ZIO NICOLA DI MEO


    La natura aveva scherzato con lui. Infatti, mentre da una parte era stata avara, perché lo aveva fatto di statura molto piccola – che io ricordi, sicuramente sarà stata la persona più bassa del paese - sì che un bambino al suo cospetto non avrebbe potuto non sentirsi precocemente grande; da un’altra parte era stata troppo generosa, perché gli aveva dotato mani e piedi di un dito in più: egli aveva infatti sei dita, invece di cinque.

    Non saprei dire se ciò possa averlo avvantaggiato nella vita, a cominciare dalla scuola, dove possa aver imparato prima a fare i conti, dal momento che poteva disporre di due dita in più per toccarsi il naso; o se, invece, ne sia rimasto penalizzato, perché avrà incontrato difficoltà a comporre le decine, procurando peraltro complicazioni anche al maestro, che non poteva limitarsi a spiegare che una decina era costituita da due mani messe insieme, ma avrebbe dovuto aggiungere anche la precisazione che esse dovevano essere costituite dalle ordinarie cinque dita. Uno scolaro così sovraddotato, però, sicuramente sarà tornato utile al maestro per spiegare le dozzine, che erano esattamente la somma delle dita delle sue mani, e chissà come sarà stato egli fiero di agevolare il compito al maestro, guadagnandosi così qualche indulgenza che avrebbe potuto valergli per avere risparmiato qualche scapaccione.

    Quanto precede però è una mera supposizione, perché probabilmente zio Nicola Di Meo - così egli si chiamava - non sarà andato neppure a scuola.

    Egli non era propriamente un mio zio, ma a Banzi, una volta, le persone adulte venivano appellate tutte così. Inoltre, in questo caso, l’appellativo mi viene spontaneo perché egli suscitava sentimenti di affetto proprio come fosse una persona di famiglia, se non di più.

    Uno zio vero, fratello di mio padre, abitava a fianco, zio Nicola abitava invece di fronte nella via Cairoli. Ma, mentre il primo lo vedevo raramente, perché era in campagna dall’alba al tramonto, ed aveva perlopiù un’espressione severa e corrucciata, e quando mi chiamava era solo per comandarmi di andare a portare il vomere ad affilare dal ferraio, l’altro zio dirimpettaio invece me lo potevo godere di più perché era più spesso a casa, soprattutto d’estate, ed era anche simpatico. All’epoca la comunione di vita del vicinato era intensa, con le porte spalancate, tutti seduti fuori in mezzo alla strada, le nostre mamme a cucire, ricamare, fare maglie, calze e centrini con i ferri o l’uncinetto, rammendare, mondare verdure – cimecocozze e fagiolini soprattutto – noi bambini ed adolescenti a conversare con loro e fra di noi, a giocare. Le galline gironzolavano intorno a ruspare qua e là, a beccare qualche foglia di verdura caduta alle nostre mamme o buttata via, erbe spuntate spontaneamente per strada, allora ancora senza asfalto.

    Zio Nicola era uno dei pochi uomini presente nel vicinato, dal momento che la maggior parte dei nostri padri si trovavano all’estero - Germania soprattutto - a lavorare. La sua presenza era tuttavia discreta, vederlo suscitava allegria, perché egli, per quanto vedovo e solo – i suoi tre figli si trovavano lontano - era una persona gioiosa e giocosa, sempre pronta a scherzare ed era occupato a fare le stesse faccende delle nostre mamme.

    Si risparmiava solo di rammendare calze e pantaloni, perché vi provvedeva sua cognata Peppina, abitante anche lei lì vicino, a fianco casa mia. Per il resto, si preparava da mangiare, mondava con molta cura anch’egli patate e fagiolini, infilava soprattutto lunghi peperoni piccanti che esponeva al sole a far essiccare, facendo inserte che, appese alla parete di casa sua, erano più lunghe di lui.

        Qualche peperone piccante, però, lo mangiava subito e rimanevo esterrefatto a vedere con quanta disinvoltura li masticasse e mandasse giù, mentre io, se solo ne avessi assaggiato un minuscolo pezzettino, avrei sentito prendere fuoco la bocca, avrei dovuto soffiare e bere chissà quant'acqua per spegnere quell'incendio, avrei pianto e singhiozzato, sarei diventato tutto rosso in viso.

    Quando era dedito a questi compiti era anche l’occasione buona per osservare le sue mani e per appurare che le dita che le componevano erano effettivamente sei.

