LEGGERE
di Michele Feo

     Mi piace offrire ai navigatori questo articolo, bello ed interessante dell’accademico fiorentino di Banzi, pubblicato nella rivista “Il Ponte” - LII, n. 9; settembre 1996, pp. 83-97 -, che merita di essere letto attentamente, anzi di essere “ruminato”: se ciò avvenisse, sarebbero sicuramente meno coloro che verrebbero a visitare questo sito e di più quelli che leggerebbero dei libri, e, per quanto possa apparire autolesionistico, ciò non mi dispiacerebbe affatto.  

    Leggere è un'azione tipicamente umana, che gli animali non sanno fare o che nel processo dell'evoluzione naturale e culturale non hanno voluto o non hanno saputo, non si sa se stoltamente o saggiamente, realizzare e praticare. Tutti i tentativi di insegnare a un cavallo a leggere, fatti da un bene intenzionato ricercatore di altri tempi, sono approdati a fargli riconoscere alcune lettere e numeri, cioè ad avere determinate reazioni davanti ad alcuni segni. La mia gatta, che è certamente dotata di spirito divino, usa i libri solo per alcuni scopi, che sono i seguenti: primo, sedersi su quello che sta aperto davanti a me, per impedirmi di leggere e rivendicare il suo diritto ad avere maggiori attenzioni che non il libro stesso; secondo, usare le file di libri della scansia come immagini di savane e foreste perdute dentro le quali nascondersi e tendere agguati; terzo, usare certe pagine per arrotarsi le unghie. Naturalmente la prima e la terza operazione mi seccano, ma non molto: in fondo la prima (sedersi sul mio libro aperto) è un antidoto che mi sottrae alla follia della lettura totalizzante, dimentica della realtà, e mi ricorda che un'operazione simile compì il Bambino Gesù quando, secondo la leggenda, andò a sedersi sul libro aperto, non so più se di sant'Antonio di Padova o di sant'Agostino, per richiamare l'arroganza del santo  intellettuale al senso del limite connaturato all'uomo; la terza (l'arrotamento delle unghie), siccome si esercita quasi esclusivamente su fotocopie e su pagine porose, mi dà fastidio, ma in segreto un po' mi piace, perché la sento come una sorta di vendetta e sfregio a strumenti di questa nostra èra tecnologica, che va smarrendo il senso della bellezza e sostituisce sempre più all'antica unità di utile e bello un avvilente pragmatismo incolore. Allora, diamo alla gatta zero in lettura e sapienza, ma un buon 8 in saggezza e buon gusto.
  
Dunque, non fosse altro che in virtù di questo esclusivo appannaggio dell'animale-uomo, la lettura è attività nobile. Ma non per questo essa è sfuggita allo sberleffo di quel sottoprodotto del comico, che si chiama barzelletta. È famigerata quella che, nello stile delle domande carnascialesche, fa: «Lo sai perché i carabinieri vanno sempre a due a due?». «No». «Perché uno sa scrivere e l'altro sa leggere». Ci sono stati e ci sono grandi uomini che hanno scritto come fiumi in piena, e che dovrebbero definirsi poligrafi o pantigrafi o logomachi (per fare solo alcuni nomi: Aristotele, san Tommaso, Alberto Magno, Goldoni, Voltaire, Lenin); è normale sentir dire di qualcuno di loro la frase irriverente che hanno scritto tanto che non ce l'hanno fatta a leggere tutte le opere da loro stessi scritte.
  
Ma è un dato statistico, e non una battuta, che in Italia si scrive più di quanto si legga; non voglio però giurarci, perché anche le statistiche non sono infallibili come si dice sia infallibile il papa. Certamente però la sentenza è vera per il mondo nel quale lavoro, cioè l'università: qui tutti sono impegnati a scrivere e scrivere, paghi del precetto che la mano destra è bene non sappia quel che fa la sinistra, cioè è bene non leggere quel che fa il collega della stanza accanto, perché potremmo essere dissuasi dallo scrivere noi quanto è stato già scritto da altri; e tutti citano forsennatamente nelle note e nelle bibliografie elenchi sterminati di scritti altrui che non hanno letto, come si potrebbe facilmente dimostrare dalle castronerie che nelle note si attribuiscono ad altri o anche solo dalle imprecisioni con cui si riportano p. es. i titoli in lingue straniere. Mi chiederete: perché si scrive e si scrive nel mondo nel quale lei lavora? Ma è facile: perché senza pubblicazioni non si fa carriera; sicché il valore si misura a kilogrammi, e oggi Socrate, che pure dà argomento a tanti di scrivere, non avendo lui stesso scritto nulla, non potrebbe aspirare non dico a una cattedra, ma nemmeno a un posto di sindacalista all'Università.
  
