,
mi s'offra in fina e densa spuma accolto;
e parmi, dalla sua bontà commosso,
avere inverso lui mio labbro volto
e in un sorbirlo col re lusitano
o con Fernando, quel gran rege ispano.

XLV
E qualor leggo in un libro vetusto
d'un pasticcio, che merta appena fede,
cui fu il sen tutto per gentili onusto
c parti di fenicotteri e lamprede,
onde Vitellio imperatore augusto
quello una gloria del suo impero crede,
con mio sagace immaginar delibo
il peregrino sconosciuto cibo.

XLVI
Che se cotanto ha l'indole vivace
la immaginazion che mal si regge,
perch' essa non ascolta pertinace
il freno che la modera e corregge
e colà vola dove più le piace
né loco guarda o tempo od uso o legge,
oggi, giovani miei, non vergognate,
se vi parve d'aver fraghe mangiate.

XLVII
Che fia, che fia quand' io prenderò a dire
cose più molto delicate e liete,
se avrete in grado di venirle a udire
diman con tesi orecchi e lingue chete?
Già l'aer bruno ornai voi a fruire
chiama la molle e notturna quiete
e voi de' sogni ne' vezzosi errori
non sognate che fior, fragole, odori.


CANTO SECONDO
I
Spesso l' uman pensier vacilla ed erra,
e quando più s'innalza e riconforta
e quasi il suo disio securo afferra
e seguir crede più fidata scorta,
allora prova non pensata guerra,
allora mira ogni speranza morta,
e del vicino ben quella che serba
immagin viva, più l' ange e inacerba.

II
L'uomo, che di Fortuna incontro salta
a que' volanti lubrici capelli,
onde arma la sua fronte allegra ed alta,
e che strigner la man agogna in quelli,
mentre egli vogliosissimo l' assalta,
essa oltrepassa co' suoi piedi snelli
e la sfuggevol man sola si striscia
su quella sua sì rasa testa e liscia.

III
O quante volte dall' altro emispero
il sospirato porto vedut' ave
l' ibero, illusitan, l' anglo nocchiero
col legno d'aspro argento e d'oro grave!
E del vento infedel, del flutto fiero
soggiacque allora sotto all' ire prave,
e dall' onda che naufrago lo balza,
mira il lido, qualor il capo egli alza.

IV
O quante volte, tumidi d'orgoglio,
i purpurei barbarici tiranni
col piè sospeso per calcar del soglio
tra i vessilli e le scuri i regi scanni, 
cadder di furor matti e di cordoglio,
della fortuna bestemmiando i danni!
E, trucidati all' alto trono innante,
nuotaro entro dellor sangue fumante.

V
O quante volte ancor tra i duci magni
colui che meglio l'ira e il ferro scaglia,
e d' ostil sangue tra i vermigli stagni
preme il cedente esercito e sbaraglia,
avvien che del suo sangue il suolo bagni,
pria che si compia la fatal battaglia;
e chi vinto gemea nelle prim' ore,
dorma poi sulle palme vincitore.

VI
Dimmi, Anibal, e non credevi un giorno
rompere i nidi all'aquile romane,
da poiché Trebbia e Trasimeno intorno
vedesti biancheggiar per ossa umane?
E quando a Emilio il gran cannese scorno
fero le forti tue schiere africane,
non credevi veder i latin padri
baciarti il piede in panni oscuri ed atri?

VII
E se la bella Capua da te ottenne
di non gir tosto a soggiogarti Roma,
fu perché forse allor disio ti venne
di por giù alquanto de' trofei la soma;
fu perché allora forse ti convenne
scuoter la polve e pettinar la chioma,
onde dispiacer meno alle sdegnose
giovani e in un per te vedove spose.

VIII
Ma mentre al Tebro il tuo pensier converso
entro a Roma Cartagine già mira,
viene infin da Terenzio un uom diverso,
Fabio, con lenta e con magnanim' ira,
che, domator d'ogni destin perverso,
col piede fermo alla vendetta aspira,
Fabio, che col timor desta la speme
e i suoi consigli dentro al cor si preme.

IX
Sebben, perché fra l'aste e i brandi io sudo,
tal che sen duol mia timidetta musa,
che non serto di allor guerriero e crudo,
ma di rosa il vorria molle e socchiusa?
Perch' io la chiamo ad imbracciar lo scudo,
se a seder sol fra l'erbe e i fiori è usa?
Già forse alcuno che al mio canto attende
questo sì vario vaneggiar riprende.

