COSI' ARRIVO' L'AUTOMOBILE
Il mezzo di trasporto per antonomasia era una volta l'asino/a. Come fa vedere bene Guttuso nel suo mirabile affresco posto all'inizio del percorso del Sacro Monte di Varese, Giuseppe vi trasportò con esso la famiglia, insieme ai beni posseduti, quando un angelo del Signore gli apparve in sogno dicendogli: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo“ (Matteo cap. 2 vers. 13-18). Anche se non per adempiere ad una missione così importante, l'asino ha dato nei secoli un aiuto fondamentale alla sopravvivenza di tante famiglie contadine, offrendo il suo servizio di trasporto paziente e tenace per tutte le esigenze: per condurre il contadino lontano in campagna, risparmiandogli la fatica del viaggio; per trasportare fasci di legna, sacchi di frumento e legumi, tinozzi d'uva, offrendo a volte in aggiunta anche la coda per trascinare lo stesso padrone o qualche viandante. Il ricordo di questo mite animale spesso affiora tra quelli della mia infanzia, rivedendolo ora legato agli anelli in ferro ("vucclecch") fissati alle pareti della case, ora trotterellare per i sentieri di campagna, ansante e frettoloso, impaziente di giungere quanto prima a destinazione ed adempiere pertanto alla sua missione. Bastava solo dirgli "ha" ed egli subito s'incamminava. Obbediva a tutti: una volta obbedì anche ad un bambino (si chiamava egli Michele e divenne poi mio cognato), che volle verificare anche lui se quello che stazionava al mulino davanti al traino su cui era salito di soppiatto andasse o meno: allora disse "ha", e con meraviglia, ma anche spavento, vide che l'animale cominciò ad andare. Per fortuna seppe dire in fretta anche "hi", così il carro si fermò subito. Fra i tanti ricordi, indelebili sono quelli di un'ortolana di Genzano di Lucania, che al mattino presto veniva con l'asina a Banzi a vendere la verdura coltivata nell'orto a Capodacqua, svegliandomi con le sue grida di esortazione (la cui eco mi risuona ancora nelle orecchie), alternate ai chicchirichì dei galli, a comperare "ciquere, ciquere!" E poi di altri due venditori ambulanti di frutta, che giravano invece per il paese con un carretto trainato dall'asino: "Z' Carrudd" e "Ciccill u' visciglies", quest'ultimo soprattutto quando arringava le donne, per vincere la competizione con "Lorinz' u' palazzes", come documentato nella famosa "Battaglia tra fruttivendoli". Ma non posso non ricordare anche le piacevoli escursioni fatte con l'asino in compagnia di Luigi Tafaro, quando in groppa ci si recava alla sua vigna lontana, per trasportare dentro la bisaccia panari di uva e fichi prelibati. Le strade erano popolate una volta solo da persone ed animali, l'aria era attraversata esclusivamente dalle loro voci e versi: chicchirichì, nitriti, ragli, belati, muggiti, grugniti, pigolii, cinguettii, garriti, ronzii... ed alla sera canti di serenate e suoni di fisarmoniche, finché non si spegnevano per far posto ai mugghi del vento, allo scroscio della pioggia, ai latrati dei cani, alle grida straziate dei gatti, in estate ai trilli dei grilli ed alle russate degli stanchi contadini. Nelle strade le galline potevano razzolare tranquille per beccare tutto ciò che potesse servire loro per produrre uova genuine: lo potevano fare addirittura anche in piazza, come quelle di donna Teresina quando le lasciava andare in libera uscita (forse nel locale del bar a lato della farmacia se ne percepirà ancora il loro odore). Non solo le galline, anche i tacchini gironzolavano per strada, ed i cani vi si potevano sdraiare al centro a riposare. Talvolta però essi suscitavano un po' di apprensione, come accadeva a me quando transitavo in via Garibaldi e mi imbattevo puntualmente in un cagnaccio che non sapevo se dormiva o faceva finta di farlo, pronto a saltare in piedi ed a ringhiarmi contro; o, poco più giù, nel solito gruppo di tacchini che mi venivano incontro per manifestarmi la loro aggressiva ostilità, arruffando minacciosamente a ruota le loro piume ed allungando il collo per beccarmi. Nelle strade, poi, potevi depositare tranquillamente mucchi di legna e lasciarle lì per tutto il tempo necessario a spaccarle, fare a pezzi ed accatastare in casa; oppure collinette di granturco da spannocchiare; sui marciapiedi stendere ad essiccare spighe di grano, piante di ceci, fave, fagioli, lenticchie per poterne estrarre poi i frutti a colpi di mazza; preparare le botti ad ospitare il vino, oppure le "cannacamere " il grano (il vicino zio Michele u' russ' era al riguardo un mago e ti mostrava con dei saggi, realmente, non metaforicamente, cosa significasse "dare un colpo al cerchio ed uno alla botte". Soprattutto nelle strade si potevano fare i giochi nella tranquillità più assoluta: a girotondo, ad acchiapparsi, a nascondino, ad uno due tre stelle, a saltarsi l'un l'altro, "o' piccl'", a pallone. In via Puglie mi ricordo che si facevano delle partite autentiche, montando le porte con le grucce e le corde che le nostre mamme usavano per appendere i panni ad asciugare.
