RICORDI A LUCI ROSSE |
I primi fotogrammi a luci rosse risalgono
nientedimeno che agli anni della scuola materna, rimanendo
impressi nella mia memoria nitidamente ed indelebilmente. La scena si svolgeva
nel cortile della scuola - dove si trova il pino che ho scoperto di recente
essere stato piantato per onorare la memoria di Arnaldo Mussolini - e la protagonista era
una maestra, di cui non ricordo il nome e che, comunque, anche se me lo
ricordassi, mi asterrei ovviamente dal citare.
Che lo facesse intenzionalmente, provandoci anche gusto, non mi
sentirei di sostenerlo davanti ad una corte, tuttavia, sicuramente potrei giurare,
a distanza di quasi cinquant'anni, di averla vista, durante le giornate calde in
cui ci facevano stare fuori, tenere disinvoltamente le sue gambe divaricate, esibendo due cosce enormi, piene di
pieghe ed insenature, che io rimanevo
incantato ad ammirare a lungo.
Se quella vista mi producesse poi un
effetto particolare, se mi facesse provare eccitazione, e per riflesso condizionato
toccare e manipolare anche il pisellino, questo non mi pare di ricordarlo.
Ciò che ritengo probabile è che quella visione, all'epoca, fosse solo motivo di una sorta
di piacere estetico, o tutt'al più estatico, non sessuale, anche perché chi immaginava che,
in fondo da quelle parti, ci fosse quella cosa che successivamente sarebbe stato
oggetto di tanto desiderio, spasimo e tormento?
Nel prosieguo della scuola, elementare e
media, non ho più avuto occasione di simili spettacoli, anche perché l'unica
insegnante di sesso femminile l'ho avuta in prima elementare, e la maestra Emma
Garramone, moglie e collega del famoso, terribile "Cacagnidd", era una
santa donna, ma anche se avesse avuto qualche tarlo nel cervello, non avrebbe
certo potuto osare alcunché: che castigo avrebbe potuto infliggerle suo marito,
se ai suoi scolari, secondo la testimonianza poetica di Antonio Sapio, confermata da mio fratello Domenico,
discepolo anche lui dello stesso maestro, solo per non sapere la differenza
tra somma e totale, li faceva inginocchiare "sop e' tacciodd"?
Spegnendo un attimo le luci rosse, vorrei accendere un cero
in ricordo di questa maestra per ringraziarla della clemenza e dolcezza con cui ci
trattava, dovuta forse al fatto che lei, senza figli, ci considerava tali tutti
noi: com'era bello passare i pomeriggi con lei, a volte facendoci anche
cantare - "mira il tuo popolo bella Signora" è un motivo
religioso che ricordo -, oppure costruire aeroplani e barchette con fogli di
carta, che avrei utilizzato, queste ultime, sui rivoli di pioggia quando
finivano i temporali.
Poi per me è indimenticabile l'emozione che provai quando mi
diede il primo dieci e chissà che i
traguardi che sono riuscito a raggiungere nella vita non siano da attribuirsi
anche alla fiducia che lei mi ha seminato dentro in quell'anno di
scuola!
Riaccendendo le luci rosse ancora a scuola, bisogna saltare a
piè pari, dicevo, gli altri anni delle elementari e della media, per approdare
alla ragioneria a Palazzo San Gervasio. Qui non posso non ricordare la calca che
si formava tra i banchi anteriori per avere il privilegio di poter
osservare la metà delle cosce che la minigonna della professoressa di
stenografia lasciava scoperta mentre accavallava le gambe.
Poi un episodio non posso non ricordare di un compagno di scuola di Genzano di Lucania che, al primo posto della fila di estrema destra, un giorno si lasciò talmente prendere dalle cosce tornite di una bionda professoressa, che non poté trattenersi - così tanto bene era ispirato - dall'approfittare dell'ampio buco, forse fatto apposta, nella fodera della tasca dei pantaloni, per farsi un "convinto massaggio". Mi chiedo però adesso dove finisse il prodotto del suo lavoro e se riusciva ad arrivare ai servizi senza inzaccherarsi strada facendo. Avendo la fortuna d'incontrarlo ancora, proverei a chiedergli se mi può finalmente liberare dal tormento di questo enigma.
Ma, oltre al privilegio del primo posto,
quel mio compagno ne ebbe una volta un altro, ritenendo che l'occasione, più
unica che rara, non gli
sarà più capitata nella sua vita.
Un giorno accadde infatti che, usciti prima
da scuola, ci mettemmo a fare l'autostop per ritornare ai nostri paesi, io
a Banzi, lui a Genzano di Lucania. Le
macchine tiravano tutte diritto e, se una, del padre d'un nostro compagno di
scuola di Palazzo San Gervasio, Italiano di cognome, la vedemmo fermarsi, ciò fu soltanto motivo di
delusione, perché quel gentile signore si limitò a dirci che non ci poteva
dare il passaggio perché, siccome faceva l'assicuratore, ci spiegò che
non poteva esporsi al rischio d'un risarcimento in caso d'incidente, giacché
all'epoca
non esisteva ancora l'assicurazione obbligatoria per le automobili: noi lo
ringraziammo, ed ovviamente tanto, per averci resi edotti di ciò ed è superfluo che
ne riporti qua le espressioni usate, perché non è difficile immaginarle.