X
Senza tante rettoriche figure,
compagni, i' vo' dir sol semplicemente
che voi con giuste ed amorose cure
v' apparecchiate a cogliere repente
le fraghe, che s' indolciano mature
gremite della lor porpora ardente,
perché potrebbe rio caso avvenire,
che d'improvviso facciale perire.

XI
E poi breve alla fraga il viver passa,
per chi il giorno di corla non apprezza.
Tosto che non restia suo gambo lassa,
dà segno di perfetta maturezza;
indi corrompe viziata e passa
la non curata a tempo sua dolcezza.
Così chi il gelsomin pronto non coglie,
piegar lo vede languide le foglie.

XII
Esca pur l' ortolan colla famiglia
e la giovine nuora ortolanella
ed ogni ragazzetto ed ogni figlia
ed ogn' altra invitata villanella,
che non già la presente s'assomiglia
a quell' altra ricolta sì rubella,
onde si taglia la granosa spica
nel luglio adusto alla campagna aprica.

XIII
Sol non si chiami la suocera anno sa,
che conta l'ottantesimo gennajo,
s'ella colla conocchia intanto posa,
o chiude il sonnacchioso suo pollajo,
o, di sua autorità vaga e gelosa,
non compra cena appresta al focolajo
e di vinetto san empie il bottaccio
e medita le parti in sul migliaccio.

XIV
Al giovine s'attenda agreste coro,
che per le ajuole or qua or là si vaga
chino ed inteso al bennato lavoro
di ricercar e di ricor la fraga:
guarda che non le ingoi ognun di loro,
vinto dalla natia dolcezza maga.
Però comandi l'ortolano saggio
che ciascun dia della sua voce saggio.

XV
Si canti la canzon che canta Elpino:
.Un' oca bianca e un' agnelletta mora-,
o quella che accompagna il chitarrino
di Tirsi con un suono che innamora
e che incomincia: .J er rea capolino
dal ciel rosato la nascente aurora-;
e s'altri altro non sa, «chicchi bicchicchi-
colla sonora gorga egli canticchi.

XVI 
Colte, s' adagin entro ad un cestello,
a cui protegga la viminea sponda "
e quasi faccia al fondo letticello
di vite foglia che sia fresca e monda;
e fresco e mondo pur verde cappello
d'intatta foglia lo difenda e asconda;
indi tragga a città di buon mattino,
che l'attende ogni labbro cittadino.

XVII
A me ne venga, che rotto il cocchiume
già più di un botticel per me si spilla,
e il vin che bolle con più allegre spume
già nel terso cristal tremolo brilla;
il vin, che lustra del più puro lume
o che rubicondissimo sfavilla,
già a schizzar segue dall' aperto foro
e vivo sangue par o liquid' oro.

XVIII
Le fraghe dentro a tal umor propizio
io le sommergo naufraghe e le guazzo,
ed esse, grate quasi al grato ufflzio,
danno all' ugola poi miglior sollazzo.
Tu, padre Bacca, non mel tomi a vizio
né il mio tu estimi atto profano e pazzo.
Però perdo n non chieggo e non m' escuso,
se fo del tuo liquor un cotal uso.

XIX
Dal bagno uscite poi i' più non curo
mirar lor volti, che mi son molesti.
No, veder non vo' più le fraghe, il giuro,
e testimon sien tutti i numi agresti.
E se mai avverrà ch' io sia spergiuro,
ortense germe più non mi si presti.
Non vo' vederle, no, ma insieme guai
ad esse, se da me partisser mai.

XX
Non vo' vedervi e vo' pure che stiate,
fragole mie vezzose, a me davanti,
cioè vi voglio tutte inzuccherate,
talché nascosti sien vostri sembianti.
Coprite il volto pur, fragole amate,
né men caldi saranno i vostri amanti.
Si sa da ognuno che voi belle siete,
ma così buone ancor del par sarete.

XXI
Vo' che s' erga gentil piramidale
di rilevate fragole collina
e che biancheggi tutta intorno quale
del fisso latte la rappresa brina,
o qual di neve falda alta e ineguale,
che minaccia da sasso erto mina,
come veggiamo noi nel vicin monte
e mostra, ahi spesso, la canuta fronte.

