LEGGERE
di Michele Feo
Leggere
è un'azione tipicamente umana, che gli animali non sanno fare o che nel
processo dell'evoluzione naturale e culturale non hanno voluto o non hanno
saputo, non si sa se stoltamente o saggiamente, realizzare e praticare. Tutti i
tentativi di insegnare a un cavallo a leggere, fatti da un bene intenzionato
ricercatore di altri tempi, sono approdati a fargli riconoscere alcune lettere e
numeri, cioè ad avere determinate reazioni davanti ad alcuni segni. La mia
gatta, che è certamente dotata di spirito divino, usa i libri solo per alcuni
scopi, che sono i seguenti: primo, sedersi su quello che sta aperto davanti a
me, per impedirmi di leggere e rivendicare il suo diritto ad avere maggiori
attenzioni che non il libro stesso; secondo, usare le file di libri della
scansia come immagini di savane e foreste perdute dentro le quali nascondersi e
tendere agguati; terzo, usare certe pagine per arrotarsi le unghie. Naturalmente
la prima e la terza operazione mi seccano, ma non molto: in fondo la prima
(sedersi sul mio libro aperto) è un antidoto che mi sottrae alla follia della
lettura totalizzante, dimentica della realtà, e mi ricorda che un'operazione
simile compì il Bambino Gesù quando, secondo la leggenda, andò a sedersi sul
libro aperto, non so più se di sant'Antonio di Padova o di sant'Agostino, per
richiamare l'arroganza del santo intellettuale
al senso del limite connaturato all'uomo; la terza (l'arrotamento delle unghie),
siccome si esercita quasi esclusivamente su fotocopie e su pagine porose, mi dà
fastidio, ma in segreto un po' mi piace, perché la sento come una sorta di
vendetta e sfregio a strumenti di questa nostra èra tecnologica, che va
smarrendo il senso della bellezza e sostituisce sempre più all'antica unità di
utile e bello un avvilente pragmatismo incolore. Allora, diamo alla gatta zero
in lettura e sapienza, ma un buon 8 in saggezza e buon gusto.
Dunque,
non fosse altro che in virtù di questo esclusivo appannaggio dell'animale-uomo,
la lettura è attività nobile. Ma non per questo essa è sfuggita allo
sberleffo di quel sottoprodotto del comico, che si chiama barzelletta. È
famigerata quella che, nello stile delle domande carnascialesche, fa: «Lo sai
perché i carabinieri vanno sempre a due a due?». «No». «Perché uno sa
scrivere e l'altro sa leggere». Ci sono stati e ci sono grandi uomini che hanno
scritto come fiumi in piena, e che dovrebbero definirsi poligrafi o pantigrafi o
logomachi (per fare solo alcuni nomi: Aristotele, san Tommaso, Alberto Magno,
Goldoni, Voltaire, Lenin); è normale sentir dire di qualcuno di loro la frase
irriverente che hanno scritto tanto che non ce l'hanno fatta a leggere tutte le
opere da loro stessi scritte.
Ma
è un dato statistico, e non una battuta, che in Italia si scrive più di quanto
si legga; non voglio però giurarci, perché anche le statistiche non sono
infallibili come si dice sia infallibile il papa. Certamente però la sentenza
è vera per il mondo nel quale lavoro, cioè l'università: qui tutti sono
impegnati a scrivere e scrivere, paghi del precetto che la mano destra è bene
non sappia quel che fa la sinistra, cioè è bene non leggere quel che fa il
collega della stanza accanto, perché potremmo essere dissuasi dallo scrivere
noi quanto è stato già scritto da altri; e tutti citano forsennatamente nelle
note e nelle bibliografie elenchi sterminati di scritti altrui che non hanno
letto, come si potrebbe facilmente dimostrare dalle castronerie che nelle note
si attribuiscono ad altri o anche solo dalle imprecisioni con cui si riportano
p. es. i titoli in lingue straniere. Mi chiederete: perché si scrive e si
scrive nel mondo nel quale lei lavora? Ma è facile: perché senza pubblicazioni
non si fa carriera; sicché il valore si misura a kilogrammi, e oggi Socrate,
che pure dà argomento a tanti di scrivere, non avendo lui stesso scritto nulla,
non potrebbe aspirare non dico a una cattedra, ma nemmeno a un posto di
sindacalista all'Università.
Si
sa, scrivere è importante. Ma non è del tutto certo che lo sia anche il
leggere. Scrivere è atto stabile, che guarda all'eternità, leggere è
effimero. Chissà forse, leggere è persino un'attività intellettuale un po'
inferiore, che compete ai meno dotati, ai poveri o ai digiuni di sapere. Forse
per questo nella presunzione maschile e nell'autocoscienza femminile in certe
epoche la promozione intellettuale della donna è stata raffigurata come capacità
di leggere e non di scrivere. Non è raro trovare nell'iconografia
dell'Annunciazione che la Madonna, verisimilmente un'analfabeta, sia assurta a
lettrice. Ciò è avvenuto non più tardi del Trecento, come testimonia un
dipinto di Agnolo Gaddi nella cattedrale di Prato. Lo schema si afferma
decisivamente nel Quattrocento con le Annunciate di Ignoto in S. Maria Novella
di Firenze, di Carlo Crivelli a Francoforte di Antonello da Messina a Palermo,
di Roger van der Weyden al Louvre. In questa scenografia sacra la Madonna riesce
a leggere, seppure meno, anche dopo aver avuto il Bambino (come mostra ancora
Antonello nel Polittico di S. Gregorio), salvo che non sia distratta dalla cura
del piccolo (Albrecht Dürer e l'altare di Dresda, 1496), dal gioco del monello
con le pagine del codice (Madonna Duran di Van der Weyden), o, quando è
cresciuto, dal bisogno di insegnare a lui a leggere (quest'ultima operazione è
stata immortalata dal maestro di Borsigliana, un pittore del Quattrocento in Val
di Serchio).
