NON VORREI MAI PIU' RITORNARE BAMBINO
Non
si contano i film e le trasmissioni televisive o radiofoniche che, a gara tra di
loro, si prefiggono di far ridere gli spettatori.
Da non so quanti anni, puntualmente per Natale - Merry Christmas nel 2001, Natale sul Nilo nel 2002, Natale in India nel 2003 - Massimo Boldi e Christian De Sica (quanto mi è nauseante quest'ultimo!) sfornano qualche film che uno, come un babbeo, deve andare a sorbirsi, mangiando patatine e/o popcorn, per ridere, adempiendo quasi ad un rito, il secondo, dopo la veglia della vigilia per la nascita del Bambino.
Io evito di partecipare sia al rito cristiano che a quello melenso cinematografico e, per quanto mi è possibile, anche all'altro ancora di mangiare il panettone che, al massimo, acquisto e faccio fuori precocemente, non con l'intento però di imitare pedissequamente la pubblicità, per quanto simpatica, di Renato Pozzetto, ripreso a sbafarsi anzitempo un sacco di panettoni, bofonchiando a bocca piena: - Natale quando arriva, arriva!
Inoltre, spesso mi scontro anche in famiglia perché non sopporto di dover ridere a comando - un sottofondo di risata ti suggerisce quando devi farlo anche tu, trattandoti come un autentico imbecille - con la trasmissione "Striscia la notizia", e mi impossesso con prepotenza del telecomando per spegnere il televisore.
Confesso, tuttavia, di aver visto qualche puntata della trasmissione "Zelig" - scoperta casualmente a seguito di una citazione fatta di essa in un messaggio di una estimatrice delle mie poesie, il cui nick era, ed è forse tuttora, li7@yahoo.it -, trovandola gradevole, anche se poi, dopo tanti numeri, pure quei personaggi cominciano a stufare, perché infine il troppo storpia.
Uno di essi, Gabriele Cirilli, tra un pezzo e l'altro, era solito intercalare la battuta "Voglio tornar bambino!", sottintendendo con essa la condivisione di quel luogo comune secondo il quale essere bambini significa godere di spensieratezza e felicità.
Quella battuta, però, se pronunciata da quel simpatico attore fa un bell'effetto, non la condivido affatto per quanto attiene al contenuto, sicché, se uno mi dovesse chiedere seriamente, e fosse possibile davvero, di ritornare bambino, io risponderei senza esitazione alcuna che "Non vorrei mai più ritornare bambino", almeno per come si è bambini in questo mondo, per come in particolare lo sono stato io, perché non vorrei ritornare a vivere tutte le paure dell'infanzia: tuoni, lampi, ombre, papunn, zannir, spiriti, munacidd, letterine di Natale, interrogazioni e botte del maestro.
Sapete cosa significava per me l'arrivo della primavera? L'arrivo del terrore per i temporali. In effetti, da piccolo la stagione che preferivo senza alcun dubbio era l'inverno, col suo cielo tranquillo e quieto, che per quanto pieno di nuvole, grigio, nero, non emetteva mai alcun rumore minaccioso, sicché io potevo non temere niente, non preoccuparmi di scrutare se le nuvole annunciassero l'arrivo del temporale o meno: ero sicuro che anche lui, come lo scoiattolo, era andato in letargo.
Ma quando le nuvole assumevano una diversa connotazione con l'arrivo di marzo, ritornava in me l'apprensione di qualche improvviso temporale ed allora la strada non era più un luogo tranquillo e sicuro di gioco, dovendo stare all'erta che qualche nuvola lontana non scoccasse a tradimento qualche tuono.
In tal caso dovevo battere in rapida ritirata a casa, sperando di trovarla aperta e con dentro mia madre. Rimanevo immobile, quasi senza respirare, infilandomi possibilmente a letto, completamente sotto le coperte, anche quando facesse caldo, madido di sudore, finché i tuoni non fossero diventati un flebile brontolio lontano.
Certe volte i temporali erano davvero terribili, il cielo sembrava diventato come un enorme tamburo sul quale si rovesciavano enormi massi che rimbombavano tremendamente, come che dovessero disintegrare ed annientare il mondo; a volte, invece, sembrava di ritrovarsi in un campo di battaglia dove venivano sferrati dei colpi di scure, simili a quelli che mio padre dava ai tronchi di legno con l'accetta, quando, colpiti al centro, si spaccavano in due esatte metà, ma molto più potenti. Allora era come aspettare di veder crollare addosso la casa, od almeno schiantarsi sul pavimento una trave del solaio, ed ogni attimo era uno spasimo di terrore.
Una volta accadde che mia madre era anche lei in campagna, allora ci andammo a rifugiare dalla zia accanto. Senonché lei aveva più paura di noi e, ad ogni lampo o tuono, si faceva il doppio segno di croce sul volto, producendo quel gesto l'effetto di esaltare ancora più il mio terrore. Per di più non potevo neppure rimanere immobile ed impietrito, perché aveva il tetto che colava acqua in diversi punti all'interno della casa, ed allora bisognava correre in continuazione qua e là a parare qualche secchio o bacinella per evitare che si bagnassero i letti od altri mobili.