XXII
O zucchero, o dolcezza, o dono caro
a noi venuto da straniero locol
Pera chiunque o stupido od avaro,
o zucchero vital, ti pregia poco.
Pera chiunque altrui porgere amaro
turco caffè si prende il tristo gioco.
Pera chi senza te torta o pastiglia
di fabbricare unquanco s'assottiglia.

XXIII
Per te si forbe e tergesi la voce,
se affiocata s' arroca e irrugginisce;
per te la molle pesca e l'aspra noce
di tal concia s'incrosta e si candisce,
che crudo verno ostillor più non nuoce,
né la lor pasta emugne e inaridisce.
Ed il verde per te pistacchio eletto
si cangia in bianco ed immortal confetto.

XXIV
Altri dalla Virginia e da Caracca,
dalle Molucche aspetti e dal Maccao
la cannella, il garofan, la vaccacca
e la vainiglia quasi ed il caccao;
e quella ch' oggi il naso cerca e bracca,
com' Elena cercò già Menelao,
polvere dell' Avana o del Brasile
odorifera, morbida, sottile.

XXV
Intanto io pregherò Nettuno padre
che zuccherosa merce in sen sovente
alla figlia di Gian, d' Adria alla madre,
cortese guidi d'ogni oltraggio esente
e, perché approdi ratta alle leggiadre
itale sponde, l'urti col tridente.
Meco tai voti fan le monacelle
ch' aman compor le ambite lor ciambelle.

XXVI
Ma più che in altro ufflZio ed in altr' opra
il lusinghiero zucchero m'invoglia,
qualor di fraghe ammonticchiate sopra
cade alla fresca rubinosa spoglia.
Col dolcissimo suo velle ricopra
e poi fia lieta la mia ingorda voglia,
anzi un sotti! digiunator poi vegna
e chiusa col digiun la bocca tegna.

XXVII
Molier, che richiamasti al bel Parigi
Aristofane e Plauto dall' Eliso,
se non anzi pur tu nuovi vestigi
stampasti in un sentier dallor diviso,
certo tu resti al tuo magno Luigi
fiorir sul labbro non voluto il riso
e alle francesche elette donne resti
giulivi i volti co' tuoi giochi onesti.

XXVIII
O nimico di cure, o Lotto Lotti,
o buon testo re di piacenti fole,
fole che ad ingannar le lunghe notti
possono sopra i suoni e le carole,
di tanto fini e dilettosi motti
hai conditi i pensieri e le parole
che, se per lui la scena, per te piace
il focolare lepido e loquace.

XXIX
O mio Lotti e Molier, parmi non sia
fatta certo per voi l'estrema prova,
onde mostrar che guasta fantasia
al falso immaginar confin non trova,
qualora la fumosa ipocondria
foschi in mente pensier addensa e cova.
Dovea il vostro malato immaginario
a inzuccherate fraghe esser contrario.

XXX
lo per me d'esse a boccon ricchi e doppi
spesso rigonfio e riconforto il seno,
e brontolando per dispetto scoppi
quel vecchio d' Ippocrasso e di Galeno,
ché i giulebbi, l' essenzie ed i sciloppi
abborro come l'ostico veleno;
e di fragole un' avida satolla
mi purga il sangue e avviva ogni midolla.

XXXI
Così la medic' arte non mi cruccia
e vigor fresco il corpo egro riceve.
Presto è il rimedio, ché non scorza o buccia
è mestieri che a lei si stracci e leve;
né lento il sugo fuor si tragge e succia,
ch' essa da sé si scioglie come neve
e giù scende nel sen tacita e blanda
la fragola, che è in un cibo e bevanda.

XXXII
E taccia pur quel nettar celebrato
che là si mesce sopra l'auree stelle,
perché chi bebbe un suo nappo beato
serpere sente in sé forze novelle,
e in un giocondo ed immortale stato
splende di sempre fresca e giovin pelle;
taccia, ché non ognor carco di gloria
d' ogn' emula dolcezza egli ha vittoria.