Ma lo sconforto sembrò cedere alla speranza quando vedemmo ancora un'altra macchina fermarsi a fianco di questo mio compagno. Senonché si limitò a caricare solo lui ed a ripartire in fretta. La cosa suscitò naturalmente invidia in tutti noi che rimanemmo ancora a piedi. Ma dopo un tratto di strada, stupiti, lo ritrovammo ancora per la strada ad aspettarci, non potendo evitare di chiedergli come mai non fosse già giunto a destinazione. Egli allora, stravolto, ci spiegò che il motivo era che quel conducente, di sesso maschile, era un frocio, e gli aveva fatto delle avance, allungandogli anche le mani (non saprei dire adesso se avesse imboccato subito la scorciatoia del buco nella tasca), cosa che lo aveva sconvolto a tal punto da farlo urlare come un forsennato per costringerlo a farlo scendere subito. Il resto della strada, diversi chilometri, la facemmo tutta a piedi, e non fu l'ultima, perché dovetti ripetere l'esperienza da solo, di notte, guidato dalle stelle e confortato da un cane randagio, dalla stazione di Palazzo San Gervasio a Banzi, ancora una volta durante il servizio militare, ritornando per una licenza.
Non posso non ricordare un ultimo episodio che ha visto ancora protagonista questo mio compagno genzanese, quando volle dare prova al professore d'inglese di conoscerne la lingua rivolgendogli la domanda: -"Teacher, do you like my fish?" (traduzione a beneficio di chi non conoscesse l'inglese: Professore, ti piace il mio pesce?). Il professore, però, non gradì molto quella domanda (ma perché quel mio compagno l'aveva posta a scoppio ritardato, quando invece sarebbe stato più pertinente rivolgerla a quell'automobilista che gli aveva offerto il passaggio, che sicuramente l'avrebbe gradita, rispondendogli"Oh yes!") e per tutta risposta lo cacciò fuori dall'aula, affibbiandogli anche una nota.
Non mi sembra siano successi in ambiente
scolastico altri episodi
degni di essere ricordati, se non che le pareti dei
servizi igienici riportavano un intrigo di tracce delle prove dei ragazzi di
essere diventati fertili e che quando si chiedeva al professore di turno il
permesso di poter andare a gabinetto, assai spesso il bisogno da soddisfare era
particolare.
Quando qualche compagno era, sotto quel punto di vista, più precoce, se ne
vantava subito, cercando ogni occasione per darne prova. Durante la scuola media uno di
essi un giorno, di ritorno da scuola, volle fare un'esibizione in pullman,
sicché si sistemò in fondo e, con la nostra protezione ed incitazione, riuscì,
appena prima di arrivare a Banzi, a farci vedere che il suo laboratorio chimico
ed impianto idraulico erano funzionanti.
Fuori dall'ambiente scolastico, ho conosciuto altri due ragazzi con una particolare vocazione alla pratica onanistica. Uno abitava in località "Piano di Spine" ed una volta mi condusse dentro un pagliaio dove - egli mi confessò - ogni giorno dopo pranzo, prima di riprendere il lavoro, andava ad ispirarsi ed a tenersi in allenamento. Mi viene in mente sempre lui quando cerco di spiegarmi il significato del termine dialettale col quale viene indicata a Banzi l'attività masturbatoria maschile, ovverosia "u' tremon": egli infatti la poneva in essere ansimando e tremando tutto.
C'era poi un altro ragazzo che abitava nei miei paraggi che, sotto questo punto di vista, era un'ossessione: non pensava ad altro. Fu proprio lui a svelarmi che i bambini, diversamente da quanto mi aveva sempre detto mia madre, non nascevano sotto i cavoli, ma che erano frutto di "atti impuri" e quella sera che lo appresi, mi venne un po' il disgusto di me stesso, guardando poi con occhi diversi i miei genitori. Prima di quella rivelazione, non avevo fatto mai caso alla rotondità delle pance femminili: per me c'erano delle donne più o meno voluminose e basta. Egli, invece, era un attento scrutatore e riusciva a capire subito se una donna fosse incinta o meno: "osserva - diceva - quella è prena".
E la cosa che mi è seccata di più, poi, è aver sentito che questo mio amico ha bevuto il latte eccedente di mia madre: probabilmente avrà già approfittato dell'occasione, ciucciando le sue tette già con un secondo fine. Poi faceva il libidinoso mettendosi addosso gli indumenti intimi delle sorelle ed una volta mi propose addirittura attività omosessuali: per indurmi a farlo disse che si sarebbe offerto prima lui a recitare la parte passiva, ma io rifiutai recisamente, sia quella attiva che, ovviamente ed a maggiore ragione, passiva.