Con
la laicizzazione dei soggetti pittorici, le signore chiedono sempre più
insistentemente di essere raffigurate col petrarchino in mano: basti ricordare i
ritratti della poetessa Laura Battiferri di Angelo Bronzino (ma il libro che ha
in mano è verisimilmente la materializzazione della sua attività poetica), di
Maria Salviati, anch'esso del Bronzino, di Maria del Berrettaio di Andrea del
Sarto. Del resto proprio nel Cinquecento si diffonde ampiamente l'uso già
medievale di dedicare opere di poesia, ma non solo, a donne altolocate, che
probabilmente hanno protetto o finanziato gli scrittori, ma poi hanno anche
letto le opere loro dedicate.
Il
vezzo pittorico di raffigurare la donna che legge ritorna con forza nella
pittura dei Macchiaioli: qualche volta legge davvero, lettere o libri, qualche
altra volta la lettura è pretesto per ingannare l'attesa, forse frustrata, di
un appuntamento, ma insomma legge. Una donna di Giuseppe Abbate legge un libro
di devozione. La Zia Erminia di Adriano Cecioni invece si è fatta catturare da un
libro più eccitante delle orazioni e si sprofonda nella lettura, dimentica del
consueto lavoro. La signora dell'Appuntamento
nel bosco di Portici di Giuseppe De Nittis con tutta evidenza finge di
leggere. Ma anche mamme e nonne ottocentesche, come le Madonne rinascimentali,
possono - sotto il pennello di Silvestro Lega - beatamente identificarsi e
annullarsi nell'istruzione e nella lettura di figli e nipoti. Questo equilibrio,
forse millenario, fra tensione culturale e dimensione quotidiana viene
crudamente infranto nel Novecento dalla lettrice professionista di Picasso,
smembrata come Penteo e confusa con le linee geometriche del tavolo di lettura.
La
donna legge abbastanza; legge abbastanza, ma scrive poco o niente. Non so chi
sia stato il primo a raffigurare una donna nell'atto di scrivere. Gli affreschi
pompeiani ci hanno donato la ragazza perplessa con lo stilo appoggiato alle
labbra, fra compito di scrittura e un sogno vagabondo. Il nostro mondo moderno
deve invece questa iconografia a quel grande interprete della condizione
femminile che è stato Giovanni Vermeer di Delft a metà Seicento. Ma, sia che
leggano sia che scrivano, le donne di Vermeer sono alle prese con lettere: non
libri, non opere di letteratura e di scienza, ma strumenti di comunicazione,
messaggi da o a figli e mariti lontani, o piuttosto mezzi galeotti per tentare
evasioni difficili e pericolose dal chiuso delle loro case benestanti e senza
luce.
Invece
l'autore antico o il clericus medievale, lo scrittore sacro o l'umanista come Petrarca ed
Erasmo, o san Gerolamo, e poi lo scrittore e il poeta moderno, insomma gli
scrittori di genere maschile, hanno davanti a sé la loro opera scritta o la
scrivono o la correggono con il raschietto. Si tratta solo di scegliere gli
esempi più efficaci. Nella raffigurazione di Simone Martini, eseguita su
progetto del Petrarca, Virgilio sta in un boschetto con la testa levata in alto
a raccogliere l'ispirazione poetica, che poi traduce con la penna nel libro
aperto sulle ginocchia. Petrarca stesso, a sua volta, è raffigurato spesso con
gli occhiali al suo scrittoio: con l'indice sinistro segue la parola scritta in
un libro aperto su un leggìo, con la destra compone lettera dietro lettera il
suo libro; la parola fluisce da un libro all'altro. Poderosi sono gli
evangelisti di Dürer e quelli di Beccafumi con i loro libri in mano. Meno
grandiosi, ma forti della coscienza di formare schiere sono le teorie di dottori
della Chiesa di Antonello e quelle di cardinali di Tommaso da Modena, tutti ad
ingigantire la loro gloria di scrittori con l'ostentazione di magniloquenti
volumi. Li portano sotto il braccio, o li scrivono, o li contemplano squadernati
davanti a sé, e qualcuno distrattamente vi si appoggia col gomito, mentre il
dito viaggia pericolosamente verso il naso. Il prototipo dell'intellettuale
cristiano è san Gerolamo, il traduttore della Bibbia: in un grande quadro di
Antonello da Messina egli non sta -
come è suo solito - nel deserto, ma in uno studio rinascimentale che ogni
professore sognerebbe; in un altro, ancor più grandioso, di Tommaso da Modena
egli è al massimo della performance:
ha intorno a sé e domina contemporaneamente ben cinque libri, un po' come uno
studente di oggi che scrive la tesi di laurea e cerca disperatamente una
onorevole synkrisis fra i diversi
critici proposti dalla bibliografia.