XXXIII
l' so ben che dal dì che al suo possente
augel ministro il regnator del cielo
non comandò che da cammin stridente
togliesse micidial fulmineo telo,
ma che sopra l'idea cima fiorente
gli rapisse il garzon di biondo pelo,
dal dì ch' aquila adunca Ganimede
alzò piagnente sull' eterea sede,

XXXIV
Ebe, che il mira del tonante Giove
alla mensa regal fatto coppiere
e che Giove la voce e il ciglio move
più spesso a lui, perché gli porga bere,
duolsi la giovinella e si commove,
che meglio d'un pastor crede parere,
e di Giunon si trae dietro allo scanno
e segna col rossor l'interno affanno.

XXXV
Ma che stato saria non so, se tosto
ella fragole offriva in atto umano.
Forse il divino nettare posposto,
ad Ebe Giove distendea la mano;
ed avria allora il crin torto e composto
l'attillatuzzo Ganimede invano,
perché in porger la man Giove rivolto
si saria spesso a guardar Ebe in volto.

XXXVI
Ma di Giove parlar lasciando altrui
e spaziar nel regno degli dei,
canterò ciò ch' avvenne qui tra nui
co' rusticani nostri semidei.
Leggiadre cose canterò, di cui
a parte furo ambo quest' occhi miei,
mentre Febo a spiarle egli m' ha messo
dentro a una grotta, ch' avea un sasso fesso.

XXXVII
Pomona chiama un giorno a sé davante
ogni ninfa che nuota in limpid' onde,
ogni ninfa che alberga in verdi piante,
ed ognuna alla sua voce risponde.
tI satiretti le caprigne piante
, movon, né bosco od antro più gli asconde,
onde, a satiri miste, i' vidi ninfe
F sbucar da tronchi e guizzar fuor da linfe.


XXXVIII
Voleva incominciar le sue parole,
ma da que' dei capripedi protervi
in intrecciar stranissime carole
non è che modo od ordine si servi;
ed in tomboli e in salti e in capriole
si lancian lesti più che daini o cervi;
né ottien che alcuno si componga e attenda,
pria d'udir questa voce: «Una merenda...

XXXIX
...una merenda di fragole» disse
.se volete apprestar a dei congiunti...».
Di cor le fraghe alle napee prescrisse
e di accoglier gli dei, come sien giunti.
Ma di entrar alle ajuole alto interdisse
ai satiri dai piè vello si ed unti,
ed a lor comandò portar gl' inviti
ai vicin colli ed ai lontani liti.

XL
Verdeggia dentro ad un' aprica valle
un orto lieto, cui fa schenno un colle
per le feconde rilevate spalle,
ch' al freddo Artofilace incontro estolle.
Guida non v' è, non v' è segnato calle
che al verzier meni rugiada so e molle.
Pomona lo coltiva di sua mano
e non vuoI che la vegga occhio profano.

XLI
Di quella dea sotto l' industre cura
di nutrir l'erbe pare il suoI bramoso
e le pendenti poma il sol matura,
che luce limpidissimo e giojoso;
irriga e allatta la gentil verzura
fugace ruscelletto grazioso
e sulle sponde di grassezza grevi
sciolgono gli uscignuoi lor voli brevi.

XLII
Ivi steril mortella o bosso vano
con crespe chiome in culti modi sparte
di sottil ghiaia il biancheggiante piano
in mille fogge non distingue e parte,
ma il suolo è variamente a mano a mano
docil sempre ai voler d'un' util arte.
E tu fecondo tutto lo vedresti
di mille e mille dolci germi agresti.

XLIII
Né mai avvien che pera il seme interno
o le promesse perfido deluda,
né mai avvien che il predatore verno
faccia degli onor suoi la pianta ignuda.
Di zefiro il favor è quivi eterno
e sol miti rugiade il ciel risuda.
Vive con primavera autunno amico
come dell' età d'oro al tempo antico.

XLIV
Colà d'arrivar primo ognun disia,
Fauno, Priapo, Pan, Silvano, Pale,
a goder la bennata cortesia
dell' alma merendetta geniale;
per piana ed erta e lieve e scabra via
corse ogni minor nume pastorale;
né Cerer stessa la ritrosa feo,
né il pampino so padre bassareo.

XLV
Innanzi a Bacco quivi era venuto
Sileno, asciugator d'ogni gran fiasca.
Egli cavalca un asino orecchiuto
e l'aizza e 'l percuote colla frasca,
e ad ogni trotto grida e chiama aiuto,
e traballa dai lati e in fronte casca;
e, se non fosse a dirlo cosa brutta,
direi che l' asin ragghia e ch' egli rutta.

