LETTERA D'UNA PERSONA QUALUNQUE La Pasqua per me è ormai una tradizione consolidata da lunga data trascorrerla a letto, non nel senso che qualcuno potrebbe maliziosamente immaginare, se dovesse essere un fans dei personaggi de "Il Grande Fratello" - in particolare di una che porta il mio cognome, che ha esibito una performance tale da indurre ad oscurare le telecamere per evitare che si recasse offesa al senso comune del pudore -, in quello invece che, in occasione della ricorrenza del festeggiamento della resurrezione di Gesù Cristo, vengo colpito puntualmente dall'influenza. Subito dopo sposato, alla sofferenza insita in tale stato di malattia, dovevo aggiungere anche quella di convincere veramente, sia mia moglie che sua mamma, di non poter trascorrere insieme la festa religiosa per ragioni di salute: confesso che non è stato mica facile vincere la diffidenza che non si trattasse invece di una simulazione dovuta ad un mancato gradimento della compagnia! Per fortuna arrivò una prova che dissolse ogni ombra di dubbio: accadde in occasione della Pasqua trascorsa in Olanda nel 2002: anche quella volta, in un posto insolito e remoto, l'influenza mi raggiunse, non lasciandosi sfuggire l'occasione di confermarsi la mia compagna fedele della Santa Pasqua. Così mia moglie ebbe a constatare e commentare, paradossalmente con sollievo: "allora è proprio vero amore che non riesci a fare una Pasqua senza influenza!"; ed in quella circostanza beneficiai anche di qualche attenzione e coccola in più. Come ho trascorso allora la Pasqua di due giorni fa? Non dubitate, anche questa a letto in uno stato semi comatoso, e così anche la pasquetta. In questi giorni ho riflettuto sullo stato di sofferenza delle persone che rimangono degenti a letto a lungo per malattie gravi, o per vecchiaia estrema, e quindi sul calvario (senza mancare di rispetto a quello vero di Gesù) sofferto da mio padre negli ultimi mesi della sua vita. Per fugare tali tristissimi pensieri, stamattina ho preso e sono andato subito al lavoro, che è la migliore terapia per guarire da certi stati d'animo negativi, aiutato anche dalla vista di meravigliosi paesaggi di laghi (Maggiore e d'Orta) e monti. L'aria oggi era fredda e ventosa, soprattutto quella che spirava all'imbocco della Valle Anzasca, che precipita giù dopo aver lambito le coltri di neve del Monte Rosa. Per quanto distante mille chilometri, l'ho sentita simile a quella che soffia a Banzi, che faceva (e penso faccia tuttora) intabarrare come un cosacco il mio amico benzinaio, che si limitava a salutarmi dalla sua guardiola, senza affacciarsi fuori, quando vi passavo davanti per le mie inebrianti camminate tra le folate gagliarde del vigoroso Borea, che sfogava la sua esuberanza divertendosi a scarruffarmi i capelli (col tempo si è divertito sempre meno) ed a sospingermi come un bambino che recalcitra mentre va a scuola. Quel vento scalmanato era imprevedibile, dirigendosi in tutte le direzioni, spesso verso la piazza attraversando la mia via (Garibaldi), strapazzando panni appesi, scuotendo i miseri alberelli, che non opponevano minimamente resistenza a fargli inchini in segno di rispetto e riverenza alla sua prepotenza. E talvolta, fugacemente, tra quelle folate di vento facevano una breve comparsa anche le nostre mamme, col fazzoletto in testa ed il pesante scialle sfrangiato di lana marrone sulle spalle, per recarsi a farsi visita l'una l'altra nel vicinato, allo scopo di scambiarsi un pezzo di crescente per lievitare il pane, oppure per intrattenersi qualche ora a tenere compagnia a qualche persona anziana, approfittando nel frattempo a fare ricami con l'uncinetto, oppure calze, maglie, maglioni e copriletti con i ferri. Come saranno state gradite, quanto conforto avranno recato le visite che mia madre andava facendo a vecchiettine come zia Margherita, zia Rosa, zia Carmantonia, zia Rosaria, zia Filomena, zia Chiara; quanta sensibilità umana si manifestava in quelle piccole missioni compiute nelle lunghe giornate di freddo invernale, quando i vecchi erano costretti a rimanere segregati in casa, intorno ad un misero braciere che produceva forse appena un po' di sollievo ai geloni ai piedi, mentre con più probabilità l'effetto di far acquisire la sembianza di salsicce alle gambe. Quelle visite invece, mia madre durante la sua vecchiaia non le ha avuto ricambiate più da nessuno, anzi, è successo che una volta, d'estate, lei si sia avvicinata a qualche uscio di casa sul marciapiede per intrattenersi un po' in cerca di compagnia, ed invece la giovane padrona di casa, burberamente, per scacciarla, abbia buttato dell'acqua dal balcone, brontolando a viva voce: "ma che, stiamo facendo qua l'ospizio?". E mia madre non si accostò più né lì, né da nessun'altra parte.