***
C'è
stato un tempo remoto nella storia dell'umanità in cui non si leggeva. Non si
leggeva, perché non esisteva la scrittura. Tuttavia si tramandavano testi
composti da uomini: testi ovverosia insiemi di parole che raccontavano storie,
fatti, azioni, emozioni degne di essere lasciate in eredità di generazione in
generazione. Lo strumento della trasmissione era la memoria: forse l'invenzione
del verso, cioè di una legge ritmica che tiene insieme le parole, è legata al
bisogno tecnico di agevolare l'attività della memoria. L'invenzione della
scrittura, che è avvenuta in tempi diversi presso popoli diversi, e che ha per
lo più percorso un itinerario che va dalla pittografia all'alfabeto, ha
costituito un formidabile elemento di progresso, una delle poche cose che col
fuoco, la ruota e il pane hanno davvero cambiato la storia.
Gli
antichi greci capirono subito che la scrittura era la reificazione della
memoria, cioè la memoria che esce da se stessa e diventa cosa. Una volta
scaricata la memoria umana da tutto un peso e una volta che questo peso è stato
depositato attraverso segni in un magazzino a parte, che può essere di pietra o
di papiro o di altro materiale (oggi software),
si pone il problema di riprendere quel materiale, quando occorre usarlo. È
questa appunto l'operazione di leggere,
che originariamente vuol dire 'raccogliere', ma anche scorrere e percorrere,
passare in rassegna, rimettere insieme. È una parola chiave della storia umana:
ad essa sono collegate a grappolo tante altre parole significative, come
λέγω,
che vuol dire 'parlare', e λογοσ",
che vuol dire 'parola' e anche 'verbo' in senso filosofico-religioso e 'ragione';
ed è essa che ha generato elegans
(elegante), legio (legione) e molto
probabilmente religio (religione).
Non
so se tutti i popoli abbiano una mitologia dell'invenzione della scrittura. Gli
egiziani la attribuivano al dio Thot, quello raffigurato come un uomo con la
testa di ibis, il corrispondente del greco Ermete Trismegisto, dio dei segreti
cammini dell'anima. Da noi una tradizione rappresentata da Isidoro di Siviglia
vuole che le lettere latine siano state inventate dalla ninfa Carmenta. Il nome Carmenta o Carmentis viene
da carmen, verso, canto, ma anche
incantamento, profezia, vaticinio. Carmenta era una profetessa; madre di
Evandro, era venuta nel Lazio dall'Arcadia; secondo altri intrecci del mito era
una ninfa delle fonti, quindi protettrice delle partorienti, e come tale era
venerata dalle donne in feste apposite che si celebravano a gennaio. Una nozione
diffusa vuole che l'invenzione delle lettere sia il nucleo di partenza per la
nascita di tutte le arti e di tutte le scienze.
A
questo punto io trovo un po' misteriosi e solleticanti i giochi dell'immaginario
umano a riguardo delle invenzioni, almeno nella nostra cultura greco-latina: le
arti e le scienze sono personificate da donne (vedi, ad es., l'enciclopedia
mistico-figurale Hortus deliciarum costruita sul finire del secolo XIII per volontà
della monaca Herrada di Landsberg), ma tutti i miti delle invenzioni
attribuiscono a maschi l'invenzione materiale delle singole arti, almeno delle
arti nobili; e ancora, femminili sono tutte le divinità germinali dell'attività
di pensiero: femmina è la Memoria, femmine sono le Muse, femmina è l'ideatrice
dell'agricoltura (ma maschio, Trittolemo, è colui che da Demetra o Cerere viene
mandato per il mondo a praticare e insegnare l'agricoltura). E allora non ci si
deve meravigliare che femmina sia la creatrice dell'alfabeto latino. Insomma
l'attività genitrice che sta all'origine viene attribuita a una divinità
femminile, perché gli antichi hanno sentito come propria della femmina
l'attività genitrice e come propria del maschio l'attività costruttrice,
tecnica, operativa. Alle donne la procreazione, agli uomini il lavoro; alle
donne la genesi, agli uomini la storia. Se non ho visto con occhio strabico, è
per queste profonde ragioni antropologiche che l'invenzione delle lettere è
stata attribuita a Carmenta. Ma poi la scrittura passa storicamente nelle mani
dei maschi, che ne fanno per secoli un loro quasi esclusivo appannaggio. Le
eccezioni, come Saffo, non sono che isole di reazione perdenti al flusso
ordinario delle cose.