Si sa, scrivere è importante. Ma non è del tutto certo che lo sia anche il leggere. Scrivere è atto stabile, che guarda all'eternità, leggere è effimero. Chissà forse, leggere è persino un'attività intellettuale un po' inferiore, che compete ai meno dotati, ai poveri o ai digiuni di sapere. Forse per questo nella presunzione maschile e nell'autocoscienza femminile in certe epoche la promozione intellettuale della donna è stata raffigurata come capacità di leggere e non di scrivere. Non è raro trovare nell'iconografia dell'Annunciazione che la Madonna, verisimilmente un'analfabeta, sia assurta a lettrice. Ciò è avvenuto non più tardi del Trecento, come testimonia un dipinto di Agnolo Gaddi nella cattedrale di Prato. Lo schema si afferma decisivamente nel Quattrocento con le Annunciate di Ignoto in S. Maria Novella di Firenze, di Carlo Crivelli a Francoforte di Antonello da Messina a Palermo, di Roger van der Weyden al Louvre. In questa scenografia sacra la Madonna riesce a leggere, seppure meno, anche dopo aver avuto il Bambino (come mostra ancora Antonello nel Polittico di S. Gregorio), salvo che non sia distratta dalla cura del piccolo (Albrecht Dürer e l'altare di Dresda, 1496), dal gioco del monello con le pagine del codice (Madonna Duran di Van der Weyden), o, quando è cresciuto, dal bisogno di insegnare a lui a leggere (quest'ultima operazione è stata immortalata dal maestro di Borsigliana, un pittore del Quattrocento in Val di Serchio).
  
Con la laicizzazione dei soggetti pittorici, le signore chiedono sempre più insistentemente di essere raffigurate col petrarchino in mano: basti ricordare i ritratti della poetessa Laura Battiferri di Angelo Bronzino (ma il libro che ha in mano è verisimilmente la materializzazione della sua attività poetica), di Maria Salviati, anch'esso del Bronzino, di Maria del Berrettaio di Andrea del Sarto. Del resto proprio nel Cinquecento si diffonde ampiamente l'uso già medievale di dedicare opere di poesia, ma non solo, a donne altolocate, che probabilmente hanno protetto o finanziato gli scrittori, ma poi hanno anche letto le opere loro dedicate.
  
Il vezzo pittorico di raffigurare la donna che legge ritorna con forza nella pittura dei Macchiaioli: qualche volta legge davvero, lettere o libri, qualche altra volta la lettura è pretesto per ingannare l'attesa, forse frustrata, di un appuntamento, ma insomma legge. Una donna di Giuseppe Abbate legge un libro di devozione. La Zia Erminia di Adriano Cecioni invece si è fatta catturare da un libro più eccitante delle orazioni e si sprofonda nella lettura, dimentica del consueto lavoro. La signora dell'Appuntamento nel bosco di Portici di Giuseppe De Nittis con tutta evidenza finge di leggere. Ma anche mamme e nonne ottocentesche, come le Madonne rinascimentali, possono - sotto il pennello di Silvestro Lega - beatamente identificarsi e annullarsi nell'istruzione e nella lettura di figli e nipoti. Questo equilibrio, forse millenario, fra tensione culturale e dimensione quotidiana viene crudamente infranto nel Novecento dalla lettrice professionista di Picasso, smembrata come Penteo e confusa con le linee geometriche del tavolo di lettura.
  
La donna legge abbastanza; legge abbastanza, ma scrive poco o niente. Non so chi sia stato il primo a raffigurare una donna nell'atto di scrivere. Gli affreschi pompeiani ci hanno donato la ragazza perplessa con lo stilo appoggiato alle labbra, fra compito di scrittura e un sogno vagabondo. Il nostro mondo moderno deve invece questa iconografia a quel grande interprete della condizione femminile che è stato Giovanni Vermeer di Delft a metà Seicento. Ma, sia che leggano sia che scrivano, le donne di Vermeer sono alle prese con lettere: non libri, non opere di letteratura e di scienza, ma strumenti di comunicazione, messaggi da o a figli e mariti lontani, o piuttosto mezzi galeotti per tentare evasioni difficili e pericolose dal chiuso delle loro case benestanti e senza luce.
  
Invece l'autore antico o il clericus medievale, lo scrittore sacro o l'umanista come Petrarca ed Erasmo, o san Gerolamo, e poi lo scrittore e il poeta moderno, insomma gli scrittori di genere maschile, hanno davanti a sé la loro opera scritta o la scrivono o la correggono con il raschietto. Si tratta solo di scegliere gli esempi più efficaci. Nella raffigurazione di Simone Martini, eseguita su progetto del Petrarca, Virgilio sta in un boschetto con la testa levata in alto a raccogliere l'ispirazione poetica, che poi traduce con la penna nel libro aperto sulle ginocchia. Petrarca stesso, a sua volta, è raffigurato spesso con gli occhiali al suo scrittoio: con l'indice sinistro segue la parola scritta in un libro aperto su un leggìo, con la destra compone lettera dietro lettera il suo libro; la parola fluisce da un libro all'altro. Poderosi sono gli evangelisti di Dürer e quelli di Beccafumi con i loro libri in mano. Meno grandiosi, ma forti della coscienza di formare schiere sono le teorie di dottori della Chiesa di Antonello e quelle di cardinali di Tommaso da Modena, tutti ad ingigantire la loro gloria di scrittori con l'ostentazione di magniloquenti volumi. Li portano sotto il braccio, o li scrivono, o li contemplano squadernati davanti a sé, e qualcuno distrattamente vi si appoggia col gomito, mentre il dito viaggia pericolosamente verso il naso. Il prototipo dell'intellettuale cristiano è san Gerolamo, il traduttore della Bibbia: in un grande quadro di Antonello da Messina  egli non sta - come è suo solito - nel deserto, ma in uno studio rinascimentale che ogni professore sognerebbe; in un altro, ancor più grandioso, di Tommaso da Modena egli è al massimo della performance: ha intorno a sé e domina contemporaneamente ben cinque libri, un po' come uno studente di oggi che scrive la tesi di laurea e cerca disperatamente una onorevole synkrisis fra i diversi critici proposti dalla bibliografia.