A mia madre (insieme a mio padre) ho dedicato il mio primo libro di poesie. Una copia si trova adesso anche nella casa di quella signora che aveva lanciato quella scrosciata d'acqua a mia madre sulla sua testa, senza sapere, tuttavia, se abbia mai letto una sua pagina. Stasera - miracolosamente quasi, perché l'e-mail l'ho recuperata per fortuita circostanza dallo spam - scopro però che c'è stata una persona che, guarda caso, proprio la domenica di Pasqua, mentre mi angustiavo a ricordare mio padre nel suo letto di sofferenza, anche lei era sintonizzata in un certo senso con me, leggendo ciò che avevo scritto per lui e per mia madre, inviandomi poi una lettera davvero molto bella, che mi dà ragione e conforto del coraggio avuto nel manifestare i miei sentimenti intimi, avendone ulteriore prova che le parole usate interpretano i sentimenti migliori di non poche persone. Tale lettera ha poi il pregio di essere sicuramente sincera perché, per quanto, senza riuscire a riconoscerlo, abbia intuito comunque essere il suo autore un banzese finito lontano anche lui come me, egli è una persona qualunque, insospettabile, pertanto, di mendacità, ipocrisia o convenienza per ciò che ha scritto. Che mi si consideri pure vanesio, non mi interessa (per inciso faccio notare che questo sito è comunque mio personale), ma non posso non compiacermi di pubblicare - omettendo il nome del mittente per rispetto della privacy - tale lettera, nella quale vengono rievocati alcuni del patrimonio più caro e prezioso di ricordi di tanti di noi, "asciugando" peraltro con essa anche la secchiata d'acqua brutalmente buttata addosso a mia madre ed a qualche altra vecchietta. Nei giorni scorsi, facendo lavori in taverna, che hanno comportato svuotamento di mobili, mia moglie mi ha chiesto cosa pensavo di fare delle centinaia di copie del libro "Una madre ed un padre ancora". Abbi pazienza, le ho risposto, perché non intendo buttarli via, né tirarglieli dietro a nessuno. Arriverà il tempo in cui, oltre a Francesco e Lina (questa non è né mia sorella, né quell'altra Lina del "Grande Fratello"), avranno l'opportunità di provare "il piacere di piangere", leggendo le mie poesie, chissà quante altre persone: occorre solo non avere fretta. Certamente, se i miei scritti fossero stato un parto della fantasia, ad esempio, di quella Carcuro del citato "Grande Fratello", nel giro di qualche mese sarebbero potuti diventare un best seller: bastava che la Marcuzzi avesse declamata una poesia ed il successo si sarebbe prontamente affermato. Ma io sono un Carcuro diverso, da tutti i Carcuro esistenti sulla Terra, ed allora debbo avere molta, tanta, infinita pazienza. Quando leggo però una lettera come quella di Francesco, guardo con rispetto le pigne del mio libro di poesie, consolandomi nell'apprendere che la mattina di Pasqua, senza saperlo, insieme a me, c'era anche lui che versava qualche lagrima per "mia madre e mio padre ancora". Grazie Francesco per la tua lettera da persona qualunque.
"Caro Antonio Carcuro, ti scrivo queste mie parole per dirti quanto sono felice nel leggere il tuo libro di poesie "Una madre e un padre ancora", poesie che, ti sembrerà strano, a finirle non riesco mai perché, appena inizio, mi esplode dentro una tempesta di emozioni e sentimenti che a malapena riesco a contenere e così io piango e non posso più continuare a leggere. Piango perché ogni parola entra dentro me e mi riporta immediatamente al tempo che noi bambini e tu più grande giocavamo liberi e felici in mezzo alle stoppie sotto il sole cocente di agosto e bere alle fontane l'acqua fresca e scintillante, piena di vita, pura come un diamante. Momenti
ormai andati che tu hai avuto il dono di fissare nelle
parole delle tue bellissime poesie. Ogni volta che apro il
tuo libro di poesie sento in me il mio bambino interiore che ride e
piange, che, divorato dalla nostalgia per la terra e l'odore dell'aria
di Banzi, si strugge nel pianto.
Qualcuno, con stupida, banale ironia, forse potrebbe trovare strano che Francesco dichiari la sua felicità di piangere. Ebbene, posso affermare anch'io che in certi momenti di sublime felicità viene da piangere: accadde ciò anche a me nientedimeno che il giorno in cui mi sposai. Alla sera, terminata la festa, quando mi ritrovai finalmente a casa col mio agognato amore, scoppiai in un pianto irrefrenabile di gioia, che impiegò non poco per quietarsi.
Esso fu però solo liberatorio e, ve lo assicuro, non rovinò minimamente tutto il bello che venne dopo. |
25 marzo 2008