I GRATTACIELI DI POTENZA
.... e di Banzi
Una volta le
case, a Banzi, erano quasi tutte a pian terreno, davvero rare essendo quelle che
fossero di due piani.
Qualcuna di queste ultime si trova proprio davanti a casa
mia, anzi di mio padre. Ma costruita dopo quella sua, negli anni trenta,
inaugurata - dopo un pellegrinare tra una casa e l'altra - con la prima sua
moglie Filomena Simone, con cui si sposò l'8 gennaio 1933, lì morta nel 1939,
dal cui matrimonio nacque unicamente mia sorella Anna.
Nello stesso anno, esattamente il 21 dicembre, mandato giù
il dispiacere per spirito di sopravvivenza, prese in moglie mia madre Severina
Teto di Genzano, la quale non esitò a desiderare di diventarle sua sposa,
nonostante vedovo e con una figlia, quando vide quanto fosse ancora giovane e
bello Lorenzo Carcuro (aveva solo 28 anni), e dopo che suo padre acconsentì per
aver avuto informazioni positive sul fatto che quel vedovo fosse anche un grande
lavoratore e con la testa a posto.
Così anche mia madre poté da quella casa vedere al mattino
sorgere direttamente da Genzano il sole, non essendovi niente nella libera
campagna circostante che vi si interponesse, che si riversava tutto dentro
inondandola di luce, invogliandola subito a spalancare porte e finestre - anzi
la porta e la finestra - per accogliere quel gradito ospite, quand'anche
accompagnato da mosche.
Dopo però arrivò Peppino Massaro a costruire la sua casa a
due piani, ed il sole, per poter entrare in casa nostra, bisognava aspettare che
si arrampicasse prima sul tetto di quella di fronte. In anni recenti c'è stato
poi anche Tonino Giacomino che ha costruito una sorta di abbaino sulla sua casa,
e questo abbaino, durante l'inverno, quando i miei genitori cercavano di
scaldarsi ai raggi del sole dietro la porta del balcone, procura anch'esso una fastidiosa
breve eclissi. Ma poco male.
A fianco della casa di Massaro sorsero altre due case a due
piani, che suscitavano pure loro un certo senso d'invidia, per essere più alte
di quella nostra: in una ci abitava la famiglia di Michele Iacovera (con zia
Maria, Teresa, Ninetta, Erminio - mio compagno di scuola e d'avventure - e
Rino), nell'altra un altro zio Michele, con zia Filomena ed il figlio Peppino,
detto "Mastron", famoso per aver costruito la fontana, appunto "ammont
alla funtan", sua (c'è qualcuno che per caso abbia qualche foto della
fontana? Mi piacerebbe inserirla in questo sito, per conservarne la memoria,
visto che a Banzi c'è sempre qualche sindaco che decide di abbattere qualcosa).
Quelle due case non appartengono più a quelle famiglie, ma
sono venuto a sentire che uno dei figli di Iacovera, Ninetta se non violo la
privacy, sarebbe stata disposta a pagare non so che prezzo, pur di riaverla, non
tanto - penso - per venire in vacanza, quanto per ritornare ancora a vivere
sporadicamente tra quelle pareti di via Garibaldi.
Quando essi immigrarono a Bologna, ci venne ad abitare Maria
la pietragallese col figlio Antonio, che faceva l'impiegato postale. Un giorno
Maria, che mi faceva sempre compilare la schedina del totocalcio, dandomi anche
la responsabilità di mettere l'1 il 2, oppure la X, mi fece vedere una cosa che
fu per me una sorpresa sensazionale: una stanza al primo piano l'aveva adibita a
ricovero dei passeri, i quali svolazzavano liberi di entrare ed uscire quando
volevano!
Ma dicevo sopra dell'invidia per le case a due piani, la
quale era suscitata dal fatto che da esse si poteva
vedere il mondo dall'alto, ci si poteva affacciare al balcone quando passava la
processione, che doveva essere tutta un'altra cosa ammirarla dall'altezza di tre
metri, come potevo constatare quando mi capitava di andarci su. Il motivo
prevalente era che mi chiamava la mamma di zia Vitamaria per andarle ad infilare
il filo nella cruna dell'ago, perché ci vedeva poco, ed a quell'epoca non si
usavano gli occhiali.
Però altre volte, non mi ricordo con quale permesso, si
andava in quella casa anche per divertirci a ruzzolare col sedere sui gradini
della ripida rampa della scala, procurando alle nostre mamme qualche buco da
rattoppare nei pantaloncini.
Comunque, anche a casa mia c'era una specie di secondo piano
interno, un soppalco di legno usato soprattutto per stivare il grano dentro le
cannacamere (il computer mi sottolinea in rosso questa parola perché ne ignora
l'esistenza), costruite da un altro zio Michele - Di Paolo di cognome - nostro
vicino di casa e compare, soprannominato "U Russ" (questo soprannome
non mi pare di leggerlo nella pagina http://www.banzi-bysapio.net/soprannomi.htm
), padre di "Mast N'col".
Una volta mentre mia madre, da sopra una sedia, stava
versando il grano in uno di questi silos, la cannacamera si è squarciata e l'ha
travolta facendola cadere sul pavimento da un'altezza di quasi tre metri: se la
cavò solo con un livido ai glutei, che ammortizzarono l'impatto. Penso però
che dopo si sia comunque recata in pellegrinaggio a Tolve per ringraziare San
Rocco.
Ma, se già dal balcone al primo piano faceva un certo
effetto guardare il mondo dall'alto, che impressione poteva fare guardarlo da un
grattacielo? Sì perché ad un certo punto venni a scoprire che, oltre alla
"grattacase" (grattugie), c'erano anche i "grattacieli", il
cui termine evocava l'immagine fantastica di un qualcosa che potesse grattare,
anzi grattugiare, non il formaggio (quando lo facevo io, mia madre mi diceva che
dovevo intanto cantare, in modo da poter controllare che non fosse più il
formaggio che veniva morsicato da me, rispetto a quello che veniva grattugiato),
bensì il cielo.
Tale scoperta avvenne allorché qualche mio compagno, di
ritorno da Potenza - per essere stato ricoverato in ospedale per la classica
operazione all'appendice od alle tonsille, oppure per mettere il gesso al
braccio od alla gamba a seguito di fratture - si vantava di avervi visto i
grattacieli.
Ma come sono? - gli domandavamo. E lui: " Eh sono
altissimi, di oltre dieci piani! E poi hanno anche gli ascensori!". E tu
allora cercavi di immaginare questi mostri che, invece di grattugiare il
formaggio, grattugiavano il cielo, e poi ci salivi su con l'ascensore, soffrendo
tuttavia incredibili vertigini, per andare a raccogliere il cielo grattugiato,
che chissà che sapore doveva avere!
E spesso mi affliggevo per la sfortuna che mi perseguitava,
perché a me non capitava mai di rompermi un braccio od una gamba, o che mi
venisse almeno l'appendicite o la tonsillite! Ma questo desiderio mi venne
esaudito, allorché Ninidd, che ci portava a scuola a Palazzo San Gervasio con
la sua millecento, senza patente, un giorno di novembre del 1963, in preda al
panico per sfuggire alla polizia stradale che ci stava inseguendo, ci portò a
sbattere contro un'altra automobile. Così potetti finalmente procurarmi la
sospirata frattura al braccio, ed in aggiunta una bella ferita alla testa, e
potetti vedere i grattacieli di Potenza anch'io.
Se non avessi avuto quell'incidente, un piccolo grattacielo
avrei potuto vederlo comunque, di lì a breve, anche a Banzi, costruito
probabilmente per iniziativa dell'allora sindaco Marotta, che compensò così
l'abbattimento della torre campanaria della piazza.
Lì vi andarono ad abitare, oltre al sindaco medesimo, quelli che una volta si chiamavano
i piccoli borghesi, traendo forse da ciò anche un altro motivo di distinzione
sociale. Non so però se usassero l'ascensore, non perché non ci fosse, ma
forse perché bisognava inserire cinque o dieci lire per farlo funzionare, e
chissà quanti avranno voluto risparmiare quelle lire!
Probabilmente anche la dislocazione nel palazzo sarà
avvenuta rispettando una sorta di gerarchia, sì che, ad esempio, i direttori si
sono collocati in alto all'ultimo piano, mentre in quello più basso c'è andato
a finire qualche borghese piccolo piccolo.
Forse il sindaco Vertone, nel presentare Banzi al vescovo
Ricchiuti come una moderna cittadina,
avrà pensato che esso possa essere ritenuto tale proprio perché c'è un
grattacielo e tante ville sparse (tra esse mica male la sua), non importa poi
che qualcuna dovrebbe essere abbattuta perché costruita con abuso edilizio -
preciso non in vigenza della sua amministrazione, ma di quella precedente -,
qualche altra specie di reggia eretta da qualcuno spillando un pacco di milioni
in prestito a diversi cittadini, i quali alla fine si sono resi conto di
essere stati turlupinati, non essendosi la maggior parte visti restituire più
niente, e costretti pertanto, senza alcuna voglia, a porre in pratica la
preghiera del "Padre Nostro", nella parte relativa all'esortazione di
"rimettere i debiti al debitore".
I proprietari di tali ville pagheranno poi anche poca ICI,
perché beneficiano della detrazione, mentre l'ICI la pagheranno senza
detrazione quelli come me, che continueranno a tenere la casa paterna
(considerata dalla legge nientedimeno che come un lusso) perché lì ci sono
state tante nascite e tante morti ed è come un museo di famiglia che non può
essere chiuso.
Ma i pomposi discorsi ufficiali fanno diventare "Banzi una
moderna cittadina con una grande storia ed un grande cuore". Di qualche
brandello di essa, relativa agli ultimi cinquant'anni , forse se ne può leggere
qualcuno nelle pagine di questo sito.
Non so quanto ci sia motivo di andarne orgogliosi. Ne andrà
forse qualcuno che, pur dopo aver imbrogliato il prossimo, vuoi non restituendo
più i prestiti ricevuti, vuoi esercitando illecitamente delle professioni,
facendo perdere un occhio a tua madre, invece di sparire dalla circolazione per la vergogna, continua spudoratamente a
fare su e giù in piazza, ancora da padrone, costringendo caso mai te ad
abbassare lo sguardo quando lo incontri, trattato peraltro anche come ospite di
riguardo nei palazzi del potere.
Spero che don Filippo, allorché rivolgerà al
gregge dei fedeli di Banzi il saluto finale di commiato, usi le stesse parole
con cui ha salutato il vescovo nella sua prima visita al nostro paese,
"Pace e bene", e che esse possano portare un po' di consolazione e
sollievo a coloro che non credono, non a Dio, bensì all'enfasi della retorica.
04 dicembre 2005
RIMEMBANZI
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