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C'è stato un tempo remoto nella storia dell'umanità in cui non si leggeva. Non si leggeva, perché non esisteva la scrittura. Tuttavia si tramandavano testi composti da uomini: testi ovverosia insiemi di parole che raccontavano storie, fatti, azioni, emozioni degne di essere lasciate in eredità di generazione in generazione. Lo strumento della trasmissione era la memoria: forse l'invenzione del verso, cioè di una legge ritmica che tiene insieme le parole, è legata al bisogno tecnico di agevolare l'attività della memoria. L'invenzione della scrittura, che è avvenuta in tempi diversi presso popoli diversi, e che ha per lo più percorso un itinerario che va dalla pittografia all'alfabeto, ha costituito un formidabile elemento di progresso, una delle poche cose che col fuoco, la ruota e il pane hanno davvero cambiato la storia.
  
Gli antichi greci capirono subito che la scrittura era la reificazione della memoria, cioè la memoria che esce da se stessa e diventa cosa. Una volta scaricata la memoria umana da tutto un peso e una volta che questo peso è stato depositato attraverso segni in un magazzino a parte, che può essere di pietra o di papiro o di altro materiale (oggi software), si pone il problema di riprendere quel materiale, quando occorre usarlo. È questa appunto l'operazione di leggere, che originariamente vuol dire 'raccogliere', ma anche scorrere e percorrere, passare in rassegna, rimettere insieme. È una parola chiave della storia umana: ad essa sono collegate a grappolo tante altre parole significative, come λέγω, che vuol dire 'parlare', e λογοσ", che vuol dire 'parola' e anche 'verbo' in senso filosofico-religioso e 'ragione'; ed è essa che ha generato elegans (elegante), legio (legione) e molto probabilmente religio (religione).
  
Non so se tutti i popoli abbiano una mitologia dell'invenzione della scrittura. Gli egiziani la attribuivano al dio Thot, quello raffigurato come un uomo con la testa di ibis, il corrispondente del greco Ermete Trismegisto, dio dei segreti cammini dell'anima. Da noi una tradizione rappresentata da Isidoro di Siviglia vuole che le lettere latine siano state inventate dalla ninfa Carmenta. Il nome Carmenta o Carmentis viene da carmen, verso, canto, ma anche incantamento, profezia, vaticinio. Carmenta era una profetessa; madre di Evandro, era venuta nel Lazio dall'Arcadia; secondo altri intrecci del mito era una ninfa delle fonti, quindi protettrice delle partorienti, e come tale era venerata dalle donne in feste apposite che si celebravano a gennaio. Una nozione diffusa vuole che l'invenzione delle lettere sia il nucleo di partenza per la nascita di tutte le arti e di tutte le scienze.
  
A questo punto io trovo un po' misteriosi e solleticanti i giochi dell'immaginario umano a riguardo delle invenzioni, almeno nella nostra cultura greco-latina: le arti e le scienze sono personificate da donne (vedi, ad es., l'enciclopedia mistico-figurale Hortus deliciarum costruita sul finire del secolo XIII per volontà della monaca Herrada di Landsberg), ma tutti i miti delle invenzioni attribuiscono a maschi l'invenzione materiale delle singole arti, almeno delle arti nobili; e ancora, femminili sono tutte le divinità germinali dell'attività di pensiero: femmina è la Memoria, femmine sono le Muse, femmina è l'ideatrice dell'agricoltura (ma maschio, Trittolemo, è colui che da Demetra o Cerere viene mandato per il mondo a praticare e insegnare l'agricoltura). E allora non ci si deve meravigliare che femmina sia la creatrice dell'alfabeto latino. Insomma l'attività genitrice che sta all'origine viene attribuita a una divinità femminile, perché gli antichi hanno sentito come propria della femmina l'attività genitrice e come propria del maschio l'attività costruttrice, tecnica, operativa. Alle donne la procreazione, agli uomini il lavoro; alle donne la genesi, agli uomini la storia. Se non ho visto con occhio strabico, è per queste profonde ragioni antropologiche che l'invenzione delle lettere è stata attribuita a Carmenta. Ma poi la scrittura passa storicamente nelle mani dei maschi, che ne fanno per secoli un loro quasi esclusivo appannaggio. Le eccezioni, come Saffo, non sono che isole di reazione perdenti al flusso ordinario delle cose.