L'unica apparizione di essere inanimato che avveniva in strada al mio paese era una corriera (il famoso "postale"), che collegava Minervino a Potenza e che la gente usava pressoché esclusivamente quando aveva bisogno di andare all'ospedale San Carlo. Vi passava al mattino presto ed al tardo pomeriggio di ritorno. Noi bambini la vedevamo però solo al pomeriggio ed era un momento di festa quando appariva, annunciata già da lontano dalle sue strombazzate: al suo passaggio era tutto un gridare di gioia ed un battere di mani, nonché un puntuale affacciarsi di una vicina di casa al balcone per regalare il suo dolce sguardo all'autista, come a dirgli: "dai fermati, prendimi e portami via con te". Ma il "postale" non poteva fermarsi, era sempre di corsa, aveva ancora più fretta di quanta ne avessero gli asini, così lei dovette aspettare un altro principe azzurro che la portasse via. Poi, man mano, qualche automobile fece capolino anche a Banzi, acquistata da Lasala, Romeo, dal farmacista, dal medico Lapenna, dai vari maestri (tre presero il Maggiolone della Wolkswagen, due di colore blu, una bianca, un altro la Seicento Fiat), dal collocatore (una Prinz), da padre Marcellino la Cinquecento, dal direttore postale (la 850 Fiat), e così via da altre persone benestanti come Fumarolo (una seicento rossa), giù a scendere alle persone comuni come "Pittruss" (una Seicento multipla per fare il noleggiatore), una seicento bianca mio cognato ... per arrivare alla fiammante mini minor di Conte (forse tuttora in circolazione dopo oltre 40 anni). A scuola, a Palazzo San Gervasio, ci ha trasportato il primo anno di media Mimì Libraso con una Millecento Familiare bianca: ci infilava tutti dentro come sardine una decina (quattro anche nel vano posteriore). Il secondo anno scolastico (1963/1964) si improvvisò noleggiatore Ninidd, anch'egli con un millecento, ma normale. Solo che prese prima la macchina della patente, e ci trasportava pertanto all'avventura, con la paura di essere beccato dalla polizia. Infatti, ogni giorno, al ritorno da scuola, sapendo il punto in cui essa si sarebbe potuta appostare, faceva scendere uno di noi, lo mandava avanti a piedi come vedetta e, avuta la rassicurazione che non ci fosse, si proseguiva il viaggio. Finché accadde un giorno che la polizia era proprio là: Rocco Lancillotti, agitò le braccia in segno di conferma e Ninidd, preso dallo spavento, svoltò bruscamente indietro, per sfuggire ad essa. Si mise a correre indietro verso Palazzo San Gervasio, ma, giunto nei prezzi della stazione di servizio, c'era il professore Piarulli che, in senso opposto, dovendo andare a fare benzina, si fermò in attesa di svoltare. Ninidd, invece, in preda al panico, temette che gli tagliasse la strada, così fece una frenata quanto mai brusca: la macchina sbandò ed andò ad urtare contro l'altra. Non so dopo quanto tempo me ne accorsi dell'accaduto, perché lo scontro mi fece perdere i sensi per la botta presa alla testa e, quando rinvenni, sentii subito la colata calda del rivolo di sangue che mi scendeva in volto: non solo io, tutti avevamo il volto trasformato in una maschera sanguinante. Per non finire fuori tema, voglio qui solo aggiungere che quell'incidente mi fece apprezzare la grande umanità delle signore di Palazzo San Gervasio, che intervennero subito a soccorrerci, a coprirci con i loro scialli (il fatto accadde nel mese di novembre e faceva freddino), a rincuorarci; e poi del professore di lettere nonché notaio Proto, che si precipitò nell'ambulatorio a starci vicino, ad incoraggiarci mentre il dottore ci suturava le ferite (ci diede da bere anche del cognac e fu la prima volta che io lo bevvi). Non era un'automobile, ma anche Peppin' lo scarparo ("Somastr") si dotò di una carrozzella a manovella per non trascinarsi sulle stampelle. Quando la collaudò, c'era ad assisterlo un tale Michele, il quale vedendo che "Somastr" stava prendendo troppa velocità (giacché era in discesa il tratto di strada), si affannò a dire "fri...fri..fri...fri" (voleva dire "frin'", cioè frena). Ma, giacché, nell'attesa che gli uscisse la "n" finale dalla bocca, "Somastr" si era già rovesciato con la carrozzella, egli concluse la parola tramutandola sconsolato in "fricht'".