Finalmente poi il temporale finiva, si allontanava, udendosi, sempre più intervallati tra di loro, flebili brontolii di quel mostro orribile che, dopo averci tanto spaventati, sembrava volesse minacciarci da lontano di stare attenti, perché sarebbe ritornato ancora a fare quel gran macello.
Ma intanto era fatta franca ancora una volta, il pericolo era stato scampato, la vita ci era stata ancora risparmiata e, col cuore ritornato leggero, convinti che per il momento il temporale non avrebbe fatto marcia indietro, non si indugiava a riversarsi un'altra volta in strada, per far scorrere le nostre barchette di carta, prima che i rigagnoli della pioggia fossero esauriti: chissà se queste cose, da bambino, non le facesse a Recanati anche un tale Giacomo Leopardi!
Ad un certo punto, perlopiù, ebbi la prova che c'era davvero motivo di avere paura del temporale, perché accadde che, a poche centinaia di metri da casa mia, una persona - un tale Loguercio, agricoltore di Genzano di Lucania, di cui ho conosciuto successivamente il figlio Nicolino, venuto a scuola con me a Palazzo San Gervasio - rimanesse davvero fulminata. Era il mese di luglio ed egli stava mietendo quando, scoppiato il temporale, mentre andava a cercare riparo, fu colpito da un fulmine, rimanendone ucciso. Provate ad immaginare adesso in quale stato d'animo abbia vissuto ogni successivo temporale! Ed anche tutta la paura che ho provato in seguito, passando davanti alla lapide posta sul luogo della disgrazia!
Memorabile mi è rimasto un episodio di paura da temporale, anche se non ero proprio più bambino, ma adolescente, occorsomi il 13 giugno 1965. Avevo fatto la prova scritta d'italiano per la licenza media a Palazzo San Gervasio e, siccome il servizio di pullman non c'era più, m'incamminai a piedi per il ritorno a Banzi, sperando in qualche passaggio. Ma all'epoca le macchine erano molto rare e quelle poche che passavano non si fermavano, Ad un certo punto, appena imboccato il rettilineo, in piena campagna, comincia ad arrivarmi la minaccia dei tuoni.
Ero solo, il cuore lo sentii sobbalzare in gola dallo spavento: non c'era via di scampo, non avrei potuto trovare riparo da nessuna parte. Mi sarei messo a correre fino allo stremo delle forze per arrivare subito al paese, ma avevo sempre sentito dire che con la corsa si attiravano i fulmini. Allora la paura non sapeva più cosa comandarmi di fare, combattuta com'era tra l'istinto di farmi giungere quanto prima a casa e quello di evitare di fare da parafulmine. Quando mi capita di vedere adesso i marciatori in televisione, che praticamente corrono camminando, mi ricordo sempre di quel giorno, quando anch'io correvo camminando.
Comunque, saranno state tutte le invocazioni fatte ai santi, le preghiere, forse anche qualche promessa di troppo, come quella di Lucia, di rimanere vergine, la notte in cui si ritrovò sequestrata nel castello dell'Innominato, c'è di fatto che i tuoni brontolarono solo lontano da me e non arrivò nessun temporale in quei dieci chilometri di cammino: solo alcune gocce quando fui davanti alla fontana dei monaci, ma oramai avevo fatto ingresso a Banzi ed esse servirono a darmi refrigerio per il sudore di cui ero grondante, non per la fatica, bensì per la paura. E per me quel giorno fu come aver avuto un miracolo da San Antonio.
Poi, alla felicità di aver scampato un così grave pericolo, si aggiunse anche quella di fare più tardi qualche giro sull'autoscontro - forse venuto per la prima volta a Banzi - con a fianco una ragazzina che corteggiavo all'epoca, per avere contatto con la quale, andavo a procurarmi con l'automobilina gli scontri più violenti.
Se il temporale era la maggior fonte di paura, per fortuna limitata ad un periodo, sia pure molto lungo, dell'anno, ce n'erano altre che, sia pure minori, non mancavano mai: ombre, papunn, zannir, spiriti, munacidd, maestro, citati sopra.
Provate ad immaginare certe sere autunnali ed invernali, quando non c'era ancora la luce in casa, oppure anche se c'era rimaneva spenta per risparmiare la corrente, ed il camino era acceso: ogni movimento di persona in casa proiettava ombre sulle pareti, che si allargavano, si restringevano, si deformavano, si accavallavano, si scontravano. Poi il ceppo nel camino lanciava le sue lingue di fiamma, a volte sibilando, gemendo, stramazzando all'improvviso, ruzzolando anche sul pavimento. E tu che stavi assorto ad osservare ogni minimo movimento, ogni rumore, pronto a spaventarti per qualcosa insolita o strana, improvvisa, come lo schianto del ceppo, qualche grido in casa, di mio padre che caso mai esplodeva a litigare con mia madre.