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La lettura è un'operazione tutta in attivo: è come andare in banca a riscuotere un ricco assegno, o nelle vigne a vendemmiare, o a un pranzo, invitati: è un raccogliere gratuitamente i frutti di un albero che noi non abbiamo né piantato né curato. Ma forse l'immagine che meglio dice quello che penso è quella dell'eredità. Il lettore è un erede, parente o amico di un morto, che apre i sigilli ai beni che quello gli ha lasciato in dono. E tuttavia leggere non è un'operazione del tutto gratuita. Come il vero erede non è l'abile, magari truffaldino, catturatore dei beni lasciati dai morti, ma colui che quell'eredità fa sua con rispetto, con amore, con partecipazione e all'insegna della continuità, così il vero lettore è colui che apre un dialogo con l'autore, che si appropria del messaggio, o che lo discute e anche lo combatte e lo respinge, ma che non resta indifferente. I libri sono le voci immortali dei morti che stanno ancora con noi, leggerli significa compiere l'azione miracolosa di farli tornare ogni volta in vita. Leggere significa evocare quelle voci, sentire presenti quegli uomini lontani, ascoltare le loro ragioni, partecipare delle loro ansie, delle loro emozioni e delle loro gioie, delle loro speranze fallite, dei loro affetti e le loro follie, e stabilire con loro un legame, una religione laica di vivi e di morti, che è il senso vero di questo fragile e meraviglioso tessuto che è il cammino della società e della cultura umana. Chi non partecipa del colloquio in questa grande famiglia dei presenti e degli assenti, dei vicini e dei lontani, dei vivi e dei morti, dei grandi e dei piccoli, è un escluso. Chi non legge è «come una immagine di marmo», scrisse a fine Quattrocento Michelagnolo da Volterra, umile trombetto del Comune di Pisa.
  
Non era certo un'immagine di marmo Francesco Petrarca. Quando nel 1337 realizzò il sogno di una casa appartata a Valchiusa, lasciò la tumultuosa vita della corte papale ad Avignone e si ritirò in una sorta di romitorio con tanti libri, realizzando l'ideale della vita solitaria. È famosa una pagina in cui descrive la sua giornata di Valchiusa, di cui parte importante è la lettura, nel bosco o allo scrittoio, o al focolare.

     Questi uomini rozzi si meravigliano ch'io osi disprezzare le delizie ch'essi considerano beni supremi, e non comprendono né la mia felicità né quel piacere che mi dànno altri amici segreti, che da tutte le parti del mondo ogni età m'invia, amici illustri per lingua, ingegno, guerre, facondia; amici non difficili, che si contentano di un angolo della mia modesta casa, che nessuna mia domanda rifiutano, che premurosi mi assistono e non mi dànno fastidio, che se ne vanno a un mio cenno e richiamati ritornano. Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v'è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m'insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d'agricoltura, d'eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge. E di tanti doni, piccolo è il premio che mi chiedono: di aver libero accesso alla mia casa e di viver con me.

     I libri sono vere e proprie persone con cui Petrarca dialoga, ride, scherza. Albertino Mussato, il grande umanista della generazione di Dante, aveva fatto di più: come egli stesso ha lasciato scritto, con Virgilio ci è andato persino a letto insieme. Ma torniamo a Petrarca: dei libri proprio non poteva fare a meno. Una volta l'amico vescovo Filippo di Cabassole va a trovare il poeta e riesce a indurlo a fare una promessa a scatola chiusa; Petrarca accetta e quello si fa dare la chiave dell'armadio dei libri, lo serra e gli impone di prendersi una vacanza di dieci giorni. Petrarca sta al gioco, ma il primo giorno prova una noia tremenda, il secondo gli viene il mal di testa, il terzo ha già un lieve movimento di febbre. Filippo gli restituisce le chiavi.
  
Il motivo del dialogo lettore-libro prosegue poi ben oltre Petrarca per tutto l'umanesimo Nell'atto di donazione della sua biblioteca alla città di Venezia (1408) il card. Bessarione presenta i libri come persone vive, che agiscono sulla scena della storia: "vivono, conversano, parlano con noi, ci ammaestrano, ci istruiscono, ci consolano, ci mettono davanti agli occhi come fossero presenti cose lontanissime dalla nostra memoria". È notissima la lettera del 10 dic. 1513 con cui Machiavelli descriveva a Francesco Vettori la sua giornata gaglioffa in campagna: vagabondare per i boschi con un libro leggero sotto braccio e all'osteria giocare a cricca e tric-trac; ma finalmente la sera tornare al colloquio coi suoi autori:

 Venuta la sera, mi ritorno a casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro.

 Alla fine dell'umanesimo il libro è ancora il compagno inseparabile dell'intel-lettuale. Michele de Montaigne ce ne ha descritto tutta la poesia. Negli Essais, ci dicono le concordanze, la parola 'libro' torna 167 volte. I libri affollano le stanze e le pagine del Montaigne con la loro presenza affettuosa e assidua. Mille volumi lo attorniano o lo assediano. Non sa viaggiare senza libri nella valigia. Spesso, come noi facciamo oggi con l'onda quotidianamente crescente della bibliografia, Montaigne non li legge, ma li sfoglia.
  