XLVI
Entra Flora spirante orgoglio e odori,
quasi dell' altre dive fosse donna,
fidando troppo ne' dipinti fiori
che ha sparsi sulle trecce e sulla gonna.
Pomona s'alza a far debiti onori
de' giardini alla florida madonna,
s'arretra e inchina in grave contenenza,
e alteramente umil fa riverenza.

XLVII
Mormoravano il primo complimento
e Fauno, cui più l'indugiare grava,
della zampogna sua lascia il concento
e di fragole colma la man cava
e se l'accosta poi avido al mento,
sporco di rosso sucidume e bava;
ma volentieri le mascelle insozza
e le fragole a suo talento ingozza.

XLVIII
E mentre Fauno così ingordo acchiappa
la vivandetta dolce di Pomona
e in quella a lui sì lusinghiera pappa
il muso immolla e tutto l'abbandona,
qualche fragola giù sdrucciola e scappa
e fra la barba riccia s'imprigiona;
e più di un satirel critico e ardito
segna il caso col riso e in un col dito.

XLIX
Ma alle superbe dive assai dispiace
di Fauno l' incivil non aspettare
e che e' sia un brodoloso ed un vorace
assai comunemente ad esse pare;
anzi di loro alcuna più loquace
carca il barbato dio d'ingiurie amare,
e vuoI che bue e che capron si chiame,
poiché onorar non sa divine dame.

L
Non così spiacque di Silen l'impresa,
che per accrescer grazia a que' dì ignota,
già per lo collo un' inguistara presa
sulle fragole tutta la rivota.
Senza vin langue la sua cotta e accesa
di schianze e di bitorzi infetta gota
e col vin se n' andria nell' onda stigia,
se nol temprasse ivi quell' acqua bigia.

LI
Vertunno tosto, perché assai disia
dall' odorosa Flora ottener loda,
le fragole bagnate in malvagia
offre a lei sopra foglia e larga e soda.
Ella serena il guardo e Fauno obblia,
e in dolci parolette il labbro snoda
t e giura che a Silen quel suo asinetto
cangiar devriano in un gentil ginetto.

LII
O gran bontà di cotai numi santi,
che non coppe di schietto oro ed argento,
né tinte porcellane a lor son vanti,
né altro signoril vasellamento,
e che foglie di fichi latteggianti
sian lor piattelli ognun d'essi è contento,
e che sia loro tazza e lor bottiglia
una zucca che al collo s'assottiglia!

LIII
Ma Bacco intanto con acerbo ghigno
guatò Vertun, che feo l'atto gentile,
indi a una ninfa si piegò benigno,
leggiadro in viso come un fior d'aprile,
a ninfa, che il sapore chiama asprigno
delle fraghe per lezio femminile,
e duolsi che lo sdegnosuccio dente
s' inaspra e instupidisce e si risente.

LIV
E perché in soggiogar paese molto
Bacco ricchezze procacciò diverse,
in bianca polve zucchero disciolto
fuori da ricco ampio cartoccio aperse.
E all' amadriade cara in prima volto
le fragole dinanzi le cosperse;
indi furo a raccorlo altre man pronte
e di plauso sonò la valle e il monte.

LV
«Onor», si grida a gara, «onore e gloria
ti al domator illustre d' oriente!»;
e, che il frutto più bel d'ogni vittoria
sia questa polver dolce, ognun consente.
A braccia quadre ognuno fa galloria
e lecca il labbro ognun soavemente,
e Flora stessa, da dolcezza tocca,
così sclama nel por le fraghe in bocca:

LVI
"Per voi, fragole, sole io quasi il regno
rinunzierei degli odorosi fiori,
:che è pur l'impero più leggiadro e degno,
t' che vanta i primi più pregiati onori-.
Pomona allor non tien sua lingua a segno
e oppone i fior de' frutti esser minori,
e in prova dice ch' assomiglian tutti
ai fiori le promesse, i fatti ai frutti.