    Che fossero sei anche quelle dei piedi, lo si arguiva dal fatto che egli si faceva costruire delle scarpe su misura per lui, con una pianta larga, per quanto molto corte pure quelle. Ovviamente, siccome quelle scarpe saranno costate un po’ di più di quelle ordinarie, egli le doveva far durare più a lungo, sicché erano piene di "cecci", come si chiamavano a Banzi i rattoppi. Non so se i suoi piedi ne soffrissero per ciò, sicuramente ne soffrivano le sue scarpe che, riparate infinite volte, alla fine non ne potevano più e cominciavano ad emettere una sorta di gemiti.

    Io li sentivo quando zio Nicola, quasi ogni sera, rincasava dalla cantina, con la sua andatura incerta e barcollante. Potevo sentirli perché allora il silenzio era totale. Se non c’era il vento ad urlare fuori ed a fischiare in casa nel tentativo di entrare tra le fessure della porta e della finestra, oppure ad emettere suoni simili ad una tromba quando tentava di insinuarsi attraverso la ciminiera, si poteva udire ogni minimo tenue rumore: il ticchettio dell’orologio dentro la cristalliera – rinchiusa lì forse proprio per evitare il baccano che, altrimenti, avrebbe fatto -, il crepitio di qualche mobile, una mosca che osasse spiccare un volo al buio, i passi frettolosi di un topo che avesse avuto la temerarietà di sfidare la vigilanza della gatta, smorzati subito dal fulmineo morbido suo balzo, forse anche il rumore delle ombre nel buio. Queste da piccolo le temevo in modo particolare, ma per fortuna io già dormivo, quando comparivano ad esibirsi nelle loro subdole danze, sollecitate dalle ultime lingue di fiamma nel camino, che manifestavano una folle frenesia, quando si accorgevano che il ceppo che le proiettava stava per spegnerle.

    Una sera però non sentii i gemiti delle scarpe di zio Nicola, non perché non fosse ritornato a casa, oppure perché io stessi dormendo, non li sentii perché la strada era stata coperta da uno strato di neve improvvisa, che aveva impedito alle sue scarpe di fare il normale gioco col quale emettevano il cigolio. Ma ad un certo punto lo sentii fare uno strano trambusto nell'aprire e chiudere la porta della sua casa, causato dall'ammasso di neve che impediva di effettuare i normali movimenti, aggravato ciò dal fatto che la sua lucidità a quell'ora, per via del vino un po' abbondante bevuto in cantina, non era forse del tutto perfetta.

    Allora la porta, già sgangherata di per sé, non chiusa bene, lasciò entrare ospite un sacco di neve nella sua casa - un unico locale a pian terreno -. La tormenta ebbe facile accesso, andandosi a posare in coltre dappertutto: sul suo letto anzitutto (non so se tenendo zio Nicola più caldo o freddo), sul tavolo, sulle sedie, finanche in alto su una tavola dove teneva le forme di formaggio.

    Chissà che sensazione avrà provato svegliandosi in quella magia bianca, se possa aver pensato di essersi ritrovato già in paradiso!

    Andando a studiare a Bologna, mi dovetti separare anche da zio Nicola. Ma un giorno, percorrendo via Indipendenza, feci due incontri di persone conosciute: la prima fu Claudio Villa, che passeggiava con una tuta rossa da motociclista, la seconda fu proprio zio Nicola. Io ebbi un sussulto d'emozione ad imbattermi in lui all'improvviso, stentando quasi a credere ai miei occhi che potesse ritrovarsi lì; anch'egli mi guardò a sua volta incredulo e, per manifestarmi la commozione e gioia provate, profferì  una bestemmia in onore della madonna. Non potetti poi rifiutare di accettare di andare insieme a lui al bar, perché ci tenne ad offrirmi per forza qualcosa.

    Dopo quella volta non ci siamo più incontrati, né è più possibile che ciò avvenga ancora su questa terra. Non rinuncio però alla speranza di poterlo incontrare di nuovo, quando sarà. Sono sicuro che, se saprà del mio arrivo, mi verrà volentieri incontro per salutarmi e darmi il benvenuto e che, anche se io meritassi l'inferno, lui chiederebbe in paradiso il permesso di assentarsi un po' per venirmi a fare visita. Del resto, dove può essere finita una persona così, se non in paradiso?

    Io lo immagino, ritornato bambino, giocare come un discolo monello ai piedi di qualche madonna, che viene presa frequentemente ed irresistibilmente dalla voglia di afferrarlo in braccio e fargli fare "u' ball 'nzin".

19 aprile 2004

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