Egli affetta, direi persino ostenta continuamente la sua multiforme ignoranza. La scienza che parla solo ai dotti è vana e superflua, fa parte degli accessi di febbre del nostro spirito. «Se avete scambiato uno Scipione per l'altro, che cosa vi resta da dire che abbia valore?», si chiede ironicamente. A Montaigne i libri  servono non tanto d'istruzione, quanto di intrattenimento.
  
Son venuto parlando di dialogo, ma almeno per certi tratti avrei dovuto dire conversazione, anzi conversatio, perché la parola latina dice più di quella italiana, indicando sì il dialogo verbale, ma altresì l'intrattenimento e la convivenza. Il più petrarchesco dei sentimenti del Montaigne nei confronti dei libri emerge nel trattato Di tre commerci. Dichiara Montaigne di essere nato alla vita sociale e di preferirla alla solitudine. Tolti i rapporti ufficiali, pubblici e civili, tre commerci gli sono congeniali: quello con le donne, con gli amici e coi libri. Il primo ha i suoi rischi e comunque appassisce con l'età, il secondo ha lo svantaggio della rarità. Ma quello coi libri «è ben più sicuro e più nostro» (questo «più nostro» evoca naturalmente il machiavelliano «che solum è mio»).

    Cede ai primi gli altri vantaggi, ma ha per sé la durevolezza e la facilità della sua pratica. Esso costeggia tutto il mio percorso e mi assiste dappertutto. Mi consola nella vecchiaia e nella solitudine. Mi scarica dal peso di un ozio noioso; e mi libera in ogni momento dalle compagnie che m'infastidiscono. Smussa le punte del dolore, se questo non è addirittura eccessivo e dominante. Per distrarmi da un'idea importuna non ho che da ricorrere ai libri; essi mi attraggono facilmente a sé e mi sottraggono ad essa. E tuttavia non si ribellano vedendo che li cerco solo in mancanza di quegli altri piaceri più reali, vivi e naturali; mi accolgono sempre con lo stesso volto.

    Confessa altrove Montaigne di essere immune dall'eroico moralismo che a noi è stato inculcato da bravi maestri: quello di non lasciare mai a mezzo un libro. Dice Montaigne senza vergogna che se un libro non gli piace lo lascia tranquillamente per un altro. «Se qualcuno mi dice che è un avvilire le Muse il servirmene di gioco e di passatempo, egli non sa, come me, quanto vale il piacere, il gioco e il passatempo». Se non l'avessimo capito, Montaigne ce lo dice ancora più chiaro: «Studiai da giovane per ostentazione, poi un po' per istruirmi; ora, per divertirmi». L'immagine che Montaigne stesso ci ha lasciato di se stesso nella sua biblioteca ha una grande forza simbolica. In un'Europa dominata da violenze e guerre, lontano dalle fastose corti e dai lavoratori con la testa china sulla loro fatica si erge una torre, appollaiata su un'altura; al terzo piano della torre c'è la biblioteca di Montaigne: essa occupa una stanza rotonda con un solo lato diritto, dove sono sistemati un tavolo e una sedia. Seduto Montaigne guarda la sua biblioteca, che curvandosi si offre tutta alla vista in un solo colpo d'occhio, schierata su cinque file. Accanto c'è un vano grazioso con un camino da accendervi il fuoco l'inverno. Lungo il perimetro della stanza, allo stesso livello, c'è la possibilità, che il signore accarezza, di costruire due gallerie, per farvi delle passeggiate: giacché i pensieri dormono, se li si mettono a sedere. Tre finestre dànno un'ampia e libera prospettiva. Fuori soffia il vento.

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Il libro è una persona. Si ascolta la sua voce leggendolo. Ma a lui si parla anche. Il luogo deputato di questo dialogo è costituito dai margini. In ogni pagina c'è un pieno e un vuoto: il testo e il margine. Lo specchio della scrittura contiene la parola del libro. Ma il margine vuoto non è il nulla, è uno strumento esso stesso. Il margine è lo spazio della mediazione, della critica e del dialogo: uno spazio che appartiene al lettore. Ho detto che appartiene, ma avrei dovuto dire che apparteneva al lettore. Al sommo della porta di una biblioteca italiana ho letto di recente queste parole di colore oscuro: «Sottolineare, glossare, annotare i libri di pubblica consultazione è segno di profonda inciviltà. Ricordalo». Poi seguivano minacce di vario tipo. Nella realtà effettuale in Italia chi postilla i libri qualcosa rischia, ma non molto, stante anche la distrazione generale. Ma in Germania non sfuggirete, sarete cacciati per sempre da quella biblioteca, esposti alla pubblica riprovazione e forse pure bruciati vivi. Ma se non volete essere bruciati vivi, basta che vi limitiate a postillare i libri di vostra proprietà o a postillare fotocopie o a fare un dialogo indiretto scrivendo non sul libro, ma su vostri fogli a parte.
  