***
La
lettura è un'operazione tutta in attivo: è come andare in banca a riscuotere
un ricco assegno, o nelle vigne a vendemmiare, o a un pranzo, invitati: è un
raccogliere gratuitamente i frutti di un albero che noi non abbiamo né piantato
né curato. Ma forse l'immagine che meglio dice quello che penso è quella
dell'eredità. Il lettore è un erede, parente o amico di un morto, che apre i
sigilli ai beni che quello gli ha lasciato in dono. E tuttavia leggere non è
un'operazione del tutto gratuita. Come il vero erede non è l'abile, magari
truffaldino, catturatore dei beni lasciati dai morti, ma colui che quell'eredità
fa sua con rispetto, con amore, con partecipazione e all'insegna della continuità,
così il vero lettore è colui che apre un dialogo con l'autore, che si
appropria del messaggio, o che lo discute e anche lo combatte e lo respinge, ma
che non resta indifferente. I libri sono le voci immortali dei morti che stanno
ancora con noi, leggerli significa compiere l'azione miracolosa di farli tornare
ogni volta in vita. Leggere significa evocare quelle voci, sentire presenti
quegli uomini lontani, ascoltare le loro ragioni, partecipare delle loro ansie,
delle loro emozioni e delle loro gioie, delle loro speranze fallite, dei loro
affetti e le loro follie, e stabilire con loro un legame, una religione laica di
vivi e di morti, che è il senso vero di questo fragile e meraviglioso tessuto
che è il cammino della società e della cultura umana. Chi non partecipa del
colloquio in questa grande famiglia dei presenti e degli assenti, dei vicini e
dei lontani, dei vivi e dei morti, dei grandi e dei piccoli, è un escluso. Chi
non legge è «come una immagine di marmo», scrisse a fine Quattrocento
Michelagnolo da Volterra, umile trombetto del Comune di Pisa.
Non
era certo un'immagine di marmo Francesco Petrarca. Quando nel 1337 realizzò il
sogno di una casa appartata a Valchiusa, lasciò la tumultuosa vita della corte
papale ad Avignone e si ritirò in una sorta di romitorio con tanti libri,
realizzando l'ideale della vita solitaria. È famosa una pagina in cui descrive
la sua giornata di Valchiusa, di cui parte importante è la lettura, nel bosco o
allo scrittoio, o al focolare.
Questi uomini rozzi si meravigliano ch'io osi disprezzare le delizie ch'essi
considerano beni supremi, e non comprendono né la mia felicità né quel
piacere che mi dànno altri amici segreti, che da tutte le parti del mondo ogni
età m'invia, amici illustri per lingua, ingegno, guerre, facondia; amici non
difficili, che si contentano di un angolo della mia modesta casa, che nessuna
mia domanda rifiutano, che premurosi mi assistono e non mi dànno fastidio, che
se ne vanno a un mio cenno e richiamati ritornano. Ora questi, ora quelli io
interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i
segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi
narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età.
E v'è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando
riconduce il riso sulle mie labbra; altri m'insegnano a sopportar tutto, a non
desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra,
d'agricoltura, d'eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono
abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi
ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge.
E di tanti doni, piccolo è il premio che mi chiedono: di aver libero accesso
alla mia casa e di viver con me.
I libri sono vere e proprie persone con cui Petrarca dialoga, ride, scherza.
Albertino Mussato, il grande umanista della generazione di Dante, aveva fatto di
più: come egli stesso ha lasciato scritto, con Virgilio ci è andato persino a
letto insieme. Ma torniamo a Petrarca: dei libri proprio non poteva fare a meno.
Una volta l'amico vescovo Filippo di Cabassole va a trovare il poeta e riesce a
indurlo a fare una promessa a scatola chiusa; Petrarca accetta e quello si fa
dare la chiave dell'armadio dei libri, lo serra e gli impone di prendersi una
vacanza di dieci giorni. Petrarca sta al gioco, ma il primo giorno prova una
noia tremenda, il secondo gli viene il mal di testa, il terzo ha già un lieve
movimento di febbre. Filippo gli restituisce le chiavi.
Il
motivo del dialogo lettore-libro prosegue poi ben oltre Petrarca per tutto
l'umanesimo Nell'atto di donazione della sua biblioteca alla città di Venezia
(1408) il card. Bessarione presenta i libri come persone vive, che agiscono
sulla scena della storia: "vivono, conversano, parlano con noi, ci
ammaestrano, ci istruiscono, ci consolano, ci mettono davanti agli occhi come
fossero presenti cose lontanissime dalla nostra memoria". È notissima la
lettera del 10 dic. 1513 con cui Machiavelli descriveva a Francesco Vettori la
sua giornata gaglioffa in campagna: vagabondare per i boschi con un libro
leggero sotto braccio e all'osteria giocare a cricca e tric-trac; ma finalmente
la sera tornare al colloquio coi suoi autori:
Venuta
la sera, mi ritorno a casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi
spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni
reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli
antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo,
che solum è mio, et che io nacqui per
lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle
loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per
quattro hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà,
non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro.
Alla
fine dell'umanesimo il libro è ancora il compagno inseparabile
dell'intel-lettuale. Michele de Montaigne ce ne ha descritto tutta la poesia.
Negli Essais, ci dicono le
concordanze, la parola 'libro' torna 167 volte. I libri affollano le stanze e le
pagine del Montaigne con la loro presenza affettuosa e assidua. Mille volumi lo
attorniano o lo assediano. Non sa viaggiare senza libri nella valigia. Spesso,
come noi facciamo oggi con l'onda quotidianamente crescente della bibliografia,
Montaigne non li legge, ma li sfoglia.