LVII
Flora ripiglia: «I fior ama, se ha senno,
donna e di ben parer fra l'altre agogna,
poiché se l'usi tu, l'altre non denno
porre sul crine nespola o cotogna.
Poi i fior ai frutti sempre il natal dienno,
dunque del fiore il frutto tuo bisogna;
dunque il mio fiore più estimar si deve,
se il tuo frutto da lui vita riceve»

LVIII
Grida Pomona: .0 gran diva saccente,
o tuttessalle, o monna mia cianciera,
rammenta che è ogni fior frale e languente,
che al mattin nasce e che muore la sera.
E di serbarlo a te fresco e ridente
Zefiro, quel tuo vago, indarno spera.
Che se poi sulle piante i fiori io veggo,
li lego in frutta e gli error tuoi correggo».

LIX
Di rossor Flora ardendo e di dispetto,
stacca dal crine e inver Pomona lancia
di ben contesti fior vago fascetto
e coglie appunto la sua manca guancia.
Pomona di ciriege ignee un mazzetto
getta e quinci una tonda melarancia;
e insiem si scaglia ognuna e si raggiugne,
e s'apparecchia di graffiar coll' ugne.

LX
Qual gallo contro a gallo in aia o in prato
move e la gonfia cresta infiamma e rizza
e pettoruto avanza e rabbuffato
ed a giostrare il suo rivale attizza,
le galline e i pulcin temo n l'irato
occhio giallo, che rabbia e livor schizza;
così le dee s'accingono al conflitto
e ogn' altro dio si sta confuso e zitto.

LXI
Quand' ecco d'improvviso ognuno innalza
del monte inver la cima attenti i lumi.
Un drappello di veltri in giù si sbalza
e abbaia e fruga e annasa cespi e dumi;
veggon Diana che da eccelsa balza
discende a visitare gli altri numi.
Ella fa che la lite non si estenda,
coll' alta maestà e reverenda.

LXII
La cacciatrice diva, alla foresta
seguito il lepre timido e vigliacco,
anch' essa vuoI entrare a questa festa
e a sé raccoglie ogni sagace bracco.
Cala il can sulle zampe la sua testa,
sdraiato sul terreno il ventre stracco,
ansa dal cavo fianco e caccia innante
la sua riarsa lingua tremolante.

LXIII
Essa, cui langue affaticato il piede,
gitta fra l'erba la faretra e l'arco
e, mostrando a que' dei le fatte prede,
appoggia a un troncon vecchio il fianco scarco.
Ogni dio le fa cerchio, ognun le crede,
se dice: .Questa acceggia ho colta al varco.
Uccise ho a un colpo sol queste due lepri,
che a un tempo uscian de' lor natii ginepri».

LXIV
Sue prede eran pernici, eran fagiani,
erano gallinelle e starnoncini,
ché non segue Diana animai strani,
ma lepri e quaglie e miti uccelli e fini.
Veste or pensieri agevoli ed umani,
né più guerrera assal gli antri ferini,
or tordi e starne fa segno a' suoi colpi,
non cinghiali, non orsi o lupi o volpi.

LXV
Perché, se tra noi s'amano le piume,
se or si fugge il periglio e la fatica,
par che arrida anche ai dei sì bel costume
e sdegnin viver su la foggia antica.
E ancora Marte, quel sì duro nume
che ogni delizia avea per sua nimica,
or di gire alla guerra ha preso in uso
in aureo svimer dai cristalli chiuso.

LXVI
Già la dea lassa ver la fronte calda
sventola il lieve cappellin di paglia,
la treccia slaccia, che pria stretta e salda
stea sotto un reticel di verde maglia;
talvolta scuote al gonnellin la falda
e alla narrazion più si travaglia,
né cicala ella sol, ma colle braccia
figura i casi della dubbia caccia.

LXVII
Pan, che d' ebuli e ferule s'implica
le tempie intorno e l'uno e l'altro corno,
quelle intrecciate frondi disintrica
e l' aer con esse agita d'intorno,
onde pervenga la fresc' aura amica
della dea venatrice al viso adorno,
tinto di roseo vivido colore
e cosperso di lucido sudore.

LXVIII
Mentre alleggia la dea così l'angoscia
e in lungo tragge il suo vario sermone,
palpa una ninfa a un can l'orecchia floscia,
che tremola gli casca e penzolone;
un' altra pela ad un fagian la coscia
e sclama intenerita: .A1mo boccone!»;
e chi misura il becco alla beccaccia,
e chi al lepre i mustacchi in su la faccia.