Raccomandava Agostino a Petrarca nel Secretum di imprimere a passi importanti degli autori certe note e segni, che fungessero da uncini della memoria. La tecnica dei notabilia e delle postille ha per Petrarca un valore terapeutico, serve a ritrovare prontamente le medicine contro l'ira e le altre passioni, e principalmente contro il male più grave di tutti, l'accidia. L'accidia è la tristezza mortale, che può portare alla disperazione, il male senza ritorno e senza possibilità né di redenzione né di perdono. Io resto sempre esterrefatto e incredulo quando torno a questo passo straordinario del Secretum: vorrei che se lo inchiodassero nella mente tanti giovani e non giovani che oggi come ieri Petrarca vengono attanagliati, spesso senza ragione e senza colpa, da questa terribile malattia dell'animo. Quando pare che non ci sia più luce e speranza, aprite i vostri libri cari, leggeteli e rileggeteli, attaccattevi ad essi come il naufrago al pezzo di legno. Non so se la medicina sia veramente una panacea, ma se servisse a salvare anche uno solo, sarebbe una cosa grande.
  
Ma le forme di lettura sono infinite. Si può leggere per studio e per piacere. Si può leggere distrattamente e intensamente. Non ci sono regole per la lettura. Se dovessi raccomandarne una, sarebbe quella di leggere lentamente. Una volta mi è stato mostrato il libro di un americano che in oltre 400 pagine esponeva il suo metodo per leggere il più rapidamente possibile. Risposi a chi me lo esibiva con gli occhi lustri di piacere, che col tempo necessario a studiare e imparare quel metodo poteva più utilmente leggersi una piccola biblioteca. Del resto ognuno si escogita, in caso di bisogno, le scorciatoie: una vecchia zia, avida lettrice di romanzi rosa andava velocemente con la testa da sinistra a destra e dalla cima al fondo della pagina quando il dramma e le situazioni intense precipitavano. Qualche mio compagno di adolescenza saltava le lunghe descrizioni di paesaggi nei romanzi di Salgari. Non posso affermarlo per testimonianza diretta, ma mi è stato detto di un tizio che legge le pagine regolarmente stampate con righe orizzontali scendendo in diagonale dalla sinistra in alto verso il basso a destra! A questo punto direi che è meglio non far circolare troppe informazioni sul bustrofedismo etrusco... In disuso parrebbe oggi la lettura a due di bocche tremanti raccontata nel quinto dell'Inferno, come chiunque può vedere girando per muretti e per panchine di giardini pubblici. Io devo confessare che, quando sono sovraccarico di estratti di colleghi inviati in dono, ne leggo le note e non il testo.      
    E un amico, che recentemente mi ha chiesto libri da leggere durante una noiosa degenza in ospedale, era così affascinato dalla lettura della vita di Federico II di Kantorowicz, che, portato dal furore di arrivare in fondo, saltava nella lettura pagine e fascicoli interi. Perché porre limiti ai metodi personali? Del resto anche la mia preferita, cioè la lettura lenta, potrebbe essere accusata di essere più che una lettura, una ruminazione. Non lo nego, il mio ideale è quello della mucca tranquilla che alla sua greppia rimastica il già mangiato. Meglio se intorno c'è silenzio. Ma anche il silenzio non è obbligatorio. C'è chi legge con la musica accesa, Dante era capace di sprofondarsi insensibile al chiasso dei fiorentini. Basta entrare in una biblioteca italiana, anche nazionale: impiegati felici ciarlano dei loro figli e delle loro vacanze, o tutti arrabbiati trattano a gran voce di diritti e mansionari. E ciò non impedisce alla maggior parte dei lettori, specie agli studenti, di leggere; solo a una minoranza saltano i nervi.
  
Anche i luoghi della lettura possono essere diversi, praticamente tanti quanti i luoghi dell'orbe terraqueo, ognuno si sceglie il suo: c'è chi legge bene in poltrona, chi a letto, chi a tavolino, chi in treno, chi in cima alle montagne e chi sulla spiaggia, chi si sente coinvolto dalla sacralità delle chiese e chi attratto dalla solitudine dei luoghi di decenza; e c'è perfino una minoranza che, come testé si è accennato, legge in biblioteca.
  
È evidente che la lettura di cui ho parlato finora è una lettura solitaria e silenziosa. Ma esiste anche una lettura a voce alta, che si fa in comunità o davanti a un pubblico. È una lettura in parte sofisticata e artificiosa, che deve molto all'abilità del lettore, alla sua capacità di legare teatralmente silenzi e suoni, di alzare e abbassare la voce, di interpretare il ritmo, di dare l'intonazione o di tradurre il riso e il pathos. Ma anche questa lettura può avere una sua pratica semplice di grande intensità ed effetto. Io non sono un abile dicitore; ma recentemente in un incontro pubblico ho letto un intervento che avrebbe dovuto pronunciare un'amica. Ma l'amica si era ammalata e così mi sono portato dietro i suoi appunti. Chi conosceva l'autrice ha detto che le sue parole e il suo stile risuonavano attraverso la voce di un altro con una strana suggestione evocatrice. In casa di un vecchio professore romagnolo si dava pubblica lettura, a tavola, delle lettere degli amici, ed era l'immagine dell'amico che come lo Spirito Santo scendeva sulla famiglia. Del resto così si faceva nelle antiche comunità cristiane con le lettere inviate dagli apostoli, così si è continuato a fare anche in età moderna presso società segrete di opposizione politica.
  