Egli
affetta, direi persino ostenta continuamente la sua multiforme ignoranza. La
scienza che parla solo ai dotti è vana e superflua, fa parte degli accessi di
febbre del nostro spirito. «Se avete scambiato uno Scipione per l'altro, che
cosa vi resta da dire che abbia valore?», si chiede ironicamente. A Montaigne i
libri servono non tanto d'istruzione, quanto di intrattenimento.
Son
venuto parlando di dialogo, ma almeno per certi tratti avrei dovuto dire
conversazione, anzi conversatio, perché la parola latina dice più di quella italiana,
indicando sì il dialogo verbale, ma altresì l'intrattenimento e la convivenza.
Il più petrarchesco dei sentimenti del Montaigne nei confronti dei libri emerge
nel trattato Di tre commerci. Dichiara
Montaigne di essere nato alla vita sociale e di preferirla alla solitudine.
Tolti i rapporti ufficiali, pubblici e civili, tre commerci gli sono congeniali:
quello con le donne, con gli amici e coi libri. Il primo ha i suoi rischi e
comunque appassisce con l'età, il secondo ha lo svantaggio della rarità. Ma
quello coi libri «è ben più sicuro e più nostro» (questo «più nostro»
evoca naturalmente il machiavelliano «che solum è mio»).
Cede ai primi
gli altri vantaggi, ma ha per sé la durevolezza e la facilità della sua
pratica. Esso costeggia tutto il mio percorso e mi assiste dappertutto. Mi
consola nella vecchiaia e nella solitudine. Mi scarica dal peso di un ozio
noioso; e mi libera in ogni momento dalle compagnie che m'infastidiscono. Smussa
le punte del dolore, se questo non è addirittura eccessivo e dominante. Per
distrarmi da un'idea importuna non ho che da ricorrere ai libri; essi mi
attraggono facilmente a sé e mi sottraggono ad essa. E tuttavia non si
ribellano vedendo che li cerco solo in mancanza di quegli altri piaceri più
reali, vivi e naturali; mi accolgono sempre con lo stesso volto.
Confessa altrove Montaigne di essere
immune dall'eroico moralismo che a noi è stato inculcato da bravi maestri:
quello di non lasciare mai a mezzo un libro. Dice Montaigne senza vergogna che
se un libro non gli piace lo lascia tranquillamente per un altro. «Se qualcuno
mi dice che è un avvilire le Muse il servirmene di gioco e di passatempo, egli
non sa, come me, quanto vale il piacere, il gioco e il passatempo». Se non
l'avessimo capito, Montaigne ce lo dice ancora più chiaro: «Studiai da giovane
per ostentazione, poi un po' per istruirmi; ora, per divertirmi». L'immagine
che Montaigne stesso ci ha lasciato di se stesso nella sua biblioteca ha una
grande forza simbolica. In un'Europa dominata da violenze e guerre, lontano
dalle fastose corti e dai lavoratori con la testa china sulla loro fatica si
erge una torre, appollaiata su un'altura; al terzo piano della torre c'è la
biblioteca di Montaigne: essa occupa una stanza rotonda con un solo lato
diritto, dove sono sistemati un tavolo e una sedia. Seduto Montaigne guarda la
sua biblioteca, che curvandosi si offre tutta alla vista in un solo colpo
d'occhio, schierata su cinque file. Accanto c'è un vano grazioso con un camino
da accendervi il fuoco l'inverno. Lungo il perimetro della stanza, allo stesso
livello, c'è la possibilità, che il signore accarezza, di costruire due
gallerie, per farvi delle passeggiate: giacché i pensieri dormono, se li si
mettono a sedere. Tre finestre dànno un'ampia e libera prospettiva. Fuori
soffia il vento.
***
Il
libro è una persona. Si ascolta la sua voce leggendolo. Ma a lui si parla
anche. Il luogo deputato di questo dialogo è costituito dai margini. In ogni
pagina c'è un pieno e un vuoto: il testo e il margine. Lo specchio della
scrittura contiene la parola del libro. Ma il margine vuoto non è il nulla, è
uno strumento esso stesso. Il margine è lo spazio della mediazione, della
critica e del dialogo: uno spazio che appartiene al lettore. Ho detto che
appartiene, ma avrei dovuto dire che apparteneva al lettore. Al sommo della
porta di una biblioteca italiana ho letto di recente queste parole di colore
oscuro: «Sottolineare, glossare, annotare i libri di pubblica consultazione è
segno di profonda inciviltà. Ricordalo». Poi seguivano minacce di vario tipo.
Nella realtà effettuale in Italia chi postilla i libri qualcosa rischia, ma non
molto, stante anche la distrazione generale. Ma in Germania non sfuggirete,
sarete cacciati per sempre da quella biblioteca, esposti alla pubblica
riprovazione e forse pure bruciati vivi. Ma se non volete essere bruciati vivi,
basta che vi limitiate a postillare i libri di vostra proprietà o a postillare
fotocopie o a fare un dialogo indiretto scrivendo non sul libro, ma su vostri
fogli a parte.