LXIX
Pur tre prudenti naiadi ed acute
novel conforto alla molesta sete
volgendo in mente, non da altrui vedute,
partir dall' orto taciturne e chete;
nell' onde si tuffaro e l'onde mute
chiusersi sovra i lor capi quiete.
Zucchero e fraghe esse portaron seco
dentro al paterno ed agghiacciato speco.

LXX
Nuova confezion ivi fonnaro,
lo zucchero me scendo al succo espresso,
succo che non riman liquido e raro,
fatto dal ghiaccio ancor tenace e spesso;
e poiché dentro a vetro puro e chiaro
con rigoglioso colmo l' ebber messo,
dell' acque uscite, a Diana l' offriro,
che al sorso primo trae lungo sospiro.

LXXI
Sospira di piacere e di dolcezza
e va alternando colle lodi i sorsi,
perché la verginal sua bocca avvezza
non ebbe a tal diletto ai tempi scorsi.
E la madre Pomona anch' essa apprezza
de' sorbetti l'amabile comporsi,
onde ribes estiva e portogallo
vidersi incappellar poi il cristallo.

LXXII
Ma che ornai chiuda il canto a me fa segno
il sol che estingue suo caduco raggio,
onde, soavi amici, a voi ne vegno
ed auguro a que' dei il buon viaggio.
A voi ritorno, cui col fioco ingegno
volentieri cantato sin or aggio
tra l'erbe e i fiori e i zefiretti e l'acque
la cosa che di lor a me più piacque.

LXXIII
Deh, per voi saggi nell' aonie scuole,
cui Febo in seno il vivid' estro infuse,
deh, gli umili pensieri e le parole
e questo agreste mio stile s' escuse.
So ben che d'altro ragionar si suole
da voi su Pindo colle dotte muse;
e so ch' ora animosi meditate
sparse d' onor febeo rime beate.

LXXIV
Colà n' andran le vostre ornate rime,
dove le chiama Imen che assai le pregia;
Imen ch' oggi a due cor stilla ed esprime
ogni più lieta sua dolcezza egregia.
Colà n' andran fra le matrone prime
di cui s' ingemma l' inclita Vinegia
e in mezzo ai loro balli e ai loro cori
celebreran due fortunati amori.

LXXV
Il Mocenigo nome e il Loredano
per esse suoni glorioso e altero,
che già con dolce guardo ed atto umano
al Mocenigo prode cavaliero
porge terrena dea la fida mano;
e colla man del cor porge l'impero;
e sol la Loredana per sé tiene
l'impero delle sue luci serene.

LXXVI
Dal vostro pieno e fervido intelletto,
se amor detta lo stil quale conviensi
all' elevato e nobile suggetto,
usciran nuovi e non vulgari sensi
e fuor aprendo dalla lingua e il petto
d'alta eloquenza i ricchi fonti immensi,
discorrerete sopra ogni memoria
della moderna e della prisca storia.

LXXVII
Direte che de' più riposti tempi
tra noi non fia giammai che fama invecchi,
ma che sempre i lodati e onesti esempi
ricorderà d'eroi preclari e vecchi,
che furo sprone ai buon, flagello agli empi,
e di virtute immaculati specchi,
perché poi l'uno e l'altro ceppo augusto
d'eterna gloria fu grave ed onusto.

LXXVIII
Direte ch' essi con immoto ciglio,
famosi nel mestiero della guerra,
sostennero ogni rio duro periglio
di mar irato e di crudele terra;
direte che nutriro un tal consiglio,
che rado in suo pensar o mai non erra;
direte che per loro in onor s'ebbe
ed il veneto regno così crebbe.

LXXIX
E intanto io mi sarò contento e pago,
se d' amor su le penne a lor invio
felici auguri, onde poi sorga un vago
figlio, che allegri il buon comun disio;
figlio che sia de' genitori imago,
magnanimo e gentile e largo e pio
e che ai minori suoi fratei sia duce
per l'erta via che a immortal gloria adduce.

LXXX
A questa coppia la serena pace
eternamente intorno scherzi e voli
e la ridente sanità vivace
la sua vita lunghissima consoli;
e la felicità pura e verace
non dal suo fianco un solo dì s' involi;
e a dire che ogni cosa lieta vada,
sulle fragole il zucchero le cada.

 06 gennaio 2008

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