Mio padre, poco più che alfabeta, leggeva in casa, di sera, alla nostra famiglia e a quella dei vicini, i romanzi popolari e la Gerusalemme Liberata. Non dimenticherò mai il fascino della poesia da lui letta marcando gli accenti e fermandosi alla fine del verso:   

                   ed ecco in sogno di stellata veste                     
                                cinta gli appar la sospirata amica.

 Come credo nessun bambino può dimenticare la favola letta dalla mamma prima della buonanotte. Non per nulla la lezione accademica è ancora oggi, come dice la parola, prima di tutto una lettura: si deve preliminarmente leggere un autore e poi spiegarlo, commentarlo, storicizzarlo. Non per nulla in Italia e in Germania resta tenace una tradizione per cui il primo rapporto con Dante deve essere la lettura della sua parola: leggerlo ad alta voce davanti a un pubblico e creare la magia di un rito d'amore collettivo, realizzato attraverso il risuonare della parola.

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Ho parlato finora del libro come emblema e scrigno della verità. Il libro è la verità, la lettura è l'accesso alla verità, o se non piace questa parola mistica, al sapere. È noto che nel mondo medievale il libro è diventato immagine di pressoché tutto: il volto umano, la mente, l'anima, la vita, il cielo stellato, il mondo, la natura. Dante usò la metafora del libro della memoria e quella potente della realtà tutta come fascicolo di libro in cui è racchiusa la contingenza. Nelle ultime battute del Paradiso Dio stesso è presentato come una specie di libro compatto e sigillato in cui tutto il mondo è vincolato in unità dall'amore, quel tutto che per l'universo si spande, si apre, si scioglie e si manifesta, come si spande il contenuto dei volumi quando si aprono e si svolgono pagine e quaderni. Per arrivare al sapere, che è una felicità a cui tutti gli esseri umani naturalmente aspirano, occorre dissigillare il libro e leggerlo. Secondo san Giovanni nell'Apocalisse per conoscere il libro delle terribili verità bisogna prenderlo e divorarlo: che è un modo forte per dire che la lettura deve trasferire dentro di noi i contenuti del libro letto, farli diventare sangue del nostro sangue, linfa della nostra vita e del nostro pensiero.
  
Ma, entro questa concezione ritualistica del libro e della scrittura, è sempre esistito - ed è a noi più vicina di quanto non si creda - l'idea che alcune scritture non devono essere lette, o devono essere lette solo da pochissimi. Se si gira per le pievi della Lucchesia, non sarà difficile trovare epigrafi metriche latine che sono collocate così in alto sulle torri campanarie e in posizione così scomoda, da apparire evidente che esse sono state scritte a memoria degli uomini e a gloria di Dio, ma non per essere lette dal comune viandante, anzi con l'intento preciso di essere sottratte ad esso. Perché i libri religiosi del Mar Morto, che con i loro sconvolgenti segreti potrebbero cambiare tutta la storia dell'Occidente, erano sepolti in caverne inaccessibili? Forse perché gli Esseni volevano così salvare i loro libri sacri da una persecuzione politica e quindi dalla distruzione? È possibile, ma non si può escludere che la segretezza fosse intrinseca alla natura dei testi, che dovevano gelosamente tramandare la memoria religiosa e quindi l'identità del gruppo sociale. Del resto perché, nella nostra epoca di trionfante storicismo e scientismo, ancora molti misteri circondano quei testi e l'accostamento ad essi è consentito solo a pochi? Né si pensi che il fenomeno della segretezza sia limitato agli scritti esoterici religiosi. Nel Settecento la Repubblica di Lucca non consentì a Ludovico Muratori di accedere alle Cronache del Sercambi né di pubblicarle nei Rerum Italicarum Scriptores. Preferirono, i cittadini di una terra in cui l'erudizione aveva visto momenti di grandezza, essere fuori dalla storiografia piuttosto che mettere a repentaglio la loro identità consentendo ad estranei di leggere il libro dove era depositata la loro memoria collettiva. Ci sono dei libri che l'arroganza del potere non vuole che si leggano. Il buon Augusto fece distruggere le poesie d'amore di Cornelio Gallo, amico caduto in disgrazia. Tutti sappiamo come nella Russia sovietica non si potessero leggere le opere di Trotskij; io ho visto nella Polonia anni '70 girare dattiloscritto il samizdat della Fattoria degli animali di Orwell. Ma pochi forse sanno che analoghe interdizioni ha sofferto il Liber sine nomine di Francesco Petrarca nello Stato Pontificio ancora nell'Ottocento. Ci stracciamo le vesti perché gli arabi hanno condannato a morte Salmon Rushdie e i suoi Versetti satanici e ci dimentichiamo che i fiorentini fecero bruciare il Vocabolario cateriniano perché la lingua di santa Caterina da Siena poteva mettere in crisi l'imperialismo linguistico della città capitale. Come ci dimentichiamo che l'Index librorum prohibitorum della Chiesa, indice di libri di cui la Chiesa vietava la lettura ai suoi fedeli, ha imperversato per 4 secoli.