Raccomandava
Agostino a Petrarca nel Secretum di
imprimere a passi importanti degli autori certe note e segni, che fungessero da
uncini della memoria. La tecnica dei notabilia
e delle postille ha per Petrarca un valore terapeutico, serve a ritrovare
prontamente le medicine contro l'ira e le altre passioni, e principalmente
contro il male più grave di tutti, l'accidia. L'accidia è la tristezza
mortale, che può portare alla disperazione, il male senza ritorno e senza
possibilità né di redenzione né di perdono. Io resto sempre esterrefatto e
incredulo quando torno a questo passo straordinario del Secretum:
vorrei che se lo inchiodassero nella mente tanti giovani e non giovani che oggi
come ieri Petrarca vengono attanagliati, spesso senza ragione e senza colpa, da
questa terribile malattia dell'animo. Quando pare che non ci sia più luce e
speranza, aprite i vostri libri cari, leggeteli e rileggeteli, attaccattevi ad
essi come il naufrago al pezzo di legno. Non so se la medicina sia veramente una
panacea, ma se servisse a salvare anche uno solo, sarebbe una cosa grande.
Ma
le forme di lettura sono infinite. Si può leggere per studio e per piacere. Si
può leggere distrattamente e intensamente. Non ci sono regole per la lettura.
Se dovessi raccomandarne una, sarebbe quella di leggere lentamente. Una volta mi
è stato mostrato il libro di un americano che in oltre 400 pagine esponeva il
suo metodo per leggere il più rapidamente possibile. Risposi a chi me lo
esibiva con gli occhi lustri di piacere, che col tempo necessario a studiare e
imparare quel metodo poteva più utilmente leggersi una piccola biblioteca. Del
resto ognuno si escogita, in caso di bisogno, le scorciatoie: una vecchia zia,
avida lettrice di romanzi rosa andava velocemente con la testa da sinistra a
destra e dalla cima al fondo della pagina quando il dramma e le situazioni
intense precipitavano. Qualche mio compagno di adolescenza saltava le lunghe
descrizioni di paesaggi nei romanzi di Salgari. Non posso affermarlo per
testimonianza diretta, ma mi è stato detto di un tizio che legge le pagine
regolarmente stampate con righe orizzontali scendendo in diagonale dalla
sinistra in alto verso il basso a destra! A questo punto direi che è meglio non
far circolare troppe informazioni sul bustrofedismo etrusco... In disuso
parrebbe oggi la lettura a due di bocche tremanti raccontata nel quinto dell'Inferno,
come chiunque può vedere girando per muretti e per panchine di giardini
pubblici. Io devo confessare che, quando sono sovraccarico di estratti di
colleghi inviati in dono, ne leggo le note e non il
testo.
E un amico, che recentemente mi ha chiesto libri da leggere
durante una noiosa degenza in ospedale, era così affascinato dalla lettura
della vita di Federico II di Kantorowicz, che, portato dal furore di arrivare in
fondo, saltava nella lettura pagine e fascicoli interi. Perché porre limiti ai
metodi personali? Del resto anche la mia preferita, cioè la lettura lenta,
potrebbe essere accusata di essere più che una lettura, una ruminazione. Non lo
nego, il mio ideale è quello della mucca tranquilla che alla sua greppia
rimastica il già mangiato. Meglio se intorno c'è silenzio. Ma anche il
silenzio non è obbligatorio. C'è chi legge con la musica accesa, Dante era
capace di sprofondarsi insensibile al chiasso dei fiorentini. Basta entrare in
una biblioteca italiana, anche nazionale: impiegati felici ciarlano dei loro
figli e delle loro vacanze, o tutti arrabbiati trattano a gran voce di diritti e
mansionari. E ciò non impedisce alla maggior parte dei lettori, specie agli
studenti, di leggere; solo a una minoranza saltano i nervi.
Anche
i luoghi della lettura possono essere diversi, praticamente tanti quanti i
luoghi dell'orbe terraqueo, ognuno si sceglie il suo: c'è chi legge bene in
poltrona, chi a letto, chi a tavolino, chi in treno, chi in cima alle montagne e
chi sulla spiaggia, chi si sente coinvolto dalla sacralità delle chiese e chi
attratto dalla solitudine dei luoghi di decenza; e c'è perfino una minoranza
che, come testé si è accennato, legge in biblioteca.
È evidente che la lettura di
cui ho parlato finora è una lettura solitaria e silenziosa. Ma esiste anche una
lettura a voce alta, che si fa in comunità o davanti a un pubblico. È una
lettura in parte sofisticata e artificiosa, che deve molto all'abilità del
lettore, alla sua capacità di legare teatralmente silenzi e suoni, di alzare e
abbassare la voce, di interpretare il ritmo, di dare l'intonazione o di tradurre
il riso e il pathos. Ma anche questa lettura può avere una sua pratica semplice
di grande intensità ed effetto. Io non sono un abile dicitore; ma recentemente
in un incontro pubblico ho letto un intervento che avrebbe dovuto pronunciare
un'amica. Ma l'amica si era ammalata e così mi sono portato dietro i suoi
appunti. Chi conosceva l'autrice ha detto che le sue parole e il suo stile
risuonavano attraverso la voce di un altro con una strana suggestione
evocatrice. In casa di un vecchio professore romagnolo si dava pubblica lettura,
a tavola, delle lettere degli amici, ed era l'immagine dell'amico che come lo
Spirito Santo scendeva sulla famiglia. Del resto così si faceva nelle antiche
comunità cristiane con le lettere inviate dagli apostoli, così si è
continuato a fare anche in età moderna presso società segrete di opposizione
politica.