Se avessi avuto inclinazioni da pedofilo, mi sono capitate tre occasioni per assecondarle. Una volta una bambina, mentre ero in casa da solo, entrò e si tirò su il vestito e giù le mutandine, invitandomi a tirare fuori il mio uccellino: io, sorpreso ed impacciato, la cacciai via. Un'altra volta d'estate, mentre facevo il manovale con mio cognato, mi allontanai dal cantiere per andare a fare un bisogno all'aperto in campagna. Una bambina aveva capito la mia necessità ed intendeva approfittare per osservarmi, mettendosi alle mie calcagna. Fui costretto a seminarla con una forsennata corsa e ad andare molto lontano per fare il mio bisogno in privacy. Infine, avevo 17 anni, una bambina di 6 mi si avventò d'improvviso addosso e mi volle dare un bacio. Successivamente, ho avuto ancora occasioni d'incontro con questa bambina, divenuta nel frattempo adolescente, e debbo confessare di aver fatto non poca fatica a trattenermi per non abusare di lei, che mi tentava ancora.
Ma l'erotismo paesano si aveva modo di esprimerlo soprattutto d'estate, quando erano più propizie le occasioni di riuscire ad intravedere qualche mutande di donne, non solo appese ad asciugare, ma addosso. Ciò accadeva, ad esempio, durante i lavori che si facevano in strada, che le costringevano a doversi piegare per raccogliere sui marciapiedi pannocchie di granturco, ceci, fave, grano: noi ragazzi non mancavamo di appostarci nella giusta direzione per cogliere l'attimo di quelle visioni, che ci sarebbero poi servite per trarre ispirazione per chissà quanti "tremon".
Io ero comunque fortunato perché avevo diverse sorelle, che avevano delle amiche che venivano in casa e che non potevano mica rimanere per ore sedute con le gambe sempre serrate, sicché non avevo da disperare per beneficiare di qualche opportunità in più per poter trarre ispirazione.
Probabilmente era in campagna che si creavano le occasioni più propizie per buttare qualche occhiata od allungare le mani. Due situazioni le ho vissute da vicino: una come protagonista, un'altra come osservatore, entrambe durante la raccolta del tabacco.
Avevo forse 10-11 anni quando tra i solchi delle piante alte del tabacco una ragazza di diversi anni più grande, mi molestava istigandomi a dire le parolacce. Io ne provavo vergogna e lei mi dava dei pizzicotti per farlo, ma la tortura non servì a niente.
Andavamo a fare la raccolta in territorio di Palazzo San Gervasio, la maggior parte erano donne, e fra di loro due mie sorelle. Qualche volta arrivava in visita in compagnia del padrone "Cicatidd", un tale sbruffone, di cui non voglio citare qua il nome, ma che ho incontrato successivamente a scuola come assistente del professore di francese, il cieco Di Benedetto, con intenti velleitari di conquiste. Egli faceva occhiolini a qualche ragazza ed io, anche se non avevo mai visto prima fare quel gesto, intuivo che con essi manifestava turpi intenzioni, sicché lo curavo a vista, senza perderlo d'occhio neppure un istante, finché, snobbato e deriso da tutte le donne, non si fece più vivo.
Avevano invece sicuramente esito positivo le visite che qualche figlio di padrone andava a fare a casa alle mogli dei salariati. Ho sentito spesso raccontare da mio padre che qualche poveraccio che stava a padrone in qualche masseria, non aveva neppure la possibilità, ogni 15 giorni, di ritornare a casa per il cambio della biancheria intima: - "Te la va a prendere mio figlio", gli diceva, ritrovando poi non di rado la moglie incinta quando finalmente gli veniva concesso di rivederla. Questi però non sono più innocenti ricordi a luci rosse, bensì storie di soprusi e vessazioni del genere umano a luci fosche che fanno rivoltare lo stomaco e che meriterebbero un approfondimento appropriato, che non è qui il luogo per farlo.
Ma stavo dimenticando qualcosa di molto particolare che ho visto fare da qualche mio compagno d'infanzia, il quale una volta, in attesa di scoprire l'oggetto misterioso della donna, volle provare intanto col surrogato del buco d'una gallina, la quale, naturalmente, abituata alle dimensioni delle uova, ritengo non ebbe a soffrirne d'un pisellino, anche se la scena non poté non procurarle una certa perplessità, se non proprio spavento, perché lei forse era avvezza solo al dito della padrona, quando le faceva il sondaggio per verificare se avesse o meno adempiuto al dovere di fare l'uovo, prima di essere liberata a ruspare in giro per strada.
Quanto, poco più che bambini, ci si soffermava a fantasticare come sarebbe stata quella bella cosa delle donne! Ed ognuno di noi, dopo aver scoperto che tramite essa si facevano i bambini e convinto che ogni volta che si faceva all'amore ne nasceva uno, pronosticava quanti figli avrebbe voluto avere: tutti non meno di una diecina.
Io però non ho mantenuto la parola, avendone avuto appena tre!
01 maggio 2004