Le automobili giunsero sempre più numerose anche a Banzi, tante portate dagli emigranti, che mostravano con esse di essersi riscattati, di aver fatto un salto nel loro stato sociale: all'inizio erano tante cinquecento, poi giunsero anche le Alfa Romeo ed ogni specie di marca. Di esse si faceva sfoggio (e lo si fa tuttora) soprattutto in occasione dei matrimoni, quando sfilavano in tante dietro quella degli sposi: mia madre dal balcone, quando transitava il corteo, le contava puntualmente e, in relazione al loro numero, stimava l'importanza delle nozze. Ma ogni occasione è buona per sfogare l'istinto fanciullesco di far casino con le macchine, come quando si sfila per festeggiare la vittoria di qualche partita importante della squadra di calcio della nazionale. Io ho indugiato alquanto a comperare la macchina, che non ho mai ritenuto una priorità, e della quale, finché ho potuto, ne ho fatto volentieri a meno. Per tanto tempo mi è bastata solo la macchina da scrivere, una Olivetti portatile con la quale mi sono battuto anche la tesi di laurea. Quando facevo l'università a Bologna, una volta parlando con un altro studente, mi disse che aveva acquistato una macchinetta. A mia volta dissi: "io ho una Olivetti portatile, tu cosa hai comperato?". "Veramente - egli rispose - io avrei preso non una macchina da scrivere, bensì una Cinquecento"...esulava dai miei orizzonti l'idea che uno studente potesse già pensare ad acquistare l'automobile. Tuttavia, se l'automobile (una Citroen GS usata) l'ho acquistata solo per necessità nel 1981 (per portare i bambini all'asilo nido), a guidarla avevo imparato molto tempo prima, esercitandomi all'inizio con quelle dell'autoscontro, poi con quella vera di un mio cognato (una millecento, col cambio vicino al volante) all'età di 14/15 anni, prendendo la patente infine da privatista. Il mio esordio con la macchina a Banzi l'ho fatto solo nel 1984, con una Panda 45 stracarica di figli, bagagli ed entusiasmo fino all'inverosimile. Ma, più che il mio primo viaggio in automobile, mi piace ricordare l'ultimo asino visto trotterellare al mio paese: era quello di Vito Simone dalle parti di Banzullo nell'estate del 2000. Ora, anche a Banzi, davanti e dietro casa, è un assedio di automobili. Sembra accaduto in un tempo remotissimo il primo viaggio fatto con mia madre a Genzano di Lucania col "Postale", quando tutti gli alberi della campagna parevano ruotarmi intorno, o quando feci il primo viaggio a Potenza per andare a riparare all'ospedale i danni riportati nell'incidente detto sopra. Tutto si fa ora con l'automobile: dal primo viaggio per andare a casa dopo essere nati all'ospedale, fino all'ultimo per essere condotti nel luogo dell'eterno riposo. Forse una volta era più umano essere portati al cimitero sulle spalle, ricevere e dare quell'ultimo contatto. Ora ti aspetta una Mercedes: a Banzi quella di Michele, che non vedrà l'ora di farti fare quel viaggio, trasportato rinchiuso dentro sigillato, senza poter udire neppure i rintocchi della campane, che suonano per darti l'ultimo saluto. Dopo questo revival di ricordi, desidero fare un omaggio ad un poeta calabrese, Franco Costabile (Sambiase, 1924 - 1965) morto suicida a 41 anni. Egli fa parte di un gruppo di poeti "maledetti" calabresi, come Lorenzo Calogero, Michele Rio, Domenico Zappone, il sacerdote Franco Bellissimo, anch'essi finiti tutti suicidi. Ecco due sue struggenti poesie:
E DOV'ERANO SOLO FILI D'ERBA
E
dov'erano solo fili d'erba
... ancora un'opera di Guttuso |
14 dicembre 2008