Mio padre, poco più che
alfabeta, leggeva in casa, di sera, alla nostra famiglia e a quella dei vicini,
i romanzi popolari e la Gerusalemme
Liberata. Non dimenticherò mai il fascino della poesia da lui letta
marcando gli accenti e fermandosi alla fine del verso:
ed ecco in sogno di stellata veste
cinta gli appar la sospirata amica.
Come
credo nessun bambino può dimenticare la favola letta dalla mamma prima della
buonanotte. Non per nulla la lezione accademica è ancora oggi, come dice la
parola, prima di tutto una lettura: si deve preliminarmente leggere un autore e
poi spiegarlo, commentarlo, storicizzarlo. Non per nulla in Italia e in Germania
resta tenace una tradizione per cui il primo rapporto con Dante deve essere la
lettura della sua parola: leggerlo ad alta voce davanti a un pubblico e creare
la magia di un rito d'amore collettivo, realizzato attraverso il risuonare della
parola.
***
Ho
parlato finora del libro come emblema e scrigno della verità. Il libro è la
verità, la lettura è l'accesso alla verità, o se non piace questa parola
mistica, al sapere. È noto che nel mondo medievale il libro è diventato
immagine di pressoché tutto: il volto umano, la mente, l'anima, la vita, il
cielo stellato, il mondo, la natura. Dante usò la metafora del libro della
memoria e quella potente della realtà tutta come fascicolo di libro in cui è
racchiusa la contingenza. Nelle ultime battute del Paradiso
Dio stesso è presentato come una specie di libro compatto e sigillato in cui
tutto il mondo è vincolato in unità dall'amore, quel tutto che per l'universo
si spande, si apre, si scioglie e si manifesta, come si spande il contenuto dei
volumi quando si aprono e si svolgono pagine e quaderni. Per arrivare al sapere,
che è una felicità a cui tutti gli esseri umani naturalmente aspirano, occorre
dissigillare il libro e leggerlo. Secondo san Giovanni nell'Apocalisse
per conoscere il libro delle terribili verità bisogna prenderlo e divorarlo:
che è un modo forte per dire che la lettura deve trasferire dentro di noi i
contenuti del libro letto, farli diventare sangue del nostro sangue, linfa della
nostra vita e del nostro pensiero.
Ma,
entro questa concezione ritualistica del libro e della scrittura, è sempre
esistito - ed è a noi più vicina di quanto non si creda - l'idea che alcune
scritture non devono essere lette, o devono essere lette solo da pochissimi. Se
si gira per le pievi della Lucchesia, non sarà difficile trovare epigrafi
metriche latine che sono collocate così in alto sulle torri campanarie e in
posizione così scomoda, da apparire evidente che esse sono state scritte a
memoria degli uomini e a gloria di Dio, ma non per essere lette dal comune
viandante, anzi con l'intento preciso di essere sottratte ad esso. Perché i
libri religiosi del Mar Morto, che con i loro sconvolgenti segreti potrebbero
cambiare tutta la storia dell'Occidente, erano sepolti in caverne inaccessibili?
Forse perché gli Esseni volevano così salvare i loro libri sacri da una
persecuzione politica e quindi dalla distruzione? È possibile, ma non si può
escludere che la segretezza fosse intrinseca alla natura dei testi, che dovevano
gelosamente tramandare la memoria religiosa e quindi l'identità del gruppo
sociale. Del resto perché, nella nostra epoca di trionfante storicismo e
scientismo, ancora molti misteri circondano quei testi e l'accostamento ad essi
è consentito solo a pochi? Né si pensi che il fenomeno della segretezza sia
limitato agli scritti esoterici religiosi. Nel Settecento la Repubblica di Lucca
non consentì a Ludovico Muratori di accedere alle Cronache
del Sercambi né di pubblicarle nei Rerum
Italicarum Scriptores. Preferirono, i cittadini di una terra in cui
l'erudizione aveva visto momenti di grandezza, essere fuori dalla storiografia
piuttosto che mettere a repentaglio la loro identità consentendo ad estranei di
leggere il libro dove era depositata la loro memoria collettiva. Ci sono dei
libri che l'arroganza del potere non vuole che si leggano. Il buon Augusto fece
distruggere le poesie d'amore di Cornelio Gallo, amico caduto in disgrazia.
Tutti sappiamo come nella Russia sovietica non si potessero leggere le opere di
Trotskij; io ho visto nella Polonia anni '70 girare dattiloscritto il samizdat della Fattoria degli
animali di Orwell. Ma pochi forse sanno che analoghe interdizioni ha
sofferto il Liber sine nomine di
Francesco Petrarca nello Stato Pontificio ancora nell'Ottocento. Ci stracciamo
le vesti perché gli arabi hanno condannato a morte Salmon Rushdie e i suoi Versetti
satanici e ci dimentichiamo che i fiorentini fecero bruciare il Vocabolario
cateriniano perché la lingua di santa Caterina da Siena poteva mettere in
crisi l'imperialismo linguistico della città capitale. Come ci dimentichiamo
che l'Index librorum prohibitorum
della Chiesa, indice di libri di cui la Chiesa vietava la lettura ai suoi
fedeli, ha imperversato per 4 secoli.