Papunn, munacidd, spiriti, sembravano prendere corpo con quelle ombre, apparire ed agitarsi in casa, pronti ad afferrarti e portarti via, nel buio chissà dove, per farti chissà cosa. Sul letto matrimoniale era appeso un quadro della madonna, ma se era bello, dava serenità ammirarla col suo sorriso ed il bambino in braccio, lo sguardo andava poi sempre a cadere su una siepe scura, che sembrava celare e dare ricovero a tutti quegli esseri strani che mi suscitavano paura.
Qualche volta c'era da andare a prendere anche la legna nel locale di fronte, completamente buio, che fungeva da deposito: chi aveva coraggio di attraversare "la busola"? Mia nipote Rosa, due anni in meno di me, invece non aveva paura di niente: oltre che essere capace di leggere in piedi sulla sedia la letterina di Natale, andava indifferentemente in quella stanza, anche al buio più completo, a prendere la legna, divertendosi pure, se la chiudevamo dentro, facendola rimanere per un po', anzi con la porta chiusa ancora di più.
Certe volte, se mi capitava di rimanere solo in casa, mi faceva impressione sentire anche il ticchettio dell'orologio, per quanto fosse rinchiuso nella cristalliera. Una particolare apprensione esso mi suscitava verso mezzogiorno e mezzo: le due lancette sembravano comporre una persona che si stirava, si metteva in piedi, come se dovessi vederla venire fuori dalla vetrina, saltellare come uno spirito in giro, fare capitomboli, scappare via, trascinandomi dietro.
Infine, quando stavo superando almeno la paura delle ombre, dei papunn e munacidd, ecco arrivare quella del maestro, concreta e temibile davvero per le botte che potevi avere da lui. Un saggio lo ebbi già nei primi giorni della prima elementare, quando ancora dovevo essere assegnato alla maestra Emma Garramone. Si presentò una mattina in classe una signora, additando un mio compagno, Arresta di cognome, come l'autore di un furto di olive nella sua vigna. Carbonella, il mio maestro, non esitò ad infliggergli seduta stante un'adeguata, durissima punizione, martoriandogli le mani con non so quante violenti bacchettate.
Poi, per fortuna, fui assegnato, come dicevo, alla maestra Emma Garramone, che formò una classe mista e per quell'anno non ebbi più motivo di paura delle botte del maestro. Ma, dalla seconda in poi, con una falcidia di bocciati, smaltì il soprannumero della sua classe e dovetti ritornare, purtroppo, ancora con Giuseppe Rigato, dal quale finii per prendere le botte due volte, mentre da mio padre non ho mai avuto uno schiaffo.
La prima volta capitò durante un'interrogazione in geografia in quarta elementare: mi confusi ad indicare i punti cardinali sulla cartina geografica, scambiando ovest con est. Mi si avventò repentino contro, mollandomi due ceffoni, alla stessa maniera dei pugili quando colpiscono con destro-sinistro l'avversario, mettendolo al tappeto: io non finii a terra, ma vidi infinite stelle, ritrovandomi inzuppata addosso tutta la pipì che avevo da fare.
Provate adesso ad immaginare cosa possa essere stato il seguito della scuola, in quale incubo abbia vissuto di poter finire ancora sotto le sue ruvidi manacce. In geografia mi sentivo molto debole, perché non riuscivo a memorizzare tutti i nomi dei tanti monti delle Alpi ed allora quante volte mi svegliai una notte perché dovevo alzarmi presto per ripassarli! Per fortuna quella mattina interrogò Michele Caffio, il figlio dell'avvocato, che glieli snocciolò tutti e si prese un bel dieci. Io però non provai affatto invidia, ma solo sollievo per aver scampato ancora botte.
Per quanto non avessi più a che fare con Carbonella, tuttavia le presi ancora una volta quando facevo la prima media. Come di consueto, mi recai a casa di suo nipote Carlo per prelevarlo ed accompagnarlo a prendere la macchina per andare a scuola a Palazzo San Gervasio (io ero rimasto l'unico compagno di scuola amico, gli altri ragazzi di Banzi gli erano tutti ostili, al punto che questa situazione disagevole probabilmente costrinse sua madre a trasferirlo alla scuola media di Genzano di Lucania), ma mentre stavo aspettando che fosse pronto, fece ingresso improvvisamente suo zio Peppino e, ignorandone tuttora la ragione, mi prese a calci e sberle, buttandomi fuori. Quella mattina non riuscii più ad andare a scuola e me ne ritornai a casa a piangere a lungo.
Sarà un caso, ma stanotte ho sognato il maestro Carbonella che mi chiedeva perché gli avessi dedicato quella mia poesia, dall'omonimo titolo ("Il mio maestro Carbonella"appunto): stavolta si è mantenuto calmo però.
Pur apprezzando il progresso fatto - col dubbio però che forse egli, ad oltre 80 anni, neppure in sogno fosse più in grado di usare la sua forza brutale - mi è sembrato incredibile che non si fosse ancora reso conto di aver turbato l'infanzia di chissà quanti ragazzi: sicuramente di quella mia, se ha contribuito a farmi esprimere qui con convinzione il desiderio di non voler ritornare mai più ad essere bambino.
09 maggio 2004