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Forse dovremmo allora cominciare timidamente a convincerci che la lettura è tutt'altro che attività effimera e inferiore rispetto alla stabilità e alla nobiltà della scrittura. Nella storia del movimento operaio e più in generale nel movimento di emancipazione dei paesi poveri e delle classi deboli è frequente incontrare singole persone che si proiettano in una lettura forsennata di tutto quanto è possibile come strumento di liberazione o di lotta o anche solo di personale ascesa sociale: gente che programmava di alzarsi nel cuore della notte per dedicare ogni giorno tre ore alla lettura prima di andare al lavoro e poi altre quattro la sera, a fine lavoro. E gli eroismi dei rivoluzionari e delle maestrine alfabetizzatrici dei proletari. E gli orgogli di gente semplice, derisa da borghesi di sinistra con la puzza sotto il naso, per aver messo insieme e aver letto tanti libri.
  
Non c'è dubbio che la diffusione del libro e della lettura sia stato uno strumento di crescita in tutte le democrazie. Io stesso ho scritto quasi venticinque anni fa che costruire una biblioteca è un contributo alla realizzazione della giustizia: e non rinnego quel che ho scritto. Ma ora forse siamo a un nuovo punto di crisi. Ancora una volta vorrei ricorrere, per spiegarmi, all'aiuto degli autori della tradizione umanistica. Al tempo del Petrarca, metà Trecento, agli inizi dell'umanesimo, che è quanto dire agli inizi del mondo moderno, libri ce n'erano in Europa, libri antichi e libri moderni. Chi vuole attenuare o azzerare il valore delle scoperte che gli umanisti hanno fatto di autori antichi, sostiene che gli umanisti non hanno scoperto un bel niente, che tutti quegli autori che essi dissero di avere scoperto si trovavano nei monasteri di Bobbio e di San Gallo, di Pomposa e di Fulda, e che monaci ascetici li avevano letti e trascritti. Petrarca, come già Luciano, dichiarò che l'accumulo di libri è una insensata vanità se quei libri non vengono letti, che le ricche biblioteche di persone facoltose e ignoranti non biblioteche sono ma prigioni: per Petrarca occorreva liberare i libri da quelle prigioni, farli leggere, e attraverso la lettura farli entrare nella testa degli uomini. L'immagine piacque a Poggio Bracciolini che quando ritrovò un Quintiliano integro a San Gallo lo descrisse come un prigioniero malconcio, prossimo alla morte: egli si vantò di averlo salvato e subito ne inviò copia agli amici in Italia perché a loro volta lo facessero copiare e circolare.
  
Al crepuscolo dell'umanesimo l'inglese Tommaso Moro, il martire della coerenza e della saldezza morale, disegnò contro l'insopportabile e inamovibile ingiustizia della sua società, un'isola felice nella quale tutti gli uomini fossero uguali e felici, l'isola di Utopia. In quell'isola immobile, destinata a restare sempre uguale nella sua perfezione senza storia, Moro immaginò che ci fossero anche biblioteche pubbliche, aperte a tutti. Ma un brillante studioso moderno ora morto, che fu anche proprietario di una grande casa editrice, mosse su questo punto un rilievo sottile. Aprendo le biblioteche in Utopia Moro avrebbe aperto il varco al suo scardinamento. Perché i libri sono veicolo di idee, buone e cattive, e quindi sono il veicolo dell'intelligenza e della critica, sono la materia prima che rimette in discussione l'uomo e gli ordinamenti sociali.
  
Oggi abbiamo abbattuto tutti i miti, ma non l'ingiustizia. Abbiamo fatto davvero un bel lavoro! Abbiamo combattuto tutte le censure e ci siamo ritrovati con profeti di violenza, con pornografia illusionismi e mali endemici dilaganti, che accerchiano e insidiano noi e i nostri figli. Dobbiamo tornare alla censura? Non so rispondere. Emotivamente ed egoisticamente sarei portato a dire sì, a dire che dalla malattia bisogna difendersi e che una società matura dovrebbe trovare i mezzi democratici per una crescita equilibrata entro la legittimità dell'autodifesa. Ma come storico e come educatore sento un po' la vergogna di appartenere a una società sazia e senescente che si accinge a difendere i suoi privilegi con la repressione. Fra i due mali mi è parso di trovare un conforto nell'Ulisse di Joyce, là dove l'approdo del protagonista in biblioteca costituisce il parallelo del passaggio dei raminghi itacesi attraverso lo stretto di Messina, fra Scilla e Cariddi.
  
Sì, credo che sia o dovrebbe essere così: un'autentica società aperta deve porre al centro di se stessa il libro, la sua libera produzione, la sua doverosa conservazione e la sua libera lettura, senza paure: non può non rischiare; ma, come l'accorto Ulisse, deve trovare il modo di passare senza farsi mangiare i cari compagni dai mostri, deve riuscire a passare indenne tra il pericolo mortale delle infezioni che possono aggredirla e l'altrettanto mortale pericolo della salute imposta con provvedimenti di polizia.

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