***
Forse
dovremmo allora cominciare timidamente a convincerci che la lettura è
tutt'altro che attività effimera e inferiore rispetto alla stabilità e alla
nobiltà della scrittura. Nella storia del movimento operaio e più in generale
nel movimento di emancipazione dei paesi poveri e delle classi deboli è
frequente incontrare singole persone che si proiettano in una lettura forsennata
di tutto quanto è possibile come strumento di liberazione o di lotta o anche
solo di personale ascesa sociale: gente che programmava di alzarsi nel cuore
della notte per dedicare ogni giorno tre ore alla lettura prima di andare al
lavoro e poi altre quattro la sera, a fine lavoro. E gli eroismi dei
rivoluzionari e delle maestrine alfabetizzatrici dei proletari. E gli orgogli di
gente semplice, derisa da borghesi di sinistra con la puzza sotto il naso, per
aver messo insieme e aver letto tanti libri.
Non
c'è dubbio che la diffusione del libro e della lettura sia stato uno strumento
di crescita in tutte le democrazie. Io stesso ho scritto quasi venticinque anni
fa che costruire una biblioteca è un contributo alla realizzazione della
giustizia: e non rinnego quel che ho scritto. Ma ora forse siamo a un nuovo
punto di crisi. Ancora una volta vorrei ricorrere, per spiegarmi, all'aiuto
degli autori della tradizione umanistica. Al tempo del Petrarca, metà Trecento,
agli inizi dell'umanesimo, che è quanto dire agli inizi del mondo moderno,
libri ce n'erano in Europa, libri antichi e libri moderni. Chi vuole attenuare o
azzerare il valore delle scoperte che gli umanisti hanno fatto di autori
antichi, sostiene che gli umanisti non hanno scoperto un bel niente, che tutti
quegli autori che essi dissero di avere scoperto si trovavano nei monasteri di
Bobbio e di San Gallo, di Pomposa e di Fulda, e che monaci ascetici li avevano
letti e trascritti. Petrarca, come già Luciano, dichiarò che l'accumulo di
libri è una insensata vanità se quei libri non vengono letti, che le ricche
biblioteche di persone facoltose e ignoranti non biblioteche sono ma prigioni:
per Petrarca occorreva liberare i libri da quelle prigioni, farli leggere, e
attraverso la lettura farli entrare nella testa degli uomini. L'immagine piacque
a Poggio Bracciolini che quando ritrovò un Quintiliano integro a San Gallo lo
descrisse come un prigioniero malconcio, prossimo alla morte: egli si vantò di
averlo salvato e subito ne inviò copia agli amici in Italia perché a loro
volta lo facessero copiare e circolare.
Al
crepuscolo dell'umanesimo l'inglese Tommaso Moro, il martire della coerenza e
della saldezza morale, disegnò contro l'insopportabile e inamovibile
ingiustizia della sua società, un'isola felice nella quale tutti gli uomini
fossero uguali e felici, l'isola di Utopia. In quell'isola immobile, destinata a
restare sempre uguale nella sua perfezione senza storia, Moro immaginò che ci
fossero anche biblioteche pubbliche, aperte a tutti. Ma un brillante studioso
moderno ora morto, che fu anche proprietario di una grande casa editrice, mosse
su questo punto un rilievo sottile. Aprendo le biblioteche in Utopia Moro
avrebbe aperto il varco al suo scardinamento. Perché i libri sono veicolo di
idee, buone e cattive, e quindi sono il veicolo dell'intelligenza e della
critica, sono la materia prima che rimette in discussione l'uomo e gli
ordinamenti sociali.
Oggi
abbiamo abbattuto tutti i miti, ma non l'ingiustizia. Abbiamo fatto davvero un
bel lavoro! Abbiamo combattuto tutte le censure e ci siamo ritrovati con profeti
di violenza, con pornografia illusionismi e mali endemici dilaganti, che
accerchiano e insidiano noi e i nostri figli. Dobbiamo tornare alla censura? Non
so rispondere. Emotivamente ed egoisticamente sarei portato a dire sì, a dire
che dalla malattia bisogna difendersi e che una società matura dovrebbe trovare
i mezzi democratici per una crescita equilibrata entro la legittimità
dell'autodifesa. Ma come storico e come educatore sento un po' la vergogna di
appartenere a una società sazia e senescente che si accinge a difendere i suoi
privilegi con la repressione. Fra i due mali mi è parso di trovare un conforto
nell'Ulisse di Joyce, là dove l'approdo del protagonista in biblioteca
costituisce il parallelo del passaggio dei raminghi itacesi attraverso lo
stretto di Messina, fra Scilla e Cariddi.
Sì,
credo che sia o dovrebbe essere così: un'autentica società aperta deve porre
al centro di se stessa il libro, la sua libera produzione, la sua doverosa
conservazione e la sua libera lettura, senza paure: non può non rischiare; ma,
come l'accorto Ulisse, deve trovare il modo di passare senza farsi mangiare i
cari compagni dai mostri, deve riuscire a passare indenne tra il pericolo
mortale delle infezioni che possono aggredirla e l'altrettanto mortale pericolo
della salute imposta con provvedimenti di polizia.