"SANTO" NELL'ALTO DEI CIELI
Finì anch'egli in "Una giornata particolare" mia: quella del 9 ottobre 2006. Allora confondevo sia il suo nome, sia il suo cognome, chiamandolo Antonio Lamanna: invece egli era Santo Antonino La Manna. Ed era un collega scoperto per caso dopo alcuni mesi che stavamo già viaggiando assieme. Saliva sul treno ad Arona (io invece ero già su perché lo prendevo a Gallarate) e scendeva come me a Domodossola, stazione di fine corsa. Lo vedevo affacciarsi davanti alla stazione, talvolta temporeggiare un po', poi dileguarsi. Ad un certo punto mi venne da chiedere cosa venisse a fare costui a Domodossola. Lo scoprii una mattina quando, scambiando egli qualche battuta col capotreno, questi gli si rivolse scherzosamente dicendo: "senti, tu che sei un boss del comune...". Stai a vedere, esclamai tra me e me, che questo è un mio collega! Mi avvicinai allora ed a bruciapelo gli domandai: "ma per caso sei un segretario comunale"? "Sì, di Beura Cardezza", egli mi rispose. E ci scambiammo una calorosa stretta di mano di piacere. Da quel giorno siamo diventati compagni di viaggio, pressoché inseparabili. Se per caso io stavo dormendo quando il treno arrivava ad Arona, egli mi veniva a cercare. Ma se mi vedeva assopito, era sempre discreto da non disturbarmi: si sedeva nei paraggi, mettendosi a leggere "La Stampa". Quando socchiudevo gli occhi, sapevo che era pronto ad offrirsi alla conversazione, in modo sempre amabile, non disdegnando qualunque mia battuta, ed io, a mia volta, le sue. Spesso mi iniettava di prima mattina una dose di buon umore, dandomi da leggere la rubrica "Buongiorno" di Gramellini. L'incontro più bello era però quello di ritorno del lunedì sera, quando entrambi prendevamo il treno delle 18.55 da Domodossola, dopo una lunga giornata di lavoro, soprattutto per me che ero transitato da tre comuni, con seduta di giunta nell'ultimo. Era un momento di liberazione ed euforia: "Antonio" - gli dicevo - "è stata dura a sopravvivere a questa giornata, ma considero la settimana praticamente già finita". Talvolta, però, c'erano anche da raccontare le amarezze ingoiate nella giornata, offrendomi ai suoi sfoghi, quando indignato inveiva contro qualcuno con cui aveva a che fare da vicino, che si comportava con lui (testuali sue parole) "come una bestia disumana". Allora io gli raccontavo delle bestie con cui avevo avuto a che fare anch'io nei precedenti comuni, per far sì che nel mal comune si potesse trovare un mezzo gaudio. Ma talvolta gli suggerivo di non aspettare il rinnovo delle elezioni comunali, di cercarsi qualche altro comune prima, in modo da evitare di esporsi al rischio del ludibrio di non essere confermato segretario, come era successo a me. Egli, però, rifiutava categoricamente l'idea di dover andare incontro ad altre avventure, dopo oltre venticinque anni di servizio prestato a Beura Cardezza: "non intendo andare da nessun'altra parte, succeda quel che succeda", mi diceva rassegnato. Effettivamente avevo la sensazione che egli nel comune di Beura Cardezza avesse costruito una seconda famiglia: lo si capiva dalla premura quasi amorevole con la quale i dipendenti, ora l'uno, ora l'altro, erano ad aspettarlo fuori dalla stazione per condurlo in municipio, perché egli era senza patente e non poteva guidare. L'anno scorso non lo vidi per qualche giorno. Stavo per telefonargli, ma egli mi precedette: come se mi desse una bella notizia, mi disse con tono di voce allegro che aveva fatto un ictus, ma che sarebbe tornato presto al lavoro, perché lo aveva superato bene, senza strascichi particolari. Effettivamente, quando lo rividi, gli chiesi se si prendesse gioco di me nel dirmi quella cosa, perché era tale e quale a prima, senza aver perso nulla in simpatia, umorismo e brio.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, stagione dopo stagione, con La Manna stavo viaggiando da oltre tre anni insieme, lambendo le rive del Lago Maggiore ed attraversando le montagne dell'Ossola, ora col cielo azzurro, ora col cielo plumbeo che riversava pioggia e neve (tantissima quest'inverno scorso). Quando al mattino il treno faceva ingresso in stazione ad Arona, buttavo l'occhio sul marciapiede ed egli era là. Mi affacciavo al finestrino, emettevo un fischio ed egli faceva subito un cenno di mano ed un sorriso per significare che mi aveva visto: dopo qualche attimo era insieme a me, sempre pronto a gradire qualche battuta, facendomi provare la sensazione di essere un attore di teatro. Così, fino a lunedì scorso, quando stavo per proseguire per Domodossola, anziché scendere a Verbania (tanto era il piacere di stare insieme a conversare con lui): Santo però se n'è avveduto e mi ha detto: "guarda che tu stamattina devi scendere a Verbania, non a Domodossola", consentendomi così all'ultimo istante di precipitarmi giù dal treno. Martedì mattina invece non ci siamo incontrati, Ci siamo incontrati al pomeriggio a Domodossola, per prendere lo stesso treno delle 16.55. Quando sono giunto in stazione, era già lì sul marciapiede ad attendere il treno. Gli sono andato dietro di soppiatto per fargli lo scherzo di strappargli la cartella di mano. Ma lui non l'ha mollata. Allora gli ho detto: "ma cos'hai dentro di tanto prezioso per tenerla così stretta"? Nell'attesa dell'arrivo del treno, mi ha detto che era andato dal dentista a farsi la pulizia dei denti. Al che ho aggiunto un'altra battuta: "così potrai pomiciare bene con ...." (ben sapendo che egli è persona assolutamente corretta ed innocua). Poi abbiamo preso posto in treno sempre con quel clima di allegria. Senonché, dopo una diecina di chilometri egli mi dice: "sento dentro una sensazione bestiale", avverto prurito e gonfiore alla faccia ed alle mani". Anche il suo volto aveva perso di vivacità. Gli faccio cambiare posto allora, tiro giù il finestrino per fargli prendere più aria."Mettiti tranquillo" - gli dico - togliti le scarpe e distendi i piedi sul sedile di fronte. Egli cambia posto, ma non mette i piedi sul sedile. Intanto lo osservo attentamente, cercando di capire le sue condizioni di salute. Dopo un po' mi dice che si sentiva meglio. Ma, giunti a Stresa, tira fuori il cellulare e chiama sua moglie per dare disposizioni che lo andassero a prendere, perché, dice, "mi sento male". Con un certo anticipo rispetto all'ingresso in stazione, egli si alza per scendere, ma vedo che ha un equilibrio precario. "Stai seduto fino alla fine" gli dico, "poi ti aiuto a scendere io". Così si risiede. Giunti finalmente in stazione, lo precedo ad alzarmi e lo aiuto a scendere. Sarebbe dovuta venire sua figlia a prenderlo: se non era già lì, sarebbe arrivata a momenti. Risalgo sul treno alquanto perplesso ed in ansia, vedendo che il collega era rimasto immobile in piedi sul marciapiede, con la mano appoggiata ad un pilastro della pensilina. Sceso a Gallarate dopo un quarto d'ora, la prima cosa che faccio lo chiamo sul cellulare, per sincerarmi delle sue condizioni. Sento rispondere sua figlia che mi rassicura dicendomi che era in macchina con lei e che lo stava portando al pronto soccorso: "auguri" le dico, concludendo la telefonata. Senonché, il mattino seguente, già verso le 8.30 vedo diverse chiamate sul cellulare provenienti dal comune di Piedimulera. Richiamo subito per capire di che si trattasse. Era l'Annamaria, che abita proprio a Beura Cardezza e che mi cercava per darmi la terribile, ferale notizia della morte del dottor La Manna!
Caro Santo, da "una giornata particolare", piano piano, discretamente, entrasti nella mia vita, venisti a farne parte, a riempirla con la tua bonomia, la tua simpatia, la tua lealtà, la tua sincerità, la tua modestia; senza accorgermene, eri diventato molto più d'un compagno di viaggio. Di qui in avanti però i miei viaggi saranno silenziosi e tristi, senza più te ad aspettare il mio stesso treno, a darmi il tuo allegro buon giorno, ad ascoltarmi, a manifestarmi la tua solidarietà, a darmi conforto, senza più bisogno che tu ne abbia da me. E quando di ritorno il treno si fermerà alla stazione di Arona, cercherò di rimanere assopito, di attraversarla in apnea, per non guardare sul marciapiede dove martedì 26 maggio, verso le ore 17,45, ti vidi rimanere immobile ad aspettare tua figlia e, dopo mezz'ora, la tua fine. Tu però ti chiami Santo, ed io spero ardentemente, non solo per il nome che porti, ma per la bontà che hai dispensato nella tua vita terrena, che possa ora ritrovarti nell'alto dei cieli, non in cieli vuoti però, in cieli pieni di prati verdi, giardini fioriti che olezzino fragranti profumi, giardini più variopinti e profumati di quelli che sul finire di maggio lasciasti sulla terra di questo mondo. Amen.
P. S. Santo, debbo farti però un rimprovero, perché alla stazione di Domodossola, mentre ci accingevamo al nostro ultimo viaggio insieme, tu mi dicesti una bugia: nella cartella che tenevi stretta non è vero che non c'era niente di prezioso, la tenevi stretta perché dentro ti eri messo un po' della mia anima per portarla via con te.
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29